La pateità / mateità è scandalosa
Nel numero precedente di MC non avevamo esaurito del tutto il v.12. Lo riprendiamo per approfondie la portata alla luce della scrittura. Abbiamo visto che il versetto riporta la richiesta del figlio e il gesto del padre come risposta (12b-c: bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. cE il padre divise tra loro le sostanze).
Apparentemente tutto sembra pacifico e lineare, ma così non è perché ci troviamo di fronte a una tragedia.
Solo il primogenito eredita
La richiesta dell’eredità, infatti, da parte del figlio «più giovane», cioè non del primogenito, è contro il diritto e quindi illegale. Per la legislazione biblica il passaggio di eredità da padre in figlio avviene per testamento o per diritto naturale solo dopo la morte, pena l’invalidità (Eb 9, 16-17). Il diritto ereditario del primogenito supera qualsiasi altro legame, anche quello di amore tra marito e moglie:
Se un uomo avrà due mogli, l’una amata e l’altra odiosa, e tanto l’amata quanto l’odiosa gli avranno procreato figli, se il primogenito è il figlio dell’odiosa, quando dividerà tra i suoi figli i beni che possiede, non potrà dare il diritto di primogenito al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiosa, che è il primogenito; ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiosa, dandogli il doppio di quello che possiede; poiché egli è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura (Dt 21,15-17).
L’eredità spirituale di Eliseo
Si può pensare che la stessa idea soggiaccia al racconto di Eliseo che insegue il suo maestro, il profeta Elia a cui, mentre è rapito in cielo da Dio, chiede in eredità due terzi del suo spirito per proseguire la sua stessa missione:
Elia disse a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te». Eliseo rispose: «Due terzi del tuo spirito diventino miei». Quegli soggiunse: «Sei stato esigente nel domandare. Tuttavia, se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso»… Vistolo da una certa distanza, i figli dei profeti di Gerico dissero: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo». Gli andarono incontro e si prostrarono a terra davanti a lui (2Re 2,9-15).
La Legge enumera dettagliatamente gli eventuali passaggi in base alla parentela, perché lo scopo dell’eredità è quello di non frammentare il bene, ma di consegnarlo alle generazioni indiviso, sotto la responsabilità di un garante che è il primogenito:
Quando uno sarà morto senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua eredità alla figlia. Se non ha neppure una figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha fratelli, darete la sua eredità ai fratelli del padre. Se non ci sono fratelli del padre, darete la sua eredità al parente più stretto nella sua famiglia e quegli la possiederà (Nm 27,8-11; per le figlie cf Nm 36,7-9).
Salvaguardia del patrimonio familiare
Al figlio primogenito dunque spettavano due terzi dell’eredità, mentre al minore solo un terzo. Egli però non poteva vendere il proprio terzo prima della morte del padre, che comunque mantiene il diritto dell’usufrutto. Il principio dell’unità del patrimonio è così forte che, anche al tempo di Gesù, se un figlio voleva vendere la parte del proprio patrimonio, vivo ancora il padre, il compratore ne sarebbe entrato in possesso solo dopo la morte del genitore del venditore. Il padre può fare una donazione in vita, ma è sconsigliata per le conseguenze negative che possono sopravvenire:
Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle. Finché vivi e c’è respiro in te, non abbandonarti in potere di nessuno. È meglio che i figli ti preghino che non rivolgerti tu alle loro mani (Sir 33,20-22).
Il primo dato che emerge dalla parabola lucana è l’illegittimità della richiesta del «figlio più giovane» che diventa così una richiesta di morte anticipata del padre per potere godere del suo patrimonio. Nello stesso tempo «il figlio più giovane» viola la Toràh e le sue prescrizioni, dimostrandosi uno senza timore di Dio: per lui nulla ha valore, né il padre che vuole morto, né la Legge di Dio, che trasgredisce senza ritegno, rivelandosi non «figlio della Toràh», ma figlio pagano.
Amare da padre può significare perdere
Egli chiede la «parte di eredità che mi spetta» (v.12), sapendo bene che come «figlio più giovane», cioè secondogenito, non gli spetta alcuna eredità, ma solo quel terzo che nemmeno può alienare.
A rigore di legge, il padre avrebbe potuto buttare fuori di casa il «figlio più giovane» senza dargli nulla; oppure, come abbiamo visto, poteva condurlo in giudizio e chiedee la morte per lapidazione. Chi poteva dargli torto da un punto di vista giuridico?
Al padre però non interessa l’osservanza materiale della legge o avere riconosciuto il suo diritto al prezzo della vita del figlio; egli preferisce distruggere la propria vita, ma tentare di salvare il figliolo, piuttosto che non perdere la faccia, ma perdere il figlio. Non può obbligare con la forza della Legge ad amare con il cuore, perché nessuna legge può imporre i sentimenti e tanto meno l’amore. Non si ama perché si deve, ma si ama perché si vive.
Nel gesto del padre che prende la sua vita e la divide tra i due figli troviamo qualcosa di scandaloso: egli va oltre il diritto, oltre le convenienze, oltre le apparenze e pone se stesso come prezzo della colpa del figlio.
Il figlio pecca, ma è il padre che ne assume il peso e consapevolmente ne intende scontare la pena: «Divise la vita tra loro» (v.12). L’iconografia cristiana nel Medio Evo raffigurava il pellicano che si strappa il cuore per nutrire i suoi figli come simbolo del sacrificio di Cristo che il padre della parabola rappresenta perfettamente:
«A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7-8).
Vangelo puro, senza se e senza ma
Troviamo nel gesto del padre qualcosa di più dell’amore affettivo di un padre: il figlio è un pagano, nemico del padre, e il padre lo ama senza porre condizioni, svelando così nel suo anonimato il volto intimo del Padre dei cieli «che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45):
Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso… Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperae nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,32.35-36).
Il figlio chiede la «natura» del padre e questi va oltre la richiesta e dona tutta la sua stessa vita, con una abbondanza che va contro ogni logica e razionalità. Il padre ha un comportamento decisamente scandaloso: «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo» (Lc 6,29-30).
Il padre che apparentemente sembra un remissivo senza spina dorsale, è invece un campione evangelico, l’esempio vivente dell’incarnazione del messaggio di Gesù:
Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a camminare per un miglio, tu fanne due con lui (Mt 5,38-41).
Il padre e la vedova
Il figlio pretende la parte dei beni che non gli spettano perché non ne ha diritto, mentre il padre rinuncia al suo diritto e offre gratuitamente tutto ciò che è, perché sa che tutto ciò che ha proviene da Dio: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rom 3,23-24).
Egli è la controfigura della vedova che mette nel tesoro del tempio non quello che gli avanza, ma solo tutto ciò che è e tutto ciò che ha per vivere: due monetine, cioè la sua vita (cf Lc 21,2-4).
Chi rappresenta la vera «natura» di Dio è una vedova insignificante e un povero padre che si lascia depredare dal figlio non solo la proprietà, ma la sua stessa vita. Di fronte al figlio peccatore e parricida il padre si offre liberamente contro ogni logica, perché la misericordia non ha la logica della ragione, ma è la ragione dell’amore che genera e salva.
Il figlio è già salvo, anche mentre pecca, perché il padre lo ha riportato nel suo grembo per rifarlo nuovo, per redimerlo. Questo figlio non può perdersi e noi già ora sappiamo che egli si salverà, non perché si convertirà di sua iniziativa, ma solo perché il padre ha posto le premesse della sua redenzione.
Il figlio porterà con sé la vita del padre che si premurerà di custodirlo anche in mezzo ai porci; ma alla fine quella vita del padre che egli sperpererà sarà la forza che lo farà ritornare a casa. Il padre sa che solo lui può salvare il figlio, ma per salvarlo deve morire: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Si è liberi quando si regala la propria libertà
Il figlio guarda al suo tornaconto immorale, il padre al contrario svuota se stesso, perché nulla vada perduto del figlio che vuole dannarsi da solo: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39) e per questo non esita fino a lasciarsi uccidere per non condannare quel figlio che deve ad ogni costo essere salvato: «Spogliò se stesso» (Fil 2,7).
La fede è tutta qui, il cristianesimo non è altro: la libertà di regalare la propria libertà. L’espressione violenta del figlio più giovane, «dammi la parte che mi spetta», significa: vecchio, togliti di mezzo perché sei di ostacolo alla mia realizzazione e quando ti decidi di morire è anche troppo tardi. Io sono giovane e ho la vita davanti, ma tu sei vecchio e quindi inutile: dammi la tua vita che ci penso io a sperperarla.
Il padre sa quello che fa per questo figlio, a cui riconosce il diritto di chiedere la sua vita, perché è lui, il padre, che lo ha chiamato alla vita e non il contrario: «Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).
È lui, il padre, che deve fare testamento per il figlio e non il contrario, che sarebbe innaturale: dividendo la sua vita tra i due figli, il padre sceglie di stare con loro fino in fondo, annullando così la pretesa del figlio di volere vivere per conto suo. Dando la sua vita, il Padre mantiene unito non il patrimonio, ma la vita dei due suoi figli e la sopravvivenza della sua famiglia.
L’Agàpe è Cristo
In greco il verbo «divise – dieîlen» è al tempo aoristo, che indica un’azione definitiva e irreversibile: divise completamente/del tutto/definitivamente, senza possibilità di tornare indietro; il padre non esiste più, perché ora vive nei figli.
Questo padre anonimo, perché espressivo del volto di Dio, è l’opposto del ricco stolto che accumula ricchezze e ingrandisce i suoi silos come se fosse eterno: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divertiti… Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Lc 12,19-20). Al contrario, il padre della parabola considera le sue proprietà nulla, di fronte alla vita del figlio, e non esita ad offrire se stesso gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio: egli è l’immagine incarnata dell’Agàpe di cui Paolo tesse le caratteristiche divine:
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’Agàpe, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’Agàpe, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’Agàpe, niente mi giova. L’Agàpe è paziente, è benigna l’Agàpe; non è invidiosa l’Agàpe, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’Agàpe non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’Agàpe; ma di tutte più grande è l’Agàpe! (1Cor 13,1-8.13).
Luca è discepolo di Paolo e sa perfettamente che per Paolo l’Agàpe non è un sentimento o un atteggiamento morale dovuto, quasi un imperativo della coscienza. Luca sa che l’Agàpe in Paolo non è altri che Gesù Cristo, che manifesta il cuore stesso della rivelazione e cioè che «Dio Agàpe è» (1Gv 4,8).
Qualsiasi morale, qualsiasi comportamento etico, qualsiasi osservanza di regole o precetti… tutto è vanificato e vale nulla, se non è vissuto e sperimentato e consumato nell’amore a… perdere, nell’amore gratuito che dona se stesso, perché soltanto nel dono si compie e si realizza, come il padre della parabola lucana, come Gesù Cristo da cui Paolo si è «lasciato afferrare» (Fil 3,12):
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Cristo, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi Cristo, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi Cristo, niente mi giova. Cristo è paziente, è benigno Cristo; non è invidioso Cristo, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Cristo non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e Cristo; ma di tutte più grande è Cristo!
Non ci resta che tacere, adorare e amare, accogliendo anche noi l’invito di Gesù al dottore della legge: «Va’ e fa anche tu lo stesso» (Lc 10,37). (continua – 9)
Paolo Farinella