La prevalenza dell’«homo videns»
Introduzione
Secondo la rivista scientifica Biologist, in Gran Bretagna i bambini di 6 anni hanno già passato in media un anno a guardare la televisione. Questa teledipendenza produrrebbe deficit visivo, obesità, autismo, alterazione dei ritmi biologici di sonno-veglia (1). D’altra parte, per capire l’invadenza della televisione nella vita quotidiana, è sufficiente osservare l’evoluzione delle sue dimensioni fisiche. I televisori sono talmente grandi che le persone sembrano uscire dallo schermo. Oppure sono talmente piccoli (si pensi ai videofonini), che possono stare in una tasca. Sia in un caso che nell’altro, la televisione «entra» nella vita delle persone. Se si ascoltano le sirene della pubblicità, questo è un vantaggio che il progresso ci regala. Se invece si fanno prevalere l’intelligenza e la razionalità, le cose non stanno proprio così.
Il Grande Fratello e la globalizzazione del trash
La cosa che più impressiona è la globalizzazione del trash televisivo. Attraverso i format (2), in mezzo mondo si vedono gli stessi programmi (magari adattati all’audience nazionale) e soprattutto gli stessi reality show o reality game. Ecco qualche titolo.
Uno dei format più famosi è il Grande Fratello (in inglese Big Brother, in spagnolo Gran Hermano), proprietà della società olandese Endemol. Vari programmi di quiz – Il prezzo è giusto, La ruota della fortuna, ecc. – sono stati prodotti dall’australiana Grundy, oggi proprietà del colosso tedesco Bertelsmann. Alla Grundy-Bertelsmann si debbono anche il reality show West Wild West e l’impossibile Distraction, condotto da Enrico Papi, che già aveva avuto la conduzione de La pupa e il secchione, format sessista della società statunitense The WB Television.
Altri reality noti della televisione italiana sono L’isola dei famosi (Rai), La fattoria (Mediaset) e La talpa (Mediaset). Questi programmi hanno come protagonisti personaggi noti, tali da garantire un adeguato ritorno pubblicitario. Sono programmi che non faticano a trovare autogiustificazioni alla loro esistenza. Sono programmi infarciti di pubblicità (diretta o indiretta), di luoghi comuni, di divismo ridicolo. Con l’aggravante di essere girati in luoghi naturali affascinanti – gli ultimi sono stati l’Honduras, il Marocco, il Kenya -, che vengono «usati» con l’arroganza tipica dei ricchi e potenti verso i meno fortunati.
Non mancano neppure i programmi sui «buoni sentimenti», l’«amore» e le «lacrime»: Uomini e donne (Mediaset), C’è posta per te (Mediaset), Stranamore (Mediaset), Amici di sera (Mediaset). Insomma, parafrasando uno slogan, in televisione c’è di tutto e di più.
Si dice che questi programmi vogliono regalare momenti di serenità, facendo evadere da una realtà spesso faticosa o insopportabile. Nessuno nega che la televisione possa perseguire anche una finalità di questo tipo. Ma quando questo obiettivo diventa prevalente, la finzione (attenzione a questo termine!) televisiva finisce con il sostituirsi alla realtà, che diventa secondaria.
La pubblicità snatura l’informazione (o la uccide)
Abbiamo già introdotto il tema della pubblicità. Ebbene, una delle regole fondamentali di chi fa informazione dovrebbe essere quella di tenere ben distinte informazione e pubblicità. Invece, da una parte la pubblicità sta soffocando l’informazione; dall’altra, dove la pubblicità viene a mancare (come nei media più deboli) l’informazione rischia di scomparire per carenza di risorse economiche. Insomma, in un caso o nell’altro, l’informazione si dibatte in un circolo mortale.
La conseguenza ultima, in atto in tutto il mondo, è la concentrazione dei media nelle mani di poche multinazionali dell’informazione e della comunicazione. Si pensi all’impero mediatico di Rupert Murdoch, che spazia dall’Australia agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna all’Italia (dove possiede la televisione satellitare Sky).
Ora, la prima conseguenza della concentrazione è la riduzione del pluralismo (esempio: se tutti i principali telegiornali dicono che i cattivi sono quello stato o quel gruppo, è evidente che con più difficoltà il pubblico potrà elaborare un’idea diversa; è accaduto per tutte le ultime guerre dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Somalia fino al possibile, prossimo attacco all’Iran). D’altra parte, la crescita di potere delle multinazionali produce altre gravi conseguenze: la sottomissione dell’informazione al potere economico (esempio: «se parlate male di quell’industria, di quella banca, di quel farmaco, di quella grande opera, di quel fondo d’investimento o di quella privatizzazione, i vostri posti di lavoro saranno a rischio»; «se scrivete che i Suv sono una mostruosità ambientale, il nostro ufficio marketing si rivolgerà ai vostri concorrenti») (3) da cui – nessun dubbio al riguardo – dipende il potere politico (esempio: «se tu politico ti schieri diversamente, io ordino ai miei giornali e alle mie televisioni di fare una campagna contro di te e il tuo partito»).
Ancora più complesso è il caso italiano. In Italia, infatti, forse non sarà mai possibile una riforma del sistema della comunicazione e in particolare del sistema televisivo. E il motivo è presto detto: chi è da tempo sul mercato (la Rai, ma soprattutto Mediaset), non vuole perdere neppure una fettina della torta pubblicitaria di cui si è impossessato. Con una duplice conseguenza: i programmi (in primis, quelli di Mediaset) trasudano pubblicità e gli altri media (in particolare, la stampa) non raccolgono pubblicità sufficiente a far quadrare i bilanci, mettendo quindi a rischio la loro indipendenza o, per i più piccoli tra essi, la loro stessa sopravvivenza.
Leggere o vedere? Vedere, vedere, vedere
Toiamo alla tv e cerchiamo di capire perché ha surclassato gli altri media. La prima risposta è (apparentemente) facile facile: leggere costa più fatica che guardare.
Come ha splendidamente spiegato Giovanni Sartori: «La televisione – lo dice il nome – è “vedere da lontano” (tele), e cioè portare al cospetto di un pubblico di spettatori cose da vedere da dovunque, da qualsiasi luogo e distanza. E nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine, commenta l’immagine. Ne consegue che il telespettatore è più un animale vedente che non un animale simbolico. Per lui le cose raffigurate in immagini contano e pesano più delle cose dette in parole. E questo è un radicale rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo sapiens dall’animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali, al genere di cui l’homo sapiens è specie» (4). Insomma, «l’homo sapiens viene soppiantato dall’homo videns».
In Italia, il Censis distingue 5 categorie di utenti dei media: i pionieri (con 8 o più diversi media), gli onnivori (con 6-7 media), i consumatori medi (con 4-5 media), i poveri di media (con 2-3 media) e i marginali (con un solo mezzo). Tra i marginali, la categoria meno evoluta di utenti dei media, la televisione è il mezzo nettamente prevalente. Nel 2006, la popolazione italiana ha usato la televisione (94,4%), i quotidiani (59,1%), i libri (55,3%), internet (37,6%). La televisione, dunque, vince alla grande, ma – dicono le indagini – il grado di soddisfazione degli utenti è modesto (5).
Lo strapotere della televisione è chiarito dai numeri. Nel 2006 il quotidiano più letto d’Italia è stato La Repubblica, con una media giornaliera di 3.015.000 lettori (6). Confrontiamo questo dato con alcuni dati televisivi relativi al 21 e 22 febbraio: il Tg2 delle 20.30 ha avuto un’audience di 3.131.000 spettatori; il programma di intrattenimento Cultura modea slurp ha avuto 5.519.000 e il reality show Grande Fratello è arrivato a 5.693.000 spettatori (7).
L’obiettività? Non esiste
Altra risposta per spiegare la vittoria della televisione sugli altri media, potrebbe essere quella di una maggiore credibilità della tv.
Sfortunatamente, l’obiettività non esiste. Non può esistere. Tanto meno in televisione. Scrive Claudio Fracassi: «La distinzione, necessaria ma non ovvia, tra fatti e notizie, tra realtà e racconto, si confonde quando – attraverso la tv – siamo messi apparentemente in grado di vedere i fatti, e quindi di viverli direttamente. L’immagine – essa stessa frutto di una scelta (quella certa fetta di realtà, quella certa inquadratura) – ha assunto la forza propria della concretezza e della verità. (…) Eppure dovrebbe essere evidente che l’immagine della cosa non è la cosa, né può sostituirsi ad essa» (8).
«La televisione – scrive la psicologa Anna Oliverio Ferraris – ha l’ambizione di mostrare la realtà. Ma mentre la mostra la filtra, la trasforma. E lo fa secondo le proprie regole. Secondo la propria ottica. (…) Purtroppo però la gente, molta gente, crede ciecamente a ciò che vede in tv, soprattutto nei Tg grazie al clima di autorevolezza che li circonda. (…) Prendiamo il caso dell’uomo politico che, nel corso di una manifestazione, si trovi al centro delle proteste di un gruppo di cittadini: il giornalista, insieme all’operatore, può decidere di mostrare, attraverso le immagini e il più fedelmente possibile, ciò che sta avvenendo indipendentemente dalle proprie simpatie politiche; oppure può accentuare la protesta inquadrando soltanto il gruppo dei contestatori e non il resto dei partecipanti; può anche, al contrario, ridurre le immagini della protesta confinandola a un impercettibile sottofondo mostrando soprattutto primi piani del politico mentre, sorridente, riceve gli applausi della folla» (9).
Se i fatti diventano irrilevanti
Dopo aver parlato tanto male della televisione (meglio: di questa televisione), uno si chiede se i media scritti siano migliori e più affidabili della tv. La risposta è «no». Per raccogliere acquirenti, i giornali imitano la tv e scelgono di stupire, a qualsiasi costo. Emblematico l’esempio di Libero, uno dei pochi quotidiani italiani che negli ultimi anni ha conquistato lettori (probabilmente proprio per la sua volgarità). Così, nel numero del 22 febbraio, il giorno seguente alla caduta del governo Prodi, il quotidiano di Vittorio Feltri, per esteare la propria gioia, ha fatto una prima pagina di bassissima pornografia (10).
Lo stato dell’informazione in Italia è analizzato, senza fare sconti, da Marco Travaglio nel suo ultimo libro (11). «C’è chi nasconde i fatti – scrive il giornalista – perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggioarsi. C’è chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore, stufo di pagare gli avvocati per qualche rompi… in redazione. C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, prostitute e cardinali, principi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno. C’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del giornale. C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di dover cambiare opinione».
Anno 2040: la morte dei giornali
«La stampa scritta – ha riconosciuto con preoccupazione Ignacio Ramonet, direttore del prestigioso mensile Le Monde Diplomatique – sta attraversando la crisi peggiore della sua storia» (12).
Per non soccombere, i media tradizionali si sono dovuti reinventare (vendendo il giornale assieme a svariati gadget: libri di ogni fatta, cd, video, ma anche orologi, magliette ecc.) oppure adattarsi ad una mera logica mercantile (che guarda al profitto e non alla qualità dell’informazione). «Forse la logica mercantile e del profitto fine a se stesso ha preso il sopravvento sulle altre funzioni dei mass media», conclude amaramente Giuseppe Altamore. Comunque, la morte dei giornali e dei media scritti in generale è stata prevista per il 2040.
Persi tra telecomandi, MP3 ed Sms
«Il mondo di oggi – scrive John Pilger – è pieno di illusioni. La prima di tutte consiste nel credere che viviamo nell’”era dell’informazione”. In realtà ci muoviamo nell’era dei media, un’epoca caratterizzata da un apparente eccesso di informazioni, che di fatto non è altro che la ripetizione di notizie rigorosamente controllate, quindi non pericolose» (13).
Lo scorso 15 febbraio è morto negli Stati Uniti Robert Adler, lo scienziato che nel 1956 inventò il telecomando, uno strumento che non è esagerato definire rivoluzionario. Uno strumento essenziale per fare zapping. Lo spettatore che cambia di continuo canale televisivo (zapper) è come l’utente che cambia di continuo il sito web o il brano sull’I-pod. Per questo, con il diffondersi delle nuove tecnologie e del bombardamento di notizie (information overload), si è iniziato a discutere di «economia dell’attenzione».
Per esempio, mentre legge queste righe uno studente può – contemporaneamente – spedire un Sms ed ascoltare una canzone sul lettore MP3. Ma alla fine cosa gli sarà rimasto in testa? Gli esperti dicono che il nostro cervello è flessibile (soprattutto quello delle donne) e capace di suddividere l’attenzione su molteplici attività, ma che nessuna di queste va a fissarsi sulla memoria a lungo termine.
Questo dossier andrà in alcune scuole superiori, anche perché prende spunto da una serie di temi scolastici sulla televisione. E allora auguriamoci che sia letto e discusso da molti giovani. Magari mettendo da parte, almeno per qualche momento, il cellulare o il telecomando. Anzi, osiamo di più: speriamo che, dopo aver letto, qualcuno di loro riuscirà a ridere di un programma spazzatura, a guardare con sospetto ad una pubblicità, ad ascoltare criticamente un telegiornale o, magari, a spegnere la televisione.
Note:
(1) Citato da Daniele Damele, Università di Udine.
(2) Si veda il glossario finale. Sito: www.tvformats.com.
(3) Si veda l’illuminante saggio di Giuseppe Altamore, I padroni delle notizie, Bruno Mondadori Editore 2006. A pagina 41 di questo dossier un’intervista all’autore.
(4) Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Editori Laterza 1997.
(5) Pasquale Borgomeo, Le diete mediatiche degli italiani, in «La civiltà cattolica», 3 febbraio 2007. Si tratta di un commento ai dati del Censis.
(6) Dati Audipress, seconda indagine 2006. Va precisato che gli acquirenti sono sempre in numero inferiore ai lettori. Ad esempio, con 3 milioni di lettori La Repubblica vende circa 600.000 copie al giorno.
(7) Questi dati – riferiti al 21 e 22 febbraio 2007 – sono facilmente reperibili sul sito di Auditel: www.auditel.it.
(8) Claudio Fracassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, I libri dell’Altritalia, 1994; un saggio vecchio di qualche anno, ma sempre attuale e certamente utile per un percorso didattico sui media e l’informazione.
(9) Anna Oliverio Ferraris, Grammatica televisiva. Pro e contro la Tv, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
(10) Ciò non ha impedito al suo direttore di continuare a pontificare da tutti i canali televisivi, di cui è un assiduo frequentatore.
(11) Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti, Editrice Il Saggiatore, Milano 2006.
(12) Ignacio Ramonet, Minacce all’informazione, Le Monde Diplomatique, gennaio 2007.
(13) John Pilger, Sydney Moing Herald, 28 dicembre 1995, ripreso dal settimanale Internazionale, marzo 1996.
Paolo Moiola