Virus mortale dagli animali all’uomo

Malattie dimenticate (7): la febbre di Rift Valley

Il 2006 si è chiuso con una epidemia in Kenya della febbre di Rift Valley, che nella sia pur rara forma emorragica uccide un paziente su due.

I numeri che arrivano dal Kenya, dalla fine del 2006, si inseguono, giorno dopo giorno: 12 casi e 11 morti, 32 e 19, 220 e 82. Un aggioamento continuo in salita. Al momento della scrittura di questo articolo si parla di circa 250 persone infettate e oltre 90 morti, ma il bilancio non è ancora definitivo.
Il responsabile della strage silenziosa, che a dicembre ha iniziato a mietere vittime nel paese, è la febbre di Rift Valley, infezione virale che appartiene principalmente al mondo degli animali domestici (bovini, pecore, capre, cammelli), causandone la morte e portando con sé gravi perdite economiche.
Ma è un’infezione che può essere trasmessa anche all’uomo, con i risultati sopra riportati.

Rara e poco conosciuta

La febbre di Rift Valley è una malattia di origine virale non molto nota e rara. In genere, il sospetto sulla sua presenza nel bestiame scatta di fronte a un aumento non spiegato del numero di aborti spontanei fra gli animali.
La prima volta della febbre di Rift Valley risale a tre quarti di secolo fa. Nel 1930, infatti, è stato isolato per la prima volta il virus responsabile dell’infezione in Kenya.
A seguito di un’epidemia scoppiata fra le pecore di una fattoria nella Rift Valley, erano state fatte analisi che hanno poi portato all’identificazione del virus. Da allora sono state segnalate diverse epidemie nella regione subsahariana e nel Nord Africa, di cui quella maggiormente ricordata risale al 1997-98, sempre in Kenya e nella vicina Somalia (vedi il riquadro).
Risale al 2000 invece la prima segnalazione della malattia, con casi di infezione e decine di morti, in paesi non africani, e più precisamente in Yemen e Arabia Saudita, a seguito dei quali, secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è aumentato il rischio di una possibile espansione dell’infezione in altre zone dell’Asia e dell’Europa.

Nascosta per anni

Il passaggio del virus responsabile della malattia agli uomini avviene principalmente attraverso il contatto con sangue o altri fluidi od organi provenienti da animali malati, come pure viene considerato a rischio il consumo di latte crudo. Inoltre, sembra che il virus possa essere trasmesso tramite la puntura di una zanzara, la zanzara aedes.
In particolare, il collegamento fra epidemie di febbre di Rift Valley e precedenti allagamenti nelle zone interessate passa proprio attraverso questo insetto e i casi nel bestiame vengono in genere osservati negli anni in cui le piogge sono particolarmente abbondanti e vi sono inondazioni.
La zanzara aedes, infatti, prende l’infezione dal bestiame e la trasmette alle sue uova. Le uova infette vengono deposte lungo i corsi dei fiumi, dove possono restare per lunghi periodi, anche diversi anni, in ambiente asciutto, finché, a seguito appunto di abbondanti piogge e inondazioni, non vengono sommerse. Una volta sotto l’acqua, si schiudono dando origine a nuove zanzare infette che, ad anni di distanza dunque, propagano nuovamente il virus, infettando animali e uomini.
Questo circolo porta al mantenimento dell’infezione in natura nel tempo e a un continuo passaggio del virus: zanzare aedes e altre specie non infette, che si nutrono da animali malati con il virus nel circolo sanguigno, si infettano amplificando e mantenendo la diffusione della malattia.

Simile all’influenza, ma non sempre

Nell’uomo, il periodo di incubazione, cioè l’intervallo di tempo tra l’infezione e la comparsa dei primi disturbi, può variare da due a sei giorni. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni della malattia sono lievi, con sintomi simili a quelli dell’influenza: febbre improvvisa, mal di testa, dolori muscolari e alla schiena; talvolta possono esserci anche disturbi che fanno pensare alla meningite, come rigidità al collo, luce fastidiosa per gli occhi (fotofobia) e vomito. Il decorso della malattia si risolve in genere nell’arco di una settimana.
Una piccola parte dei pazienti, tuttavia, può avere disturbi molto più gravi, sviluppando tre tipi di complicazioni: malattia agli occhi (0,5-2% dei casi), meningoencefalite o febbre emorragica (meno dell’1% dei casi).
Da una a tre settimane dopo la comparsa dei primi sintomi, nel primo caso si verificano lesioni alla retina, che possono portare a danni permanenti della vista, mentre nel secondo vi sono manifestazioni neurologiche, se si tratta di meningoencefalite; per entrambe le complicazioni è però rara la morte del paziente.
Non altrettanto rara invece in caso di febbre emorragica: due o quattro giorni dopo l’esordio della malattia, si manifesta una grave forma epatica, con ittero ed emorragie da tutti gli orifizi (come vomito e feci con sangue, chiazze purpuree della pelle per sanguinamenti, sangue dalle gengive). Muore un paziente su due con la forma emorragica (50%), a fronte di una mortalità globale della febbre di Rift Valley che, pur variando fra le diverse epidemie, generalmente non supera l’1%.
Secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nella maggior parte dei casi, in cui le manifestazioni dell’infezione sono lievi e di breve durata, non sono necessarie terapie specifiche, mentre i pazienti più gravi sono seguiti con terapie generali di supporto.
Nell’ambito della prevenzione dell’infezione e delle epidemie rientrano programmi di vaccinazione del bestiame (non vi sono al momento in commercio vaccini per l’uomo), misure di protezione nella gestione di casi e materiale infetto e nei confronti della puntura di zanzare, possibili portatrici della malattia.

In Kenya dopo le inondazioni

In Kenya, i casi di febbre di Rift Valley nelle zone nordorientali del paese, sono stati preceduti anche questa volta da inondazioni, che hanno portato alla nascita di zanzare portatrici del virus da uova infette e a un nuovo propagarsi della malattia.
È difficile avere un quadro preciso della situazione, con conteggi esatti sulla diffusione dell’attuale epidemia: la popolazione a rischio vive in una zona di grandi dimensioni, secondo quanto riportato dall’Organizzazione non governativa (Ong) Medici senza frontiere (Msf), difficile da raggiungere via terra proprio a causa delle inondazioni.
È dunque possibile che le persone infettate, che abitano in fattorie isolate, siano molte di più: secondo Msf potrebbero essere 500 mila i soggetti a rischio e i casi finora identificati potrebbero rappresentare solo una minima parte degli infettati.
Un ulteriore ostacolo a una registrazione corretta dei malati, e quindi a un loro trattamento e contenimento dell’epidemia, è dato, sempre secondo Msf, dalla paura della popolazione nei confronti della febbre di Rift Valley: visto l’alto numero di morti nelle forme gravi, molti pensano non vi sia beneficio nell’affrontare lunghi viaggi per raggiungere i centri di salute, e non vengono quindi visitati e segnalati.

Di Valeria Confalonieri

Epidemie del passato

Nel 1997 si è verificata un’importante epidemia di febbre di Rift Valley in Kenya e in Somalia. Nel mese di dicembre, dopo le abbondanti piogge registrate in ottobre, analogamente a quanto accaduto in quest’ultima epidemia, vennero segnalati nei due paesi numerosi decessi fra gli uomini e un’alta percentuale di aborti spontanei e morti per emorragie fra gli animali domestici.
Indagini dell’Organizzazione mondiale della sanità portarono alla conferma del virus della febbre di Rift Valley quale responsabile dell’epidemia, che nel solo Kenya infettò 27.500 persone e costò la vita a 170.
I primi casi di febbre di Rift Valley segnalati al di fuori del continente africano risalgono invece a circa tre anni dopo, nel settembre del 2000 nella penisola arabica, in Yemen e in Arabia Saudita. Nel primo il bilancio finale fu di 1.328 casi fra cui 166 morti, mentre in Arabia Saudita vi furono 124 morti su 882 persone infettate.

Fonti

• Centers for Disease Control and Prevention:
www.cdc.gov/ncidod/dvrd/spb/mnpages/dispages/rvf.htm

• Medici senza frontiere
www.msf.it/msfinforma/news/08012007.shtml

• Organizzazione mondiale della sanità:
www.who.int/mediacentre/factsheets/fs207/en
www.who.int/csr/disease/riftvalleyfev/countrysupport/en

Valeria Confalonieri




Uccidera l’anima

Gamal Ghitani, giornalista e scrittore egiziano, nato il 9 maggio 1945, incarcerato dal regime nasseriano nel 1966, è autore di Zayni Barakat «un grande romanzo storico che rivela, con una sconcertante analisi, gli eterni meccanismi del potere e della corruzione», tradotto in 25 lingue (in italiano edito da Giunti). Nel 2006 ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per la raccolta di racconti Schegge di fuoco (Jouvence 2005). Lo abbiamo intervistato.

Iniziamo col parlare del grande maestro, Nagib Mahfuz, unico premio Nobel del mondo arabo (1988) da me presentato su Missioni Consolata (mostro l’articolo e foto su MC marzo 1996). Non fu solo un grande scrittore, ma anche intellettualmente molto onesto, che scava dentro i suoi personaggi e mostra la differenza tra quello che dicono e come appaiono e ciò che sono realmente, smascherando mediocrità e corruzione. Come lo ha incontrato e che cosa pensa di Mahfuz?
Lo incontrai nel 1959 quando lui era uno scrittore affermato e io avevo solo 14 anni: la conoscenza di allora è diventata amicizia. Per oltre 20 anni ci siamo incontrati ogni martedì sera: camminavamo lungo le sponde del Nilo e parlavamo di qualsiasi argomento. Era un incontro molto importante per me e per lui. Nel 1994, Mahfuz aveva 83 anni quando gli integralisti cercarono di ucciderlo, picchiandolo selvaggiamente, a causa del libro Il rione dei ragazzi. Smise di scrivere per due anni, dovendo fare riabilitazione fisica alla mano destra; ebbe anche seri problemi agli occhi: memorizzava e poi dettava i suoi pensieri. Il suo stile è molto semplice e nel  contempo molto forte. È ancora il numero uno tra gli scrittori di lingua araba. Tutta la mia generazione vede in lui un modello. Camminiamo alla sua ombra.

Come rievoca nel racconto «La scorta» in Schegge di fuoco, la sua esperienza quando fu imprigionato nel 1966 ha segnato la sua vita e influenzato il suo lavoro…
Avevo 21 anni, lavoravo già e mi ero iscritto a un partito segreto, di ispirazione maoista. Nasser perseguitava tutti questi movimenti politici. Fui arrestato con altri compagni. Fummo sottoposti a ogni tipo di tortura. Abbiamo trascorso così circa sei mesi. All’inizio del 1967 invitarono Jean Paul Sartre, che dichiarò di non poter venire in Egitto se non fossimo stati liberati. Grazie a questo intervento fummo liberati. Ci tengo a precisare che non siamo mai stati processati da nessuna corte e che io avevo lasciato il partito  prima del mio arresto, perché non gradivo che il partito mi dicesse che cosa dovevo o non dovevo scrivere o che censurasse i miei scritti. Sono infatti sempre stato una persona libera che vuole pensare e scrivere da persona libera.

L’esperienza del carcere ha ispirato il suo libro Zayni Barakat. Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Ho iniziato Zayni Barakat dopo la sconfitta inflittaci da Israele nella guerra del Kippur (o guerra dei 6 giorni). Continuavano a dirci che avevamo vinto, cioè a raccontarci bugie. Ho indagato nella storia per trovare un periodo storico a cui ispirarmi per poi raccontare che cosa succedeva ai giorni nostri. Nel contempo iniziai a lavorare come giornalista, visitando anche il fronte dell’Iran. Nel 1980 smisi di fare il corrispondente di guerra: un conto è morire per il mio paese, l’Egitto; un altro conto è morire per l’Iran. Sono uno spirito libero non un mercenario.

Un personaggio importante di questo romanzo è Zakaria, capo della polizia segreta: lo definirei un «mostro», che usa tutte le persone che crede di amare, anche bambini, per spiare tutto e tutti.
Descrivendo Zakaria, ho raccontato il comportamento reale della polizia, che usava qualsiasi mezzo: dal pedinamento all’imprigionamento, alle torture più atroci, spesso fino all’uccisione, quasi sempre senza un giusto processo. 

Zayni Barakat, il grande censore del Cairo (titolo del romanzo) in modo più subdolo si comporta come Zakaria. Infatti appare come una persona irreprensibile, ma, usando frasi altisonanti che chiamano in causa Dio, la giustizia, il benessere della comunità, di fatto anche lui usa e manipola le persone.
Zakaria diceva: «Distruggiamo l’anima e il corpo», mentre per Zayni «bisogna distruggere l’anima, cosicché la stessa persona può continuare a camminare, ma sarà un’altra persona», diverrà cioè parte di un sistema e pedina del potere.

Un altro  personaggio, Said, lo studente, è definito nella presentazione il suo alter ego, sempre pedinato, seguito, cade quasi in disperazione, perché non sa come comportarsi.
Said è il simbolo della mia generazione.

In vari suoi racconti ha descritto altri modi, praticati al giorno d’oggi, per «uccidere l’anima». «Cerimonia» è popolato di personaggi quasi grotteschi di una organizzazione umanitaria, che raccoglie ingenti fondi per imprese fantasma, ma non fa nulla per la gente; il protagonista di «Ricetrasmittente» è un giovane onesto e istruito, circondato da poliziotti e amministratori corrotti, che lo obbligano ad andarsene; in «Notizia» il capoufficio non dimostra alcun interesse per il solerte fattorino. Insomma menzogna, camuffata da «buone azioni», corruzione e indifferenza… «uccidono l’anima».
Proprio così. Desidero, però, precisare che quando scrissi quei racconti, mi trovavo in un momento molto delicato della mia vita: 10 anni fa dovetti recarmi negli Usa per un intervento al cuore. Alcuni amici mi consigliarono di scrivere dei racconti. La raccolta Schegge di fuoco è il frutto di quel periodo, in cui mi sentivo in punto di morte.
Che cosa «cura l’anima»? La sorella che cucina per il fratello i piatti preferiti, malgrado gli impegni di famiglia e sia diabetica; la madre che aiuta il figlio preparando panini deliziosi per il suo negozio… In pratica, è la famiglia la «cura dell’anima».
Questo è quanto succede in Egitto. La famiglia è molto, molto importante.

Il protagonista di «Letargo» si rattrista e quasi piange, quando legge il versetto: «Io non vi chiedo altra mercede, se non l’amore per il prossimo». Perché?
Tutte le persone povere e semplici (come l’uomo onesto del racconto «Ricetrasmittente», vittima della corruzione di poliziotti e burocrati) soffrono per la corruzione e sanno che tale versetto troppo spesso si riduce a semplici parole.

In un’intervista lei ha affermato che ci sarà vera democrazia  solo quando nel mondo ci sarà onestà per costruire vera giustizia e vera pace.
Sono obiettivi  ancora molto lontani e non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per l’Occidente. Costruire una società che offra a tutti la possibilità di istruirsi e avere una vita dignitosa è quasi un miraggio. Ho scoperto che lo stesso progresso può, di fatto, uccidere l’uomo.  Nel mondo la situazione è molto brutta se pensiamo che il 5% dell’umanità detiene tutta la ricchezza del pianeta, mentre  milioni di persone sopravvivono a mala pena. Basta leggere alcuni miei racconti come «Cerimonia» per scoprire gli inganni che ci circondano.

Di Silvana Bottignole

NAGIB MAHFUZ Premio Nobel per la letteratura 1988

Nato nel 1911 in un quartiere popolare del Cairo, Nagib Mahfuz è morto il 30 agosto 2006 all’età di 95 anni. Nel 1994 (aveva 83 anni) fu minacciato di morte e poi selvaggiamente picchiato dai fondamentalisti islamici a causa del suo libro: Il rione dei ragazzi. Che cosa contiene questo romanzo di tanto «pericoloso»?
Il rione dei ragazzi (tradotto in italiano nel 2001) era uscito a puntate nel 1959 sul quotidiano egiziano Al Ahram; la raccolta in un volume, edizione leggermente espurgata, è stata pubblicata a Beirut nel 1967.
Con la genialità di grande scrittore, Mahfuz racconta la spiritualità popolare, che ha ispirato i mitici cantastorie delle caffetterie della Cairo Vecchia. Adham (Adamo), Ghabal (Mosè), Rifaa (Gesù), Kassem (Maometto) e un emblematico mago Arafa con assistente (forse Marx e Mao) sono i protagonisti di 144 brevi capitoli, tanti quanti le sure del Corano.  
Come tutti gli abitanti del vicolo discendono da Ghabalawi, l’antenato che vive nella Grande Casa, proprietario di tutti i beni amministrati da un fiduciario. Purtroppo, però, «per ogni uomo che cerca di fare del bene, troviamo dieci capi che brandiscono i loro manganelli e cercano lo scontro; cosicché la gente si è abituata a comprare la propria incolumità con tangenti in denaro, sottomissione e servilismo».
Adham è il capostipite, cacciato dalla Grande Casa per la sua curiosità. Sollecitato da Idris (diavolo in forma umana) e incoraggiato dalla moglie, voleva conoscere i segreti del «libro» proibito. Al contrario di Idris, ladro e seminatore di discordia, Adham vivrà del suo duro lavoro, ma sempre nel rispetto del severo Ghabalawi, che lo perdonerà.
Ghabal, salvato e cresciuto dalla figlia del fiduciario, non sopporterà le oppressioni fatte al suo popolo, parlerà con Ghabalawi e, divenendo incantatore di serpenti, sconfiggerà il fiduciario, rimanendo «proverbiale fra la sua gente per giustizia, forza e ordine».
Riifa, quasi simile a Ghabalawi ed esortato dalla sua voce, vuole scacciare gli spiriti del male che albergano nel cuore degli uomini, per lui «i migliori sono quelli che fanno del bene». Farà un matrimonio pro forma per salvare una prostituta da morte sicura, ma sarà tradito da questa con i capi, che lo uccideranno. «Alla sua morte, Riifa godette di un onore, rispetto e amore che mai aveva sognato quando era vivo. La sua vita divenne una storia gloriosa… specialmente da parte di Ghabalawi, che raccoglie il suo corpo e lo seppellisce nel giardino… Alcuni dei suoi seguaci giunsero agli estremi, evitando persino il matrimonio, con l’idea di imitarlo».
Kassem, grande ammiratore di Ghabal e Riifa, su invito di un servo di Ghabalawi, comincia ad addestrare il popolo nell’uso dei bastoni, perché desidera portare la giustizia di Ghabal, la misericordia di Riifa, ma anche gestire il patrimonio. Dopo molte battaglie, diverrà fiduciario, facendo conoscere alla gente del suo vicolo «fratellanza, amore e pace».
Infine, il mago Arafa giunge quando nel mondo c’è molta sofferenza. Vuole conoscere il libro segreto di Ghabalawi, causandone la morte. Diverrà una pedina del fiduciario, che userà le sue bombe rudimentali per opprimere e spaventare la gente. Qualcuno spera ancora nel suo messaggio.

Silvana Bottignole




Bruciare i rifiuti? Una pessima idea

L’imbroglio dei «termovalorizzatori»

In Italia l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili è irrisorio. Forse anche per questa ragione si è inventata una scappatornia all’italiana: considerare come energia da fonte rinnovabile quella prodotta dagli inceneritori (termovalorizzatori).  Un falso, tra l’altro finanziato da un prelievo (il «Cip6») dalla bolletta elettrica di tutti noi.  I termovalorizzatori funzionano? Producono energia elettrica, ma a costi insostenibili, soprattutto per la salute dei cittadini.  Da ultimo, disincentivano la raccolta differenziata (che già è poco amata dagli italiani). A conti fatti, questa soluzione non funziona, in quanto produce più problemi di quanti ne risolva.

In Italia non si chiamano quasi mai «inceneritori» (sebbene lo siano a tutti gli effetti), ma «termovalorizzatori». Quest’ultimo termine indica che questi impianti non servono solo a bruciare i rifiuti, ma a produrre energia (che viene poi rivenduta allo Stato) oppure calore utilizzabile nel teleriscaldamento. Apparentemente sembrerebbero impianti vantaggiosi, invece non è proprio così, perché se tutti i rifiuti prodotti in Italia fossero destinati al termovalorizzatore e fosse ottimizzata al massimo la combustione, si arriverebbe ad ottenere energia elettrica solo per il 12% del fabbisogno nazionale per uso domestico. Per quanto riguarda invece il teleriscaldamento poi, questo è efficace solo entro 2,5 Km dall’impianto ed è possibile solo in edifici di nuova realizzazione. Attualmente in Italia la produzione di energia elettrica tramite incenerimento dei rifiuti è sovvenzionata indirettamente dallo stato, per sopperire alla sua antieconomicità ed il tutto avviene tramite il sistema detto Cip6 (vedi box). Infatti, questa modalità di produzione di energia è considerata impropriamente come «da fonte rinnovabile» alla stregua di idroelettrico, solare, eolico e geotermico. Pertanto chi gestisce l’inceneritore può vendere all’Enel l’energia che produce ad un costo circa triplo, rispetto a quello di chi produce energia a partire da metano, petrolio e carbone. L’Unione europea (Ue) ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo italiano per la produzione d’energia bruciando rifiuti inorganici, visti come «fonte rinnovabile». Nel 2003 il Commissario Ue per i trasporti e l’energia Loyola De Palacio, recentemente scomparsa, in risposta ad un’interrogazione dell’on. Monica Frassoni al Parlamento europeo, ribadì (20/11/2003, risposta E-2935/03 IT) il fermo «no» dell’Unione europea all’estensione del regime di sovvenzioni europee  per lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili, previsto dalla Direttiva 2001/77, all’incenerimento delle parti non biodegradabili dei rifiuti. Queste le affermazioni testuali del Commissario all’energia: «La Commissione conferma che, ai sensi della definizione dell’art. 2, lettera b) della Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile. Il fatto che una legge nazionale (Legge 39 del 1/3/2002, art. 43) proponga d’includere, nell’atto del recepimento italiano della Direttiva 2001/77 (D.L. del 29/12/2003, n. 387) i «rifiuti tra le fonte energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, ivi compresi i rifiuti non biodegradabili», rappresenta una palese violazione di quanto dettato dalla Direttiva europea. Esiste peraltro una contraddizione in questa Direttiva comunitaria, che autorizza l’Italia a considerare l’energia prodotta dalla quota non biodegradabile dei rifiuti nel complesso dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo del 25% del totale nel 2010; tale deroga è però stata attaccata nel 2006 in sede di Parlamento europeo coll’emendamento (art. 15 bis) alla legge comunitaria 2006.
C’è poi da considerare un altro aspetto, oltre a quello giuridico ed economico, dell’uso dei termovalorizzatori.

L’ambiguità dei «limiti di legge»

Qual è il loro impatto sulla salute pubblica? I termovalorizzatori possono operare solo se adeguatamente dotati di sistemi per l’abbattimento delle emissioni, in grado di garantire il rispetto dei limiti di legge. Attenzione, però, perché i limiti di legge, come tutti i limiti relativi a prestazioni tecnologiche, sono tarati sulla capacità di abbattimento dei fumi ottenibile con le attuali tecnologie. Infatti non serve imporre dei limiti oltre la capacità oggettiva di contenere l’inquinamento permessa dai sistemi attuali. Questo, però, significa che i «limiti di legge» non garantiscono un valore di inquinanti «sicuro» in base a studi medici ed epidemiologici sull’effetto degli inquinanti emessi. C’è poi da dire che i limiti di concentrazione degli inquinanti imposti dalla normativa sono riferiti al m3 di fumo emesso, mentre non viene detto nulla sull’emissione totale d’inquinanti, cioè al valore commisurato alla quantità di rifiuti bruciati. Praticamente vengono impostati come limiti di legge dei valori, che si riferiscono al «miglior impianto» attualmente realizzabile e non all’effettiva rischiosità dei vari inquinanti. Per capire meglio questo concetto ci viene in aiuto Mario Tozzi, noto geologo e divulgatore scientifico, primo ricercatore Igag/Cnr, che nel suo ultimo libro sostiene che le domande giuste da porre sarebbero: quanti picogrammi (miliardesimi di milligrammo) di diossina (vedi box) emette davvero un impianto? I valori foiti sono medi o minimi? Quante misurazioni sono effettuate in un anno?  È opportuno sapere che per i termovalorizzatori è previsto un solo controllo all’anno: per essere sicuri che l’impianto non sia nocivo è evidente che il monitoraggio dovrebbe essere continuo e non annuale e soprattutto non autocertificato.

Diossina per tutti

Attualmente le normative europee indicano che in un m3 di fumi non devono esserci più di 100 picogrammi di diossina. La sola considerazione che per le diossine si usa come unità di misura non il milligrammo, comunemente usato per le altre sostanze, ma il picogrammo   (10-12 g) è più che sufficiente a farci intuire il grado di pericolosità per la salute di queste sostanze. Del resto, a tale proposito, vale la pena di ricordare che le diossine sono le stesse sostanze responsabili delle terribili conseguenze dell’incidente occorso all’Icmesa di Seveso, o delle conseguenze dell’uso del tremendo «agente orange» (diossina appunto) usato nella guerra del Vietnam (vedi inserto). Tozzi fa poi un rapido calcolo per dimostrare a quale rischio potremmo essere esposti, vicino ad impianti «a norma di legge». Se la tecnologia attualmente disponibile non ci consente di rilevare la presenza di diossina al di sotto di un certo valore, ad esempio 50 pg/m3, entro comunque il limite di legge che è di 100 pg/m3, si rischia di non considerare affatto valori inferiori, ad esempio 40 pg/m3, di diossina emessa da un impianto e di valutare pertanto quest’ultimo come idoneo e rispettoso dei limiti di legge. Poiché però nell’aria che respiriamo normalmente, la quantità di diossina è di 0,05-0,5 pg/m3, allora 40 pg/m3 vogliono dire un quantitativo da 80 ad 800 volte superiore rispetto alla normale quantità. Quindi, solo perché non misurabile, ignoriamo tale quantitativo e le sue possibili conseguenze? Un inceneritore di media taglia, cioè da un migliaio di tonnellate di rifiuti al giorno, emette circa 5 milioni di metri cubi di fumi. Se la quantità di diossina in essi contenuta fosse di 40 pg/m3, significherebbe che ogni giorno nell’atmosfera sarebbero dispersi 200 milioni di picogrammi di diossine. Poiché la dose massima tollerabile gioalmente da una persona adulta è di circa 150 pg, questa quantità sarebbe quindi quella tollerabile da un milione e mezzo di persone. Con un centinaio di inceneritori di questo tipo sul territorio nazionale si arriverebbe a 20 miliardi di picogrammi di diossina, cioè la massima dose tollerabile da 150 milioni di persone. E questo con impianti rigorosamente a norma di legge.
Non dimentichiamo che, per quanto riguarda la diossina, non è importante solo la sua quantità in un m3 d’aria, ma quanta effettivamente se ne deposita al suolo in un anno. Le diossine infatti sono un gruppo di composti ad elevato peso molecolare, quindi poco volatili. Sono inoltre solubili nei grassi, dove tendono ad accumularsi e non vengono smaltite dall’organismo umano, per il quale sono tossiche e cancerogene. Pertanto, anche un’esposizione a livelli minimi, ma prolungata nel tempo, può causare gravissimi danni alla salute sia umana, che animale.  È importante a tale proposito ricordare che presso i lavoratori dell’inceneritore di Cracovia è stata rilevata un’incidenza anormalmente alta di neoplasie polmonari e di accidenti cardiovascolari, nonché un’incidenza anomala di neoplasie, disturbi respiratori, patologie tiroidee e malformazioni fetali negli abitanti esposti. In Italia uno studio condotto negli anni 1986-2002 nel territorio di Campi (Fi) ha rilevato più del doppio di casi attesi per linfomi non Hodgkin e per sarcomi dei tessuti molli, tumori che la letteratura scientifica correla molto strettamente all’azione delle diossine. Studi giapponesi sottolineano che la maggiore fonte di diossina è rappresentata dagli inceneritori urbani ed inoltre è segnalata l’incidenza di morti infantili, malformazioni congenite e malformazioni della sfera riproduttiva fra gli abitanti vicini ad inceneritori anche di ultima generazione. Naturalmente gli inceneritori non sono gli unici impianti a rilasciare diossina, che è rilevabile normalmente presso altri impianti industriali, soprattutto acciaierie, oltre che nel fumo di sigaretta, nelle combustioni di legno e di carbone e nelle combustioni incontrollate (es. mini-incenerimento domestico).

Mercurio, cadmio, (…): di tutto, di più

I termovalorizzatori sono responsabili della diffusione di idrocarburi aromatici policiclici, di policlorobifenile (PCB), di metalli pesanti, quali piombo, zinco, rame, cromo, cadmio, arsenico, mercurio e di furani; inoltre, come qualsiasi processo di combustione, rilasciano nell’aria polveri sottili, la cui quantità emessa aumenta al crescere della temperatura (specialmente il particolato ultrafine PM<2,5). A proposito di mercurio, la maggioranza degli studiosi sostiene che è pressoché impossibile escogitare sistemi efficaci per abbattee con sicurezza l’emissione; ricordiamo che il mercurio provoca gravissimi danni al sistema nervoso centrale. Per quanto riguarda le polveri fini PM2,5 e quelle ultrafini (da PM2,5 a PM0,1) di tipo inorganico, va innanzitutto detto che non esistono filtri efficaci, per cui un limite alla loro emissione non sarebbe attuabile al momento, se non vietando il funzionamento degli impianti di incenerimento. Le nanopolveri o particolato ultrafine, cioè quelle a PM<2,5, sono responsabili, secondo dati Oms del 2005, di un calo di vita medio di 8,6 mesi in Europa e di 9 mesi in Italia (morti cardiovascolari e respiratorie).
L’azione mutagena e cancerogena degli idrocarburi aromatici policiclici e del policlorobifenile è fin troppo nota, mentre per quanto riguarda il cadmio, questo ha mostrato un danno genotossico da stress ossidativi con accumulo nel sistema nervoso centrale, renale ed epatico e inoltre è causa di malformazioni fetali e cancerogenesi a carico di diversi tessuti.
Naturalmente nel corso degli ultimi vent’anni sono stati fatti molti passi avanti, nel tentativo di rimuovere i macroinquinanti derivanti dall’incenerimento e presenti nei fumi (ad es. ossido di carbonio, anidride carbonica, ossidi di azoto e gas acidi come l’anidride solforosa) e di abbattere le polveri. Si è così passati da sistemi di filtro come i cicloni ed i multicicloni,  con rendimenti massimi di captazione degli inquinanti rispettivamente del 70% e dell’85% ai filtri elettrostatici o filtri a manica, che hanno una resa fino al 99% ed oltre. Inoltre sono state sviluppate misure di contenimento preventivo delle emissioni, ottimizzando le caratteristiche costruttive dei foi e migliorando l’efficienza del processo di combustione. Questo risultato si è ottenuto attraverso temperature più alte, maggiori tempi di permanenza dei rifiuti in regime di alte turbolenze e grazie all’immissione di aria per garantire l’ossidazione completa dei prodotti di combustione. Però non va dimenticato che l’aumento della temperatura, se da un lato riduce la produzione di diossine, dall’altro aumenta quella degli ossidi di azoto, nonché delle nanopolveri, per cui diventa necessario trovare un compromesso.

Brescia: ma che bel premio!

Facciamo ora una considerazione a proposito del «miglior impianto», a cui si attiene la normativa vigente, in materia di limiti da non superare. Recentemente, cioè nell’ottobre 2006, l’impianto di termovalorizzazione di Brescia è stato proclamato «migliore impianto del mondo» dal Waste to Energy Research and Technology Council (Wtert), un organismo indipendente formato da tecnici e scienziati di tutto il mondo e promosso dalla Columbia University di New York. Lascia tuttavia perplessi il fatto che questo organismo annoveri tra gli enti finanziatori e sostenitori la Martin GmbH, che è tra i costruttori dell’inceneritore premiato. D’altro canto proprio questo impianto è stato oggetto di diverse procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea. Se a ciò si aggiunge la testimonianza del dottor Francesco Pansera, che parla di censura del dissenso tecnico a Brescia, nonché di soppressione delle verifiche e delle voci critiche, il sospetto che i premi dati a certi impianti non siano altro che subdole forme pubblicitarie diventa forte. Sul sito della Martin GmbH, raggiungibile da quello della Wtert, si legge poi che in Italia la Martin è partner della Technip, un’altra multinazionale, che sta già partecipando ad un piano del presidente Cuffaro per la costruzione e la gestione di inceneritori in Sicilia. Quindi per queste ditte l’Italia, cioè la nazione premiata, rappresenta un mercato in espansione, purché si neutralizzino le critiche e si ottenga il favore dell’opinione pubblica. Del resto in Italia i termovalorizzatori sono ancora poco diffusi, a differenza dell’Europa, dove sono attualmente attivi 304 impianti in 18 nazioni.
Bisogna tuttavia porsi una domanda: perché paesi come l’Olanda, la Germania e la Francia stanno perseguendo la politica di bruciare sempre meno rifiuti, per dismettere un giorno gli impianti esistenti? A tale proposito in queste nazioni sono attuate amplissime forme di raccolta differenziata e di riduzione alla fonte anche con leggi nazionali sul riutilizzo delle bottiglie di vetro e di plastica (ogni cittadino in pratica paga una cauzione sulle  bottiglie di plastica e di vetro, che gli verrà restituita con un bonus per il supermercato, quando riconsegnerà le bottiglie negli speciali spazi presso i centri commerciali). Inoltre in tali nazioni si stanno sempre più usando forme di energia alternativa, quali quella eolica e quella solare. Alla luce di tutte queste considerazioni, possiamo dedurre che la strada del termovalorizzatore non è certo quella ottimale per risolvere il problema dell’eliminazione dei rifiuti e quello della produzione di energia, tanto più che non solo non sappiamo con certezza quali sono le sostanze realmente immesse nell’atmosfera, ma a quanto pare non possiamo nemmeno fidarci troppo delle valutazioni d’impatto ambientale, che vengono effettuate. Pensiamo inoltre al fatto che l’energia che si ottiene dalla combustione di un oggetto è quasi sempre di gran lunga inferiore a quella impiegata per costruirlo. Per di più, per ricostruire lo stesso oggetto, è necessario sfruttare materie prime dell’ambiente (ad es. alberi nel caso della carta), che si sarebbero risparmiate con il riciclaggio.  Sicuramente è quindi fondamentale assumere nuovi stili di vita, che portino ad una riduzione dei rifiuti all’origine, ad un loro riutilizzo o al loro riciclaggio, dove possibile, in modo da limitare al minimo il conferimento in discarica o negli inceneritori già esistenti.  

Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario di «Nostra madre terra»

L’ABC DEL PROBLEMA


Cancerogeno: qualsiasi agente chimico, fisico o virale in grado d’indurre la comparsa di una forma di cancro.

Cicloni e multicicloni: si tratta di apparecchiature utilizzate per la separazione di particelle solide o liquide trascinate dai gas e per la separazione di particelle solide trascinate dai liquidi, sfruttando l’azione della forza centrifuga. I cicloni sono essenzialmente costituiti da recipienti cilindrici con una parte inferiore tronco-conica, nei quali viene introdotta tangenzialmente la corrente fluida da purificare, messa in movimento a grande velocità. Da un condotto centrale esce, verso l’alto, il fluido purificato, mentre nel fondo conico si raccolgono le particelle separate, la cui grandezza è di solito compresa fra 5 e 1.000 µm. Sono molto usati per eliminare le particelle dai fumi di scarico di industrie.

Composti organici ed inorganici: i primi sono composti contenenti atomi di carbonio (C) e costituenti tipici della materia vivente, mentre gli altri non contengono atomi di C e sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, presenti nel regno minerale.

Danno genotossico: danno al Dna, quindi analogo di mutazione (vedi: mutageno).

Filtri a manica: sono utilizzati per le separazioni solido-gas e sono costituiti essenzialmente da tubi di tela, all’interno dei quali arriva il gas da depurare; mentre quest’ultimo attraversa la superficie, il solido viene trattenuto. Costituiscono l’ultima fase del recupero dei solidi da gas e spesso sono montati a valle dei cicloni.

Filtri elettrostatici: sono anche detti elettrofiltri. Sono costituiti da un tubo a grande diametro e di estesa superficie, che rappresenta il condotto del fumo ed è collegato a terra e da un filo posto al centro del tubo, dal quale è isolato elettricamente. Il campo elettrostatico, che si genera tra questi due elementi, provoca una ionizzazione del gas; gli ioni negativi caricano le particelle solide e liquide, presenti nei fumi, che si raccolgono sulla superficie del condotto (elettropositivo), dal quale sono asportate. Sono usati per asportare polveri e nebbie, anche di dimensioni piccolissime.

Fonti di energia alternativa: idroelettrica, solare, eolica e geotermica. In questi casi l’energia elettrica viene ottenuta rispettivamente dalla trasformazione di energia idraulica, solare, cinetica derivante dalla forza del vento e dal calore della terra.

Furano: composto organico eterociclico dotato di caratteristiche aromatiche (cioè con formula di struttura ad anello, contenente legami semplici e doppi alternati). Dal tetraidrofurano vengono preparati l’esametilendiammina ed il nylon. Presenta reazioni di sostituzione elettrofila, che avvengono però in condizioni più blande, che negli altri composti aromatici.

Idrocarburi aromatici policiclici: sono idrocarburi derivati dal benzene, per condensazione di due o più anelli benzenici. Vengono estratti dal catrame di carbon fossile o dal petrolio. È nota la loro azione cancerogena. Tra i tumori più diffusi, da loro causati, ricordiamo il cancro del polmone. Nel fumo di sigaretta sono presenti questi idrocarburi, nonché ammine aromatiche.

Mutageno: qualsiasi composto in grado di provocare una mutazione del Dna cellulare. Le mutazioni vengono distinte in geniche, cromosomiche o genomiche a seconda che vengano colpiti uno o più geni, un cromosoma oppure più di un cromosoma, così da compromettere l’intero genoma. Se il genoma colpito appartiene ad una cellula della linea germinale (ovociti o spermatozoi), la mutazione verrà trasmessa alla discendenza, con conseguenze di maggiore o minore gravità, a seconda del danno genetico (es. malformazioni, aborti spontanei, ecc.) mentre una mutazione a carico del Dna di una cellula della linea somatica (cioè di tutte le cellule del corpo diverse da quelle germinali), può determinare la trasformazione della cellula in senso neoplastico.

Picogrammo: 10-12g = 10-9mg = 1/1.000.000.000 mg.

Policlorobifenili: sono composti organici aromatici clorurati, in cui degli atomi di cloro sostituiscono in varia percentuale gli atomi d’idrogeno di un bifenile. Sono stati ampiamente impiegati per vari usi, finché non ne è stata segnalata la tossicità, dovuta all’inquinamento delle falde acquifere.

Stress ossidativo: danno a varie strutture cellulari dovuto all’azione dei radicali liberi, molecole che hanno perso nei loro atomi un elettrone, nell’orbita estea. Queste molecole vengono prodotte nelle fasi intermedie del metabolismo cellulare e sono sostanze chimiche paragonabili ad un ossidante, che intacca le materie più diverse, tra cui il Dna cellulare, con rottura delle sue catene e quindi con effetto mutageno e cancerogeno. Il nostro organismo si difende dall’azione dei radicali liberi con dei sistemi enzimatici, come la superossido-dismutasi, e non enzimatici tra cui gli antiossidanti naturali delle cellule, come il glutatione, la metionina, la cisteina e le vitamine C ed E. Diversi fattori favoriscono la formazione dei radicali liberi tra cui il tabacco, per la presenza di idrocarburi aromatici policiclici e di ammine aromatiche, l’alcornol, l’assunzione di certi farmaci, l’esposizione a svariati composti chimici, le radiazioni ionizzanti ed i raggi ultravioletti.
(a cura di R.Topino e R.Novara)

Come funziona un termovalorizzatore

DAI RIFIUTI, ENERGIA E… (fumi, scorie, ceneri)


Il funzionamento di un termovalorizzatore può essere sintetizzato in 7 fasi:

1) Arrivo dei rifiuti, che possono essere utilizzati come sono, il cosiddetto «tal quale», oppure provenire da impianti di selezione, per la produzione della frazione combustibile o Cdr (combustibile derivante dai rifiuti), previa separazione degli inerti (metalli, minerali, ecc.). Confrontando la resa di un impianto, che brucia il «tal quale», con uno che brucia il Cdr, si stima che il rendimento del primo sia di 250 Kwh/tonnellata, mentre quello del secondo sia di 800 Kwh/tonnellata, quindi la combustione del Cdr dà sicuramente una resa migliore. Prima di venire bruciati, i rifiuti sono stoccati in un’area dell’impianto dotata di un sistema di aspirazione, per evitare la dispersione dei cattivi odori.

2) Combustione: mediante griglie mobili i rifiuti vengono portati in foo e bruciati a circa 1.000° C, in presenza di aria forzata, per migliorare la combustione con continuo apporto di ossigeno.

3) Produzione di vapore: il calore derivante dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per portare ad ebollizione l’acqua di una caldaia posta a valle del bruciatore.

4) Produzione di energia elettrica: il vapore generato mette in moto una turbina, che accoppiata ad un motoriduttore e ad un alternatore, trasforma l’energia termica in elettrica.

5) Estrazione delle scorie: le componenti incombuste dei rifiuti vengono raccolte e smaltite in discarica. Nel caso dell’uso del Cdr si ottiene un abbattimento della produzione di scorie.

6) Trattamento dei fumi: i fumi derivanti dalla combustione vengono filtrati con un sistema multistadio (filtri elettrostatici o filtri a manica), per la riduzione degli agenti inquinanti sia aeriformi che corpuscolati; la loro temperatura viene inoltre abbassata a 140°C mediante acqua di raffreddamento, che necessita poi di depurazione.

7) Smaltimento delle ceneri: le ceneri derivanti dalla combustione sono normalmente classificate come rifiuti speciali non pericolosi e conferite in discarica. Nel caso della combustione del «tal quale» rappresentano circa il 30% del peso iniziale, mentre nel caso della combustione del Cdr rappresentano circa il 70%. Le polveri fini, classificate come rifiuti speciali pericolosi, rappresentano circa il 4% del peso iniziale. Entrambi i tipi di polveri sono smaltite in discariche per rifiuti speciali.

Il caso Torino

«VOGLIAMO INCENTIVI»

A seguito dell’emendamento al decreto legge sugli «obblighi comunitari», deciso dal Consiglio dei ministri il 27 dicembre 2006 e formalizzato a gennaio 2007, che in pratica ha ristretto l’ambito d’applicazione del sistema «CIP6» (gli incentivi alle fonti energetiche rinnovabili e assimilate, pagati come sovrapprezzo nelle bollette energetiche dai cittadini italiani), sia nella giunta comunale torinese che in quella della provincia di Torino c’è stata aria di bufera, perché sostanzialmente è stato colpito dal provvedimento il progetto di costruzione del termovalorizzatore del Gerbido. A seguito di questo emendamento, l’incentivo sarà limitato ai termovalorizzatori già esistenti ed operativi, ma non a quelli «già autorizzati» e di cui è già stata o sarà avviata la realizzazione, come appunto nel caso di quello del Gerbido.
La reazione del presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta, si è tradotta in un appello bipartisan per tentare di ottenere, da parte del governo, una deroga a beneficio degli impianti già autorizzati. Secondo Saitta, senza tale deroga i costi della costruzione e del funzionamento del termovalorizzatore ricadranno sulle spalle dei cittadini, sotto forma di un vertiginoso aumento della tassa rifiuti.
Ma quanto verrebbe a costare la sola costruzione del termovalorizzatore? Ebbene, il costo dell’impianto è stimato in 260 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 90 milioni di euro per le spese connesse, più 20 milioni di compensazioni, per un totale di 370 milioni di euro. La gara d’appalto dovrebbe essere avviata nel gennaio 2008, mentre l’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2011.
E quanto costa smaltire i rifiuti con il termovalorizzatore, oppure in discarica? Per quanto riguarda i costi dello smaltimento con il termovalorizzatore, questi varieranno a seconda della disponibilità dei contributi. In particolare dovrebbero essere di 120-125 euro per tonnellata a incentivi zero, mentre potrebbero scendere a 90-95 euro con incentivi al 40% ed a 80 euro con la totalità dei contributi; il conferimento in discarica costa attualmente circa 123 euro a tonnellata.
L’atteggiamento di chi vorrebbe questi incentivi è in linea con le direttive europee? La risposta, come abbiamo cercato di spiegare nell’articolo, è «no».

Roberto Topino
Rosanna Novara

Il caso della provincia autonoma

DOVE VOLA LA FARFALLA TRENTINA?


«Il bosco, la casa dei trentini», così recitava uno slogan della Provincia Autonoma di Trento. Sul turismo della natura il Trentino ha fondato le proprie fortune. Eppure, qualcosa sta cambiando e non in meglio. L’idea dell’inceneritore di Trento risale al 2001 e dovrebbe trovare realizzazione attraverso la «Trentino Servizi» spa. La società è partecipata al 20% dalla Asm di Brescia, proprietaria del famoso inceneritore, il quale, tra l’altro, ha prodotto questa grave conseguenza: «Brescia è ai primi posti tra le province lombarde per quantità pro capite di produzione di rifiuti, e agli ultimi per raccolta differenziata» (cfr. quotidiano L’Adige, 2 settembre 2002). Proprio un bell’esempio da seguire! Ma l’inceneritore non è tutto. Le cosiddette (e famigerate) «grandi opere» stanno per sbarcare anche nelle province di Trento e Bolzano. In primis, il progetto Alta velocità/capacità (Tav/Tac) da Verona a Monaco con un tunnel di 56 Km (da Fortezza ad Innsbruck) sotto il Brennero. Nel numero di dicembre 2006 de «Il Trentino», la rivista della Provincia di Trento, le pagine conclusive erano dedicate a «come sarà il Trentino tra 30 anni». Leggiamo qualche passo: «Tra trent’anni per il Trentino continueranno a transitare, assieme alle persone, anche le merci. Lo faranno soprattutto via treno, sui quattro (notare: 4!) binari della nuova ferrovia del Brennero e attraverso il grande tunnel sotto le Alpi. L’autostrada del Brennero sarà riservata alle auto (…)». A parte il fatto di non considerare per nulla la possibile (ed auspicabile) opposizione della gente, sembra che l’analisi costi-benefici sia stata fatta ignorando i primi (più che certi) ed esaltando i secondi (più che dubbi). A parte i 25 anni di lavori, l’ambiente naturale sconvolto, il paesaggio deturpato, il traffico, il rumore, le polveri, a parte tutto questo ci sarà anche il conto: l’Alta velocità è un buco finanziario senza fine, che dovrà essere colmato con soldi pubblici (si sa: al contrario dei profitti, i costi sono sempre collettivi…) per generazioni.
Continuiamo a leggere: «Tra trent’anni “Benessere” sarà la parola d’ordine. (…) Il riciclaggio dei rifiuti sarà un’abitudine normale, e l’inceneritore si avvierà alla chiusura». Ancora gli «esercizi di futurologia» de «Il Trentino» (così sono chiamati) nascono con importanti errori concettuali: in primo luogo, ignorano che già oggi la prospettiva più virtuosa è quella denominata «rifiuti zero»; in secondo luogo, non considerano che raccolta differenziata ed inceneritore sono strumenti antitetici, dato che la prima riduce la quantità di rifiuti prodotti, mentre il secondo ha bisogno di rifiuti per esistere e funzionare.
Insomma, gli amministratori trentini volevano infondere ottimismo nelle «magnifiche sorti e progressive», ma hanno ottenuto l’effetto opposto: uno scenario orwelliano. Quasi non bastasse, alcune settimane fa sono uscite delle statistiche sul «consumo di suolo» (cfr. L’Adige, 2 febbraio). Ebbene, il Trentino, negli ultimi anni,  ha cementificato come mai nella sua storia. Una terra di boschi e montagne, laghi e castelli, meli e vigneti rischia di soccombere davanti a progetti di sviluppo insensato ed anacronistico. Da trentino (sono di Rovereto) vedere la mia terra offesa da tangenziali, bretelle, viadotti, autostrade, funivie e in futuro forse anche da superferrovie, megatunnel, termovalorizzatori, aeroporti tra le montagne, mi produce un’enorme tristezza e rabbia. Ma voglio pensare in positivo. Per secoli i trentini e gli altornatesini (sudtirolesi) hanno saputo difendere la loro terra. Speriamo che si sveglino dall’attuale torpore e tornino in sé. Perché, come scriveva Tom Benetollo, «arrendersi al presente è il modo peggiore di costruire il futuro».

Paolo Moiola


Siti internet: www.pattomutuosoccorso.org
E-mail: noinceneritorenotav@gmail.com,
noeurotunnelnotavbz@libero.it

Fonti

I testi: M.Tozzi, L’Italia a secco, Rizzoli Editore, 2006

I siti Web:
• http://www.beppegrillo.it – blog del 1/12/06 e 15/12/06: – «Le emissioni degli inceneritori: danno biologico» in «Termovalorizzatori nella piana fiorentina: le ragioni del sì, le ragioni del no», di M. Gulisano, La Piana, Metropoli; – lettera del dr. Francesco Pansera al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia, dr. F. Abruzzo, del 30/10/2006
•http://www.ecoage.com/ambiente/rifiuti/termovalorizzatore.asp: Termovalorizzazione: di cosa si tratta?
• http://www.altreconomia.it: il termovalorizzatore Silla 2 di Milano
• http://www.rifiuti.it: Riciclaggio e recupero di rifiuti plastici in Svizzera
•http://www.rifiutilab.it/_downloads/Conferenza_Trento3doc.pdf: Inceneritore ed altri sistemi di trattamento termico dei rifiuti urbani: esperienze svizzere
•http://www.comune.firenze.it/comune/organi/q4/informa/giugno02/02.pdf: Termovalorizzatore: pro e contro
• http://www.isolapossibile.it/article.php3?id_article=1484: Regione Campania, emergenza rifiuti: storia di un disastro sanitario ed ambientale annunciato
• http://lists.peacelink.it/pace/msg12369.html: Proposta di cornordinamento a sostegno delle vittime della diossina in Vietnam

Roberto Topino e Rosanna Novara




«Mettete pane nei vostri cannoni»

Da Vicenza a Cameri, uno scandalo che non può essere taciuto

PERCHÉ?

Perché si aumentano le spese belliche?
Perché si perpetuano le servitù militari?
Perché non si utilizzano i soldi (pubblici) in favore di uno sviluppo «virtuoso»?

«Mi rivolgo alla vostra rivista di cui sono assidua lettrice per richiamare la vostra attenzione su quanto sta avvenendo a Vicenza in questi giorni. Vi prego di fare un articolo su questo argomento per aiutarci a vincere questa battaglia a favore della pace ma contro potenze fortissime. Se volete ulteriori informazioni vi segnalo il sito www.altravicenza.it.
Grazie per l’attenzione e continuate così.

Emanuela Lievore, Vicenza


Abbiamo pensato che fosse giusto accontentare la nostra lettrice, pur sapendo – per esperienza maturata sulla nostra pelle (dal Kosovo all’Iraq, dalla Palestina all’Iran) – che quando si affrontano questi argomenti si rischiano sempre le critiche e, a volte, gli insulti. Proprio per auto-tutelarci (senza, però, auto-censurarci) abbiamo chiesto di esprimere un parere su questi argomenti a 4 nostri collaboratori di prestigio, tutti preti (per questa volta). Prima di lasciarvi alle loro considerazioni, ricordiamo qualche dato.
Nel mondo, gli Stati Uniti sono di gran lunga il paese con la maggior spesa militare, pari al 48% del totale mondiale (dati Sipri). In Italia, le forze degli Stati Uniti si sono piazzate bene e comodamente, da Nord a Sud del paese. I casi più clamorosi sono quelli de La Maddalena (Sassari), una base navale che ospita sottomarini nucleari e che dovrebbe (finalmente) essere smantellata nel 2008; Aviano (Pordenone), da dove partirono i cacciabombardieri durante la guerra del Kosovo (1999) e Camp Darby (in provincia di Pisa, nonostante il nome inglese), dove esercito ed aviazione statunitensi custodiscono un ricco arsenale. Da anni l’Italia è tra i primi 10 paesi del mondo sia come spesa militare che come esportatore di armi.
Dimenticando totalmente le questioni etiche, parliamo di soldi. La Confindustria, la maggioranza dei politici, gli economisti e i giornalisti «schierati» (diciamo così) affermano che «basi militari e spese militari sostengono lo sviluppo economico perché incentivano gli investimenti e producono posti di lavoro». Provate soltanto ad immaginare che volano economico produrrebbe un dirottamento dei soldi pubblici spesi per la difesa (e per la costruzione di mezzi da guerra: ad esempio, gli aerei da combattimento Eurofighter e Joint Strike Fighter o le navi da guerra della classe Fremm) per progetti diversi come, ad esempio, investimenti nel settore delle fonti energetiche rinnovabili e contributi per l’edilizia bioecologica. Si incentiverebbe non soltanto lo sviluppo economico, ma anche e soprattutto uno sviluppo di tipo virtuoso. Quanto al (presunto) ritorno economico delle basi Usa, sarebbe meglio dare un’occhiata ai rapporti del «Dipartimento della difesa» degli Stati Uniti, alla voce Allied Contributions to the Common Defense. Nel 2004, ad esempio, l’Italia ha pagato agli Stati Uniti, per le cosiddette «spese di stazionamento», 366 milioni di dollari: soltanto Giappone e Germania pagano più del nostro paese. Washington prende i soldi, ma se i suoi soldati combinano qualche «marachella» (come la strage del Cermis, in Trentino, che nel 1998 provocò 20 morti) non possono essere processati in Italia. Di questo si è lamentato addirittura il Corriere della sera (pur favorevole, come tutti i grandi giornali, alla presenza delle basi Usa), che parla della necessità di «aggioare le condizioni dell’ospitalità» (17 gennaio 2007).
Come tutti sanno, mancano sempre i soldi per le Università, la ricerca, gli ospedali, le scuole, la salvaguardia dell’ambiente, il risparmio energetico, le pensioni, le politiche migratorie, la cooperazione internazionale, ma non mancano mai per le spese militari. Sembra che, in ogni parte del mondo, dagli Usa all’Italia, la lobby politico-militare-finanziaria esca sempre vincente. Una ragione in più per alzare la voce. Noi lo facciamo.

Paolo Moiola

A Vicenza si vuole ampliare la base degli Stati Uniti, a Cameri (Novara) si vogliono assemblare i nuovi caccia militari F-35. Si adducono motivi diplomatici («i patti sono patti»), economici («si porta lavoro
e ricchezza»), di opportunità («altrimenti se ne vanno da un’altra parte»), ma in verità nulla di tutto ciò può essere giustificato, se si considerano le spese militari un attentato alla pace e uno spreco assurdo di risorse. Da Vicenza a Cameri, dagli eserciti alla finanziaria: troppe scelte di guerra, troppa ipocrisia. E troppi interessi.

1
Essere per sempre spettatori passivi (o impotenti) davanti alla morte del diritto e dell’etica?

Solo un occhio superficiale o, almeno, sprovveduto, può vedere nell’attuale dibattito sulla nuova base dell’Us Army a Vicenza una semplice questione riguardante i rapporti Italia-Usa (con il collaterale e strumentale dibattito sull’antiamericanismo) o un problema correlato alla nostra «politica estera» (con il consequenziale e ugualmente strumentale riferimento alla «fedeltà» circa gli impegni precedentemente assunti dall’Italia).
Il problema non è questo. Il problema è l’intero contesto nel quale questa scelta viene a porsi; e preoccupante è il panorama che ne emerge.
Ora noi sappiamo bene che nel mondo della comunicazione una parola, un’espressione ed anche un’intera affermazione prendono senso dal contesto del discorso: il luogo in cui si parla, il pubblico cui ci si riferisce, l’oggetto del parlare ed il parlare stesso. In contesti diversi le stesse parole assumono valori diversi, a volte anche contraddittori. La parola «padre», per portare un esempio, in contesti diversi può significare il padre che ha generato, ma può significare anche Dio, il padrino e perfino il padrone e il mafioso. Quindi, onde evitare incomprensioni e fraintendimenti si rende necessaria un’opera di contestualizzazione del «parlato» e di «sintonizzazione» con il parlante: tutto ciò al fine di una corretta comprensione e di una positiva comunicazione.
Questo lavoro «ermeneutico» in filosofia viene chiamato «sitz in leben». Ed è un lavoro non facile, eppur necessario. Una volta, a Raimon Panikkar, fu chiesto di indicare gli equivalenti sanscriti di 25 parole chiave latine ritenute emblematiche della cultura occidentale. Egli declinò l’invito, perché ciò che sta alla base di una cultura non sta necessariamente alla base di un’altra. È un campo in cui i significati non sono trasferibili. «Le operazioni di traduzione sono più delicate dei trapianti cardiaci» ebbe a dire in quella occasione.
Ora qui, non si tratta di «tradurre», ma di «leggere» dei fatti e onestà e correttezza vogliono che si faccia opera di contestualizzazione, «sitz in leben», appunto.
Proviamo allora a porre questa scelta del governo Prodi a favore dell’installazione di una nuova base americana presso l’aeroporto Dal Molin di Vicenza.
In sintesi, rileviamo che:
1. il Pentagono, unilateralmente e senza consultare gli «alleati», ha deciso di rischierare dalla Germania in Italia la sua brigata aerotrasportata;
2. la scelta americana è parte integrante del programma di Bush e della sua politica guerrafondaia che pretende di combattere il terrorismo con la guerra e di imporsi come unico gendarme mondiale, accantonando anche e depotenziando perfino la stessa Onu;
3. l’impegno con Bush è una eredità che ci viene dalla servile politica estera del precedente governo; una politica che in Europa non ha trovato nessun seguito, oltre l’infelice eccezione anglo-italiana.
Questo, in breve, il panorama circostanziato e a breve raggio.
E se proviamo ad allargare, come di dovere, l’orizzonte all’economia e alle politiche che caratterizzano il mondo nella sua attuale distretta?
Notiamo, allora, che la politica è stata asservita all’economia e che questa, a sua volta, trova la sua floridità nell’industria militare. Così l’Impero e la Guerra sono diventati fratelli siamesi, le banche sono i migliori azionisti delle lobby militari e l’euro-
dollaro e le armi sodomizzano sotto lo stesso tetto.
In questo contesto sia la querelle di Vicenza, come quella di Cameri, ma anche la questione dell’Afghanistan sono tutti tasselli che concorrono a rinforzare la morsa micidiale degli osceni connubi di cui sopra. Da lamentare, in aggravio al bilancio negativo delle ultime scelte governative, lo scandalo di una finanziaria che, dopo aver tagliato fondi su scuola, sanità e servizi, in nome del rigore e dell’austerità, per la guerra riserva privilegi ed extra: nella sola Tabella di bilancio della difesa il precedente importo totale di 17,782 miliardi di euro è stato portato a 18,134 miliardi, con un incremento di 352 milioni.
Si pone, allora, bruciante, la domanda su che cosa vada lavorando una politica di pace che invece di scalfire, almeno in parte, questi abbracci mortiferi li consolida e li perpetua.
Bisogna purtroppo lamentare che, nonostante affermazioni in contrario, la «politica» considera le obiezioni all’attuale deriva militarista come variabili irrilevanti, sterili trastulli di chi si attarda a parlare di «valori».
Si deve ancora lamentare, con Danilo Zolo, docente di filosofia del diritto internazionale all’Università di Firenze, che  «le ragioni morali hanno scarsissimo rilievo nei rapporti inteazionali. Oggi prevalgono i rapporti di forza. Il sangue di innocenti è un banale “effetto collaterale”. Il diritto internazionale, di fatto, è una razionalizzazione ex post della volontà delle grandi potenze. E se il diritto è scarsamente efficace, l’etica è addirittura incommensurabile con gli obiettivi politici, economici e militari che legittimano anche agli occhi delle maggioranze democratiche dei paesi occidentali l’uso dei mezzi di distruzione di massa. La logica delle grandi potenze non ha nulla a che fare con i “valori” cui pure si fa retorico riferimento: è una logica spietata i cui emblemi sono i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono Guan-tanamo e Abu Ghraib o, su altro versante, è l’11 settembre 2001» e, aggiungiamo noi, Sigonella, Vicenza, Cameri e, ancora, la finanziaria.

Aldo Antonelli

2
Il primato della forza sulla ragione non deve uccidere la voglia e il dovere di sognare.

Sono due i nodi «bellici» dell’attuale realtà italiana: l’allargamento della base militare Usa in località Dal Molin a Vicenza e l’accordo per l’acquisto di nuovi aerei da combattimento denominati F35 con la prospettiva di un loro assemblaggio finale presso l’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara.
Il tema è uno di quelli spinosi e sui quali bisogna procedere con molta attenzione.
La Commissione diocesana Giustizia e Pace di Novara, da tempo allertata su questo tema, ha cercato di farsi interprete e di dare risonanza al magistero della chiesa su un tema così importante, ripercorrendo passo dopo passo gli interventi più incisivi e qualificanti elaborati a partire dal Concilio Vaticano II ad oggi sulla corsa agli armamenti. Ed è proprio ripercorrendo questi testi che si resta allibiti di fronte alla protervia della lobby delle armi. Quando la chiesa ricorda che ogni volta che capitali astronomici vengono destinati alla fabbricazione di strumenti di morte, sottraendo così ingenti risorse che potrebbero essere destinate allo sviluppo dei popoli e alla risoluzione di emergenze drammatiche (Aids, malattie, fame), gli si risponde obiettando che un polo tecnologico così d’avanguardia sarebbe una promozione non solo per tutta la realtà novarese ma addirittura per l’intero Piemonte, notoriamente in una fase di crisi per ciò che riguarda i posti di lavoro.
Ci sono molti modi da cui partire per affrontare un tema così spinoso come quello degli F35, noi preferiamo farlo stando dalla parte dei più poveri a cui non vorremo mai dire: «resta con la tua fame, le tue malattie, le tue emergenze, perché le risorse che potrei destinare a te e ai tuoi bambini, le utilizzeremo per costruire armi sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate che magari terremo in magazzino ma che ci aiuteranno a sentirci più sicuri di fronte alle paure che attanagliano i nostri stomaci». La scelta di stare accanto ai poveri ci sembra più aderente ai criteri evangelici che non a quelli dettati dalla «real politique».

La corsa agli armamenti è sempre stata una iattura per i popoli della terra ed in particolare per i paesi del cosiddetto Terzo Mondo: essa disperde enormi risorse che potrebbero essere destinate a risolvere i principali problemi dei paesi poveri.  È urgente più che mai passare da una strategia di guerra ad una strategia di pace. La corsa agli armamenti in quanto contraria all’uomo è contraria a Dio. Da un punto di vista pastorale bisogna lavorare e impegnarsi per bandire questa corsa folle per due ragioni principali:
1) non c’è nessuna proporzione tra i danni causati e i valori che si vorrebbero salvaguardare;
2) armarsi per difendersi, quando le armi di difesa hanno un potenziale distruttivo enorme, come l’atomica, perde ogni sua ragione d’essere, giustificazione, e legittimità.
Potremmo aggiungere che l’accumulo spropositato di armi nelle mani di pochi paesi, potrebbe spingere questi ad una politica di ricatto verso altre nazioni, mettendo a rischio il già precario equilibrio dei diversi paesi della comunità internazionale.
In più la corsa agli armamenti costituisce una profonda ingiustizia perché afferma il primato della forza sulla ragione (questo è un leit-motiv  che accomuna tutti i pontefici del secolo scorso fino a Benedetto XVI, nei loro incessanti appelli per la pace).
La corsa agli armamenti è inoltre una vera pazzia perché spinge i rapporti umani individuali e quelli politici inteazionali a basarsi sulla paura dell’altro creando attraverso il controllo dei mass media, una specie di isterismo collettivo. La corsa agli armamenti diventa un mezzo per imporre alle nazioni più deboli la propria visione del mondo. Tutto questo non è accettabile dalla coscienza cristiana.
La pace non è solo superamento del criterio di non belligeranza, è la riacquisizione di valori spirituali e ideali che promanano dal vangelo, come la difesa della vita, la valorizzazione della persona nella sua dignità e la costruzione di rapporti di giustizia tra individui e popoli. Se vogliamo che la pace non resti un sogno, dobbiamo avere il coraggio di sognare insieme.

Mario Bandera

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La guerra come sostegno di una pace che non c’è. Perché la pace ha bisogno di giustizia.

La logica del mondo è opposta alla logica cristiana evangelica:  l’una e l’altra sono incompatibili nel fine e nei mezzi. Il mondo del potere è finalizzato alla guerra come struttura di sostegno al dominio, il vangelo è finalizzato alla pace come struttura della coscienza individuale, fondamento della coscienza dei popoli. Il mondo vuole dominare, il vangelo esige di servire. Il mondo usa strumenti di distruzione anche quando potrebbe ricorrere a mezzi pacifici, il vangelo impone l’amore per i nemici come condizione essenziale della propria identità di figli di Dio. Il potere ha bisogno della guerra perché il suo obiettivo è l’annientamento dell’altro come ostacolo alla propria dittatura, la pace ha bisogno di giustizia perché il suo obiettivo è la convivenza. La guerra è serva del potere, il dialogo è trampolino per la pace. Due mondi e due strategie che non possono mai coincidere o soltanto venire a compromesso.

Opposti contraddittori. Bisogna scegliere: o Dio o mammona.  O il Dio dell’esodo o il vitello della schiavitù. O la pace o la guerra. Lev Nikolaevic Tolstoj  ci avverte che non è più tempo di «Guerra e pace» nel senso ineluttabile del destino, ma è tempo della responsabilità personale, sorgente del diritto pubblico e del destino dell’umanità.  Non c’è una via di mezzo. Non licet! Si deve scegliere. Il mondo guerrafondaio ha fatto proprio l’aforisma romano «se vuoi la pace prepara la guerra», sostenendo così il principio della moralità della guerra come sostegno della pace o per lo meno come deterrente dello stato di pace. Questa pseudo e lugubre filosofia è servita e serve a giustificare la guerra dovunque e comunque perché la pace deve essere difesa dappertutto e sempre e quindi necessita di armi che diventano così il fondamento primario dell’economia senza distinzioni di tempi e di qualità. L’aberrazione raggiunge livelli parossistici quando un’azione di guerra preventiva, un intervento armato o una spedizione di militari in assetto di guerra vengono spudoratamente definiti «azioni umanitarie». Le centinaia di migliaia di morti innocenti in Iraq o i torturati di Abu Graib e di Guantanamo avrebbero fatto a meno di questi aiuti umanitari che li hanno seppelliti sotto le bombe e al di fuori di ogni garanzia civile di diritto come prescrivono le convenzioni inteazionali.

Conseguenze logiche. Come cristiani siamo incastrati: o Dio c’è o Dio non c’è. Se Dio c’è, le conseguenze logiche sono inevitabili come lo sono quelle nell’ipotesi che Dio non ci sia. È finito il tempo e l’aberrazione del «giusto mezzo» che è la logica che tutto giustifica e nulla risolve come spesso hanno motivato la loro politica i partiti cosiddetti ispirati al cristianesimo. Non esistono né possono esistere partiti cristiani o cattolici come non può esistere un governo cattolico o cristiano, aspirazione truce di chi vorrebbe imporre la religiosità con la forza della spada o con l’obbligatorietà di leggi civili. La parola di Cristo è drastica e tagliente: non potete servire due padroni. L’uno (il mondo) si serve, l’altro (Dio) si cerca. I cattolici che sono nelle istituzioni elettive, i giovani che si arruolano volontari nell’esercito, uomini e donne che hanno ricevuto il battesimo nel Nome di Gesù Cristo crocifisso e risorto, non possono accettare qualsiasi compromesso con il militarismo comunque si camuffi e si manifesti. Nessun giovane oggi è obbligato a fare il militare in un esercito dove conta non più la difesa del proprio popolo, ma il grado di scientificità per ammazzare sempre meglio. Un giovane che sceglie di fare il militare si mette contro la logica del vangelo e si pone in una condizione di forte rischio per la sua sopravvivenza sia fisica che spirituale. Nessun credente può vestire una divisa militare che resta incompatibile con la veste bianca del battesimo. Anche dove il servizio militare fosse obbligatorio, il credente è obbligato a diventare obiettore di quella coscienza che è creata ad «immagine e somiglianza» di Dio. Il vangelo non è un codice di galateo o un manuale di realismo. Il vangelo è semplicemente la prospettiva del Regno di Dio che esige la non-violenza come pratica quotidiana di vita e di relazione:  a chi ti percuote sulla guancia destra porgi anche la sinistra; a chi ti chiede il mantello, offri anche la tunica. Una via di mezzo non esiste né può esistere.

Democrazia a sovranità limitata. I cosiddetti cattolici impegnati in politica a qualunque mangiatornia appartengano, sono indissolubilmente fedeli agli Usa. Divorziano cattolicamente dalle mogli, ma restano indissolubilmente fedeli nei secoli al matrimonio con gli Stati Uniti o meglio con il governo degli Usa che garantisce loro una masochistica sottomissione. Una parte di essi parla di pace, fa genuflessioni doppie davanti al papa, si appella ai «valori», ma sceglie sempre la guerra a favore della guerra. Berlusconi, drogato di americanismo e condizionato dal suo bisogno di essere fotografato accanto al texano Bush, ha dato carta bianca ai servizi segreti Usa e alle basi militari in Italia che come Paese cessa di essere una nazione autonoma e sovrana e diventa un pied-à-terre del governo degli Stati Uniti, come ha dimostrato il caso di Abù Omar. Non è da meno il governo Prodi, condizionato dal suo complesso di inferiorità (dimostrare di non essere anti-americano) che ha concesso il raddoppio della militarizzazione di Vicenza sulla testa e sulla vita degli abitanti, coprendosi con la foglia di fico della delibera comunale, relegando così la politica estera agli umori di un consiglio comunale di periferia. La smentita è venuta il 1o febbraio 2007 dal senato della Repubblica che ha votato un ordine del giorno dell’opposizione giustificato dal sen.  Renato Schifani, capo dei senatori proprietà di Berlusconi, con queste parole: «La scelta di ampliare la base è di rango politico ed è coerente con la politica estera del governo, in continuità con quella del governo precedente». L’Italia cagnolino di compagnia del governo statunitense e democrazia a tempo e limitata.
La voglia di guerra e il dovere della disobbedienza. Nel mondo cresce una voglia di armi e di guerra, una voglia così efferata e impudente che passa sopra i diritti naturali delle popolazioni chiamate a pagae il prezzo salato in termini di salute, di ambiente e di dignità. La concessione agli Stati Uniti del raddoppio della base militare già esistente a Vicenza è solo un sintomo tragico di una situazione senza ritorno.
Come se non bastasse a Cameri in provincia di Novara c’è il progetto di assemblaggio di caccia bombardieri da guerra aerea, trasportatori di bombe e/o testate nucleari. In 15 anni l’Italia dovrebbe acquistae 131 al costo previsto di 150 milioni l’uno (ma altri parlano di 200 milioni). Facciamo allora un po’ di conti: 8 F-35 all’anno costerebbero al nostro paese  1.200 milioni di euro, cioè circa il 4 % della finanziaria 2007. «Se non li faremo a Cameri, tante famiglie di lavoratori resteranno senza stipendio», è stato detto. Ma con tutti quei soldi (pubblici) quanti posti di lavoro «virtuosi» si potrebbero creare? Un fiume di denaro pubblico buttato nelle spese militari, mentre nel mondo la povertà avanza inesorabilmente e in Italia circa 3 milioni di famiglie non arrivano alla fine del mese.
A Vicenza e a Cameri bisognava dire un doppio «no», pretendendo una ridiscussione generale della politica estera e coinvolgendo l’intera Europa in una ricerca che analizzasse i fallimenti degli Stati Uniti, impedendo che continuassero a fare strage di democrazia e di integrità territoriale di paesi sovrani e liberi. Avremmo voluto assistere ad un governo compatto e univoco, mentre ancora una volta assistiamo allo scempio di una  non-maggioranza che sta dilapidando il patrimonio che le italiane e gli italiani gli hanno conferito sull’orlo del precipizio istituzionale berlusconiano.

Nemmeno un temperino. L’Italia terra strategica nel cuore del Mediterraneo per essere porta  tra Occidente e  Oriente, partecipa e condivide la politica suicida della rincorsa agli armamenti, diventando complice e causa di ingiustizie che si perpetrano in quel mondo che dice di volere aiutare con progetti di pace. I progetti di pace escludono le armi, anche il temperino degli scout perché la pace, ove fosse necessario, come è necessario, si arma dello scudo della non-violenza che consiste nel principio aureo: quando la violenza è inevitabile, è meglio subirla che darla. Nessuna deroga può esserci al principio evangelico: «Chi di spada ferisce di spada perisce». Il frutto maturo della nostra «civiltà» consiste nel fatto che oggi in ogni guerra in atto la percentuale dei militari morti è pari al 5% mentre i civili muoiono nella misura del 95%. I militari si divertono, gli innocenti muoiono. In caso di guerra nucleare, gli unici a salvarsi sarebbero i militari rinchiusi in qualche sommergibile. L’umanità corre a ritmo serrato verso la militarizzazione senza aggettivi perché oggi i governi sono condizionati da una politica militarista che determina l’economia, le alleanze e le scelte sociali.
Militarismo in clergyman.  Da questa prospettiva evangelica le cappellanie e gli ordinariati militari sono un controsenso evangelico e il segno grave di un’alleanza tra due poteri che si autoreferenziano e si alimentano reciprocamente. In nome del realismo. Il segno di questa aberrazione sono i vescovi e i preti militari che diventano parte integrante dell’esercito con titoli, stellette e relativo stipendio fornito dal ministero della difesa. Ministri dell’altare embedded  in tuta mimetica a servizio di una struttura di peccato perché strutturalmente finalizzata all’uccisione e alla morte. Nei primi tre secoli i militari non potevano accedere al sacerdozio come i figli dei macellai perché gli uni e gli altri erano familiari al sangue. Dopo ogni guerra i preti che vi hanno preso parte ricevono la dispensa nell’eventualità che avessero compiuto atti contrari allo status sacerdotale che propriamente non si addice al servizio militare (Codice Diritto Canonico 289 §1). In ogni guerra i cappellani delle diverse religioni pregano Dio perché protegga i propri soldati e ciò è una bestemmia perché esige da Dio un comportamento contraddittorio visto che in guerra qualcuno deve pur morire. Chi deve scegliere Dio? Con quale metodo? La guerra degli uomini diventa guerra tra gli «dèi» e ci riporta indietro all’Olimpo, quando le divinità parteggiavano per l’uno o per l’altro esercito. Oggi la presenza di preti e frati e vescovi inquadrati militarmente è una delle concause che giustificano e alimentano le guerre di religione e il dissesto etico delle nostre generazioni. Se anche la chiesa con proprio personale è dentro al processo militarista finalizzato alla guerra e alla violenza degli stati e dei loro eserciti, è impossibile annunciare il vangelo delle Beatitudini o del Magnificat o del Servo di Yhwh o pensare che il mondo possa cambiare e lasciare che la pace da sola possa farcela: davanti agli occhi del mondo la stessa guerra è giustificata e legittimata.

Esportare idiozia. Gli Usa hanno ammesso ufficialmente che la guerra in Iraq (ma anche quella in Afghanistan) è stata un fallimento completo (non potendolo dire così, parlano di «errori»). Gli unici risultati di quelle scellerate guerre, volute da un incapace e scellerato capo di governo a cui si accodarono altri scellerati capi di governo, pigmei illiberali e schiavi di servilismo, sono stati la destabilizzazione delle zone di guerre e del mondo intero che oggi è più fragile e più esposto al terrorismo che quelle guerre alimentano e ingrassano. L’idiozia di esportare la democrazia in armi ha prodotto l’accorciamento della democrazia negli stessi paesi produttori di guerra.  Quando, come Missioni Consolata, dicemmo (confortati anche da un papa) che la guerra è una pazzia fatta da pazzi contro pazzi e che nulla avrebbe risolto, ma tutto avrebbe aggravato, fummo tacciati di antiamericanismo, di disfattismo, di antipatriottismo e finanche di connivenza con i terroristi islamici. Fummo solo prevedibili e noiosi profeti impotenti. In una società civile democratica,  di fronte a questo sfacelo, uomini insignificanti come Bush, Blair, Berlusconi, Aznar che hanno voluto le guerre per ideologia avrebbero dovuto non solo dimettersi da ogni carica istituzionale, ma anche scomparire dalla scena politica perché hanno ingannato i loro popoli, li hanno defraudati della dignità, li hanno mandati allo sbaraglio e li hanno uccisi con falsità. Licenziati per incapacità di governo o peggio ancora per incapacità di valutazione previsionale. Un capo di stato che non sa prevedere le conseguenze delle proprie scelte è una iattura per il suo popolo.

Scenari mondiali: che succederà ora in Iran, Siria e Palestina?  Tony Blair ha di fatto affossato la (meritoria) proposta italiana all’Onu di moratoria sulla pena di morte. L’Europa, infatti, non parlerà una sola lingua perché Blair in Europa fa gli interessi degli Usa da cui non si discosta più di una museruola da cane. Una grande occasione perduta politicamente e moralmente. Il suo degno compare di guerre Bush, persa la guerra in Iraq, cerca di imbastie un’altra contro l’Iran con l’intento di scatenare una deflagrazione nel Medio Oriente e forse permettere ad Israele di usare armi atomiche per la soluzione finale di Iran, Siria e Palestina. Si è capovolto l’aforisma latino che diventa: parla di pace, ma prepara la guerra. Questa escalation verso la guerra sistematica cammina di pari passo con il degrado ambientale, la desertificazione del sud e dell’Africa  e la prospettiva della distruzione del pianeta per implosione della stupidità dei governi cosiddetti democratici. Per essere una civiltà occidentale ce n’è di che vergognarsi. In tutto questo frangente, siamo in attesa di sentire la voce della gerarchia ecclesiastica che in nome del vangelo e dell’etica che sgorga dalla sua dottrina sociale, sicuramente avrà una parola illuminante. Una parola di salvezza per i loro popoli e il loro ambiente geografico e sociale.

«Alienum a ratione». Semplicemente folle. «Quelli che vuol perdere, Dio rende pazzi», dice un proverbio latino  attualissimo oggi: la maggior parte dei governi sono in mano a uomini folli: il mondo è già collocato sulla bocca di un vulcano in eruzione perché con le riserve atomiche la terra può essere distrutta sette volte ed essi continuano ad armarsi sempre più modeamente, occupando sempre più territori, popoli e persone e perseguendo la sola logica che il demone della guerra concepisce e partorisce: la distruzione degli innocenti, la strage dei civili, la miseria e la povertà strutturale di due terzi dell’umanità. Con un cambio di strategia: nei prossimi mesi e anni sentiremo parlare di necessità di armarsi per la salvaguardia della stabilità ambientale. Il prologo è cantato dagli industriali che hanno fomentato abbondantemente il dissesto ambientale ad ogni livello (è drammatico il rapporto su clima e ambiente redatto dai maggiori esperti mondiali e reso pubblico lo scorso 2 febbraio), ma sono pronti a convertirsi all’ecologismo e all’economia ambientale perché vi hanno intravisto un modo «altro» per fare soldi e sottomettere sempre più popoli e territori ai loro guadagni. Non è lontano il tempo in cui vedremo i militari e gli eserciti convertiti alla difesa dell’ambiente per poterlo distruggere meglio, guadagnandoci anche il prezzo e sopraprezzo, mentre i loro popoli muoiono di fame o si avviano inesorabilmente verso la catastrofe ambientale annunciata. Pazzo o folle vuol dire senza ragione/illogico ed è così che Giovanni XXIII definisce la guerra nella enciclica Pacem in terris:  «alienum a ratione», semplicemente «folle».

La voglia di guerra è la soluzione finale dell’istinto di aggressività che regge la morale di questa nostra epoca: molti soldati, pur volontari, non vanno in guerra solo per guadagnare qualche centesimo in più, molti vanno perché spinti dall’odore del sangue a cui si sono allenati per anni senza mai avere la possibilità o di menare le mani o di mettere a frutto tutta la violenza che hanno incamerato nel tempo della preparazione professionale. I politici si divertono a garantire che i «nostri» soldati sono professionalmente preparati. Traduzione: i nostri soldati sono preparati ad uccidere professionalmente, cioè  a colpire per primi, cioè ancora ad agire «preventivamente» se vogliono salvarsi la pelle. I torturatori di Abu Graib torturavano «per diversivo o per noia». Allo stesso modo nelle strade delle nostre città persone fragili, ma che hanno sete di guerra senza poterla realizzare mettono in atto l’unica guerra possibile per bulli annoiati: aggredire persone ancora più deboli e fare ecatombe di stupri, di sesso, di violenza gratuita. Il futuro è già cominciato: la voglia militarista ha già intaccato il nostro vivere civile; la mentalità guerrafondaia dilaga e domina le nostre città e le nostre relazioni. Dio ci salvi da questo buco nero senza ritorno, se ancora è in grado di farlo. A noi cittadini inermi e credenti nel Dio di Pace, il dovere di resistere senza ambiguità.

Paolo Farinella

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Le armi non si devono nè vendere né costruire: «in piedi, costruttori di pace!»

«In piedi, allora, costruttori di pace. Anzi, come dicono i francesi, en marche!». Queste parole di don Tonino Bello (Arena di Verona, 1989) ci devono scuotere ancora oggi. Se ci guardiamo intorno e vediamo il crescere di una cultura militare e di guerra. Se apriamo gli occhi per vedere cosa davvero succede dietro alle scelte di ampliamento della base Usa a Vicenza, dietro alla notizia che il quotidiano Libero (non certo antiamericano…) riportava a fine gennaio 2007, in merito alla conferma della presenza nella base di Aviano di testate nucleari, dietro al folle progetto di assemblaggio a Cameri (Novara) degli aerei da guerra F35, i cui costi sono astronomici, davvero urge far risuonare le parole profetiche di don Tonino: «In piedi, costruttori di pace». Guai a chi mette velocemente nel cassetto le proprie motivazioni, magari anche cristiane, per buttarsi negli affari, nei vantaggi di un’economia armata, che pare essere davvero il motore di tutta l’economia e la finanza. Le armi sono un businnes pazzesco! Proprio pazzesco, sì! Perché la guerra, come dice la Pacem in terris di Giovanni XXIII, è «roba da matti» (alienum est a ratione).
Un segno profetico di fronte a questi progetti di morte ci viene dal documento, firmato da mons. Ferdinando Charrier, vescovo di Alessandria e presidente della Commissione Problemi sociali, Giustizia e Pace del Piemonte insieme a mons. Tommaso Valentinetti, vescovo di Pescara-Penne e presidente di Pax Christi Italia, del 25 gennaio scorso.
Scrivono i due monsignori: «Sulla scia dei pronunciamenti del magistero della chiesa desideriamo riaffermare, come comunità cristiana, la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione di strumenti concepiti per la guerra. Ci riferiamo, in particolare, alla problematica sorta recentemente sul nostro territorio piemontese relativa all’avvio dell’assemblaggio finale di velivoli da combattimento da effettuarsi nel sito aeronautico di Cameri (Novara). Riteniamo – continua il testo – che la produzione di armamenti non sia da considerare alla stregua di quella di beni economici qualsiasi».

Contro questa posizione si sono subito levate voci autorevoli, anche cattoliche (ahimè!), con questi toni  «pur dichiarandomi, in termini ideali, vicino ai vescovi, ritengo che non si possa prescindere, in una fase delicata per la nostra economia, da una valutazione pragmatica…  Dobbiamo fare tutto il possibile per far sviluppare il nostro territorio e non possiamo permetterci di perdere nessuna opportunità che vada in queste direzioni».
Come a dire: il vangelo va bene, ma a livello intimistico o per le suore di clausura. Nella vita poi bisogna essere realistici, e al vangelo subentrano altri criteri! Su alcuni valori non si transige (Pacs, aborto, famiglia, fecondazione artificiale…), su altri come l’economia, i soldi, la guerra… bisogna vedere, valutare…! 
Un altro messaggio profetico arriva dalla insanguinata terra dell’Iraq, dove ho molti amici. Ci sono stato più volte, anche nello scorso mese di dicembre. Avendo parlato del progetto degli aerei F35  al vescovo di Kirkuk, mons. Luis Sako, ecco cosa mi ha risposto:
«Che vergogna! Se un  beduino nel deserto si fabbrica  una spada per proteggersi,  si può capire. Ma gente del Primo Mondo, gente istruita e saggia, gente nobile che costruisce armi, aerei e altri strumenti di morte: questa è una cosa  vergognosa! Una cosa inammissibile. Basta armi! Basta distruzioni e gente che muore ogni giorno!  La vita è bella.  A causa delle armi fabbricate da voi e con i vostri soldi, in Iraq ogni giorno ci sono circa 100 morti, molti feriti e profughi. Lo stesso accade adesso in Somalia, Palestina, Libano e in  altri  paesi.  Il nostro paese è diviso e la popolazione che è rimasta vive nella paura».
«Queste armi sono solo fuoco e sono brutte come i loro fabbricatori. Con questi soldi potete costruire terre nuove  e formare gente nuova e aiutare positivamente alla crescita della vita!. Così sarete beati costruttori della pace e di una società migliore, invece di fare con queste armi una offesa a Dio e all’umanità intera. Questa è una colpa capitale», conclude Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, Iraq (31 gennaio 2007).

Brutti segnali di guerra e profetici richiami alla pace. Siamo in Quaresima, tempo di conversione. Ci aiutano ancora le parole di don Tonino all’Arena di Verona:  «Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire… che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena…  se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali».

Renato Sacco

Antonelli, Bandera, Farinella, Sacco




Che sia la volta buona?

Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi

Burundi, ottobre 1993. Poi Rwanda e ancora le guerre del Congo. Conflitti che hanno coinvolto decine di stati e fatto milioni di vittime. Crocevia di interessi minerari, traffico di armi e milizie mercenarie. Area di frizione tra influenze (straniere) linguistiche. L’instabilità nella regione era diventata endemica. Oggi con un patto a 360° i capi di stato africani cercano di voltare pagina.

Un importante patto sulla sicurezza, stabilità e sviluppo della regione dei Grandi laghi, firmato da otto capi di stato e di governo. È il risultato del secondo summit della Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi, svoltasi a Nairobi dal 13 al 16 di dicembre scorso.  Anche l’Unione Africana ha partecipato con il presidente della Commissione, Alpha Omar Konaré, mentre era presente il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la regione dei Grandi laghi, Ibrahima Fall e quello dell’Unione europea.
È il secondo vertice ai massimi livelli organizzato per questo scopo. I responsabili sono finalmente giunti ad un accordo che, se messo in pratica, può portare ad una convivenza politica, sociale, economica e un completo accordo sul come raggiungere la meta prefissa. 

Un po’ di storia

Con due risoluzioni nel 2000 le Nazioni Unite avevano chiesto una Conferenza internazionale su pace, sicurezza, democrazia e sviluppo nei Grandi laghi. Regione, dal 1993, devastata dai conflitti (Burundi, Rwanda e infine Congo). I paesi chiamati a partecipare furono undici, a causa delle implicazioni inteazionali che avevano assunto le guerre in questa regione: oltre a Burundi, Rwanda, Congo, Uganda, Kenya e Tanzania, anche Angola, Sudan, Repubblica del Congo e Repubblica Centroafricana e Zambia. Altri sette i paesi «co-optati»: Botswana, Egitto, Etiopia, Malawi, Mozambico, Namibia e Zimbabwe. I primi incontri si erano svolti nel 2003 e il primo summit a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, nel novembre 2004, dopo 4 anni di lavoro diplomatico.

Incidenti collaterali

Purtroppo il giorno prima della firma dei capi di governo per l’approvazione del documento finale, in Kenya si è verificata nel distretto dei Turkana un’ invasione di banditi provenienti dal distretto West Pokot, sul confine con l’ Uganda, in cui sono state massacrate 19 persone, oltre 6.500 capi di bestiame rubati, case e capanne distrutte. I banditi si sono divisi in due gruppi: uno per rubare il bestiame e condurlo nel distretto West Pokot, e l’altro difendeva i ladri a colpi di Kalashnikov. Più di venti abitanti del villaggio di Lorengipi sono in cura in diversi ospedali del distretto dei Turkana, alcuni in serie condizioni. Per un momento è sembrato che tutto dovesse crollare, che questo attentato brutale dovesse porre termine alla Conferenza, senza plausibili conclusioni, ma il presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ha detto che se i banditi credono di fermare il progresso della Conferenza con le loro razzie e uccisioni, hanno fatto i conti sbagliati. «Nulla  – ha affermato Kibaki – fermerà questo processo di sicurezza, di pace, di progresso».
Oltre al presidente del Kenya gli altri capi di stato presenti erano: Jakaya Mrisko Kilwestern della Tanzania, Levy Mwanawasa dello Zambia, Yoweri Museveni dell’Uganda, Pierre Nkurunzia del Burundi, Joseph Kabila della Repubblica democratica del Congo, Beard Makuza,  primo Ministro del Rwanda. Il rappresentante delle Nazioni Unite, a nome del Segretario Generale  uscente Kofi Annan, ha aperto la conferenza dicendo che «la Regione dei Grandi laghi è stata vittima delle più brutali guerre civili del continente», e si è augurato che «tutti gli stati sentano questo problema come il proprio problema. Voi avete definito le priorità di questo impegno, e voi dovete trovare vie e mezzi per lavorare assieme e risolverlo». Nel messaggio Kofi Annan ha detto: «Questo accordo non è solo una visione, è un programma. Milioni di persone – donne, giovani, rifugiati, sfollati – stanno guardandovi e guardandoci e aspettano benefici concreti. Richiamo i paesi della regione a continuare a mostrare padronanza del processo».

Di cosa si è parlato

L’interesse dei capi di stato era rivolto a quattro aree di vita dei loro paesi e delle relazioni con i paesi confinanti. Si è discusso di pace e sicurezza, democrazia e buongoverno, sviluppo economico e integrazione regionale, questioni umanitarie e sociali. Nella discussione su queste quattro aree c’è stata molta correttezza e anche molta onestà. Nonostante qualche momento critico come quando i presidenti Museveni e Kabila si sono scambiati forti accuse e condanne per il loro operato nel Congo. Museveni ha accusato alcuni governi,  soprattutto quello di Kabila, di dare ospitalità e di difendere «gruppi ribelli». «Il problema di nazioni che danno ospitalità e si schierano con le milizie, deve essere discusso ora nel modo più categorico». Ha proposto un emendamento al testo del decreto finale, in cui si dichiara che «qualsiasi stato che dà ospitalità a ribelli, sia trattato come tale».

Servono soldi

Un altro punto di divergenza è stato il sostegno finanziario necessario per tutto ciò che si approva. Alcuni hanno chiesto che gli stati stessi siano totalmente obbligati a finanziare tutte le iniziative approvate, altri invece sostengono che questo sarebbe impossibile senza aiuti estei. Il presidente della Tanzania è riuscito ad armonizzare le due parti dicendo: «Il fondo monetario richiede una enorme quantità di capitali. Nutro la speranza che noi saremo i primi a contribuire sostanzialmente al fondo, anche come segno di determinazione politica. Ma, riconoscendo i nostri limiti finanziari, dobbiamo anche chiedere aiuti alle nazioni e agenzie che considerano importante questo passo, determinante per la pace e il progresso nella nostra regione».
Gli stati dei Grandi laghi s’impegnano a dar vita a un centro che promuova la democrazia nella regione e ristori la legge dell’ordine. Dovrà pure controllare che il patto approvato dai capi di stato, sia eseguito da tutti gli stati e in tutti i suoi particolari. Dovrà preparare programmi di educazione alla democrazia e alla partecipazione alla vita democratica dei loro paesi. Un’altra responsabilità del centro è quella di aiutare i governi a risolvere pacificamente le loro divergenze.
Un fondo monetario di 225 milioni di dollari è stato approvato. Lo scopo è di promuovere lo sviluppo, l’integrazione economica e ricostruire le istituzioni distrutte da anni di guerre, specialmente nel Burundi, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo.
Tutti gli stati presenti s’impegnano a disarmare e ad espellere i gruppi di ribelli che ancora si nascondono in certe zone, e operano contro altri stati limitrofi. Il testo è molto forte e impegnativo. Dice: «Gli stati membri sono d’accordo che qualsiasi attacco contro uno o più di loro dovrebbe essere considerato come un attacco contro tutti loro. Se questo succede, ogni membro, nell’ambito della difesa individuale e collettiva, assisterà gli stati attaccati».
Gli stati del Kenya, Uganda e Sudan s’impegnano a disarmare i gruppi di pastori e nomadi delle loro aree semi-deserte.
Altri temi considerati anche se brevemente, sono stati la situazione delle donne e delle ingiustizie generalizzate e l’epidemia di Aids.
I capi di stato sono determinati a rispondere in modo responsabile per proteggere le popolazioni da genocidi, crimini di guerra, la decimazione di etnie, crimini contro l’umanità e severe violazioni dei diritti umani commessi da, o entro uno degli stati che hanno approvato l’accordo.
«La regione dei Grandi laghi ha problemi di sfollati, violenza sessuale, aids, e altre malattie sociali» ha ricordato il presidente Kibaki. Un protocollo del patto rende obbligatorio agli stati di proteggere, aiutare e cercare soluzione per gli sfollati, stimati a 9,5 milioni nella regione.
I rappresentanti della chiesa cattolica, presenti alla Conferenza, sono stati molto soddisfatti del patto approvato per la sicurezza, stabilità e sviluppo nella regione dei Grandi laghi. Secondo i vescovi presenti, l’iniziativa presa dai capi di Stato «offre una possibilità di iniziare un processo di riconciliazione che la chiesa pienamente approva». I vescovi hanno anche fatto appello alle popolazioni che nel passato hanno sperimentato guerre, ingiustizie, razzie, a  «perdonare e riconciliarsi gli uni con gli altri, nell’interesse di una pacifica convivenza».

Dopo la firma la parte più difficile

Al termine del summit, tutti i capi di stato si sono ritrovati unanimi nell’ammettere che il patto è stato un passo decisivo per la pace, il benessere e la cooperazione nella regione dei Grandi laghi. Tutto vero sulla carta ma le sfide restano enormi. Quella della messa in opera del patto, il Kenya lo sta già violando, negando l’entrata dei rifugiati somali; la sfida del contributo delle nazioni ricche al fondo per le realizzazioni; la sfida della «moralità» nella gestione di quei fondi.
«Penso sia possibile chiudere questo triste capitolo della storia della nostra regione – ha dichiarato il presidente Kikwestern – un capitolo caratterizzato da conflitti, insicurezza, instabilità politica e perdita di opportunità economiche».

di Antonio Bellagamba

Antonio Bellagamba




Caccia allo straniero

Il dramma degli «allogeni»

Tollerati durante il periodo d’oro dell’economia avoriana come manodopera nelle piantagioni di cacao, migliaia di immigrati burkinabé, maliani, togolesi, senegalesi e guineani, che da 50 anni vivono in Costa d’Avorio, oggi sono diventati «les allogènes», gli stranieri naturalizzati, e sono considerati una minaccia per le ricchezze della ormai non più ricca Costa d’Avorio.

La strada ombrosa che attraversa palmeti e piantagioni di cacao tra la città di Gagnoua e il villaggio di Sago è fatta di fango. Ogni giorno le enormi ruote dei camion che la percorrono scavano la terra, creando buche profonde che si riempiono d’acqua anche durante la stagione secca, diventando piscine infestate di zanzare. Il fango rosso è appiccicoso e non si stacca più di dosso. Ne sono pieni i pneumatici dei camioncini, delle vecchie automobili e delle biciclette che ci passano sopra, i sandali di quelli che camminano e i risvolti dei pantaloni degli uomini.
È sporco di fango anche il militare che presidia l’entrata del villaggio di Gueyo. I suoi stivali però sono nuovi e lucidi, segno questo che le coltivazioni di cacao che lo circondano portano ricchezza a tutti. Ferma i pochi turisti di passaggio per scambiare due chiacchiere e consiglia di non proseguire dopo il tramonto. «Ci sono i coupeurs de route – dice -, banditi che approfittano della cattiva condizione della strada per intrappolare e assalire chi passa».
Anche questo è un segnale di ricchezza: i commercianti che vengono a comprare il cacao girano per la foresta con in tasca moneta contante. Parecchia. «Un chilo di cacao – spiega padre Silvio Gullino con un accento ligure, rimasto intatto nonostante 20 anni di Africa – vale sui 350-400 cfa, mezzo euro. E visto che gli acquisti vengono fatti sull’ordine della tonnellata non è difficile capire quanto denaro circola in questa zona».

Ma il cacao non richiama solo i ricchi commercianti avoriani. Negli anni ha attirato decine di migliaia di lavoratori stranieri che si sono tuffati a testa bassa nelle operazioni di raccolta. Durante il periodo dello splendore economico, la Costa d’Avorio ha conosciuto un tasso di immigrazione che superava il 25% (a fronte di quello italiano del circa 3%) e, in 40 anni, è passata da 3 milioni di abitanti ai 20 milioni di oggi.
«Oltre tre quarti dei fedeli nelle cappelle intorno a Sago sono di origine burkinabé – chiarisce padre Jean Benedetti – sono venuti qui a lavorare nelle piantagioni e la foresta si è popolata di villaggi. Molti di loro lavorano per qualche anno in Costa d’Avorio e poi tornano nelle loro case d’origine, altri sono qui da molto più tempo».
Nessuno si è mai preoccupato della presenza di questi immigrati. Anzi. Finché hanno lavorato nelle piantagioni di cacao e hanno permesso all’economia avoriana di crescere a ritmi costanti erano tollerati. «Oggi le cose sono cambiate – spiega Maurizio Crivellaro di Inteational Rescue Committee -. Con la recessione economica degli anni ‘90, molti avoriani che si erano trasferiti in città per lavorare come impiegati o funzionari sono restati senza lavoro e sono tornati nei loro villaggi d’origine, trovando le terre che erano dei loro padri occupate da altre persone».
A 400 km da Sago, nel villaggio di Duékoué gli abidjanesi di ritorno hanno assalito con le armi i lavoratori di origine burkinabé che lavoravano nelle piantagioni. Il risultato è stato disastroso: a causa delle scarse conoscenze agricole gli ex impiegati hanno danneggiato le fave di cacao, facendo precipitare la produzione della zona da 3 mila tonnellate a meno di 500 l’anno.
D i fronte alla crisi politica e alla recessione, molti avoriani hanno trovato un capro espiatorio proprio in quei burkinabé e in quei maliani che prima avevano fornito parte della manodopera su cui si basava l’architettura economica del paese. «Siamo diventati les étrangers, gli stranieri – dice Idrissa Zungurane, un vecchio dioula di origine burkinabé, che ha passato più anni in Costa d’Avorio che nella sua madrepatria – perché i gueré (una delle etnie avoriane di maggioranza) sono gelosi di quello che abbiamo guadagnato onestamente con il nostro lavoro e usano le milizie per cacciarci dalle case che ci siamo costruiti. Sono razzisti».
Ma le accuse di razzismo non sembrano toccare i giovani avoriani. «Sono xenofobo: e allora?» è lo slogan che si sono fatti stampare gli studenti di Abidjan sulle magliette, quando due anni fa hanno sfilato per le strade della metropoli per la prima volta, al seguito dei Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé, leader delle milizie ultranazionaliste e capo indiscusso del movimento studentesco.
«La presenza straniera – grida continuamente ai suoi studenti il trentenne Blé Goudé, che sfoggia anche in piazza impeccabili completi gessati, impreziositi da cravatte colorate – è una minaccia per la purezza della razza avoriana e per tutto il paese. Cacciamo gli stranieri!». Il più citato da Blé Goudé nelle sue agorà improvvisate è il presidente «de l’Afrique digne», il rwandese Paul Kagame, l’uomo che ha saputo cacciare i francesi e gli stranieri.
«Da qualche tempo durante le riunioni dei Jeunes Patriotes – aggiunge Ehouman Kassy, corrispondente da Abidjan di Afrique Magazine – viene proiettato il documentario Touez-les tous! (ammazzateli tutti), in cui scorrono le immagini del genocidio rwandese. Secondo i leader degli studenti, tutto ciò serve per sensibilizzare la gente alle mostruosità della guerra civile, secondo altri per dimostrare ai nuovi adepti che si può compiere un massacro sotto gli occhi della comunità internazionale e delle Nazioni Unite senza preoccuparsi delle conseguenze».

A rafforzare la tesi di Kassy, il totale disorientamento dei caschi blu della Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) all’inizio di gennaio, quando un gruppo non identificato di combattenti ha fatto razzia nel villaggio di Kahin, uccidendo quasi 40 persone sotto gli occhi di alcuni peacekeepers, nel bel mezzo della zona cosiddetta de confiance. «Si è trattato di un gruppo armato di burkinabé esasperati dalla situazione – dice James Copnall della Bbc – che hanno deciso di vendicarsi delle violenze subite recentemente dai militari avoriani. Da 7 anni in Costa d’Avorio si sta ripetendo la storia di Yopougon», il quartiere di Abidjan dove si è verificato il primo massacro.
Nel 2000 un gruppo di poliziotti irruppe nel quartiere di Yopougon e uccise oltre 50 dioula, i cittadini avoriani di origine burkinabé o maliana, accusati dalla radio e da tutti i giornali di essere i colpevoli della recessione economica. «Fu orribile – raccontavano i testimoni dell’ecatombe -. Per salvarci ci siamo dovuti nascondere sotto i cadaveri dei nostri familiari mentre i poliziotti continuavano a sparare».
La vendetta non tardò ad arrivare: due anni dopo, durante la guerra civile, una sessantina di gendarmi e le loro famiglie furono catturati da un gruppo di dioula ribelli e furono passati per le armi al grido di «ricordatevi di Yopougon: adesso tocca a voi».

Nella zona di Sago non si sono verificati massacri ma la situazione è molto tesa. «Nelle nostre parrocchie – dice padre Silvio – non ci sono state violenze di massa, ma ogni volta che uno dei nostri catechisti di origine burkinabé si deve spostare tra un villaggio e l’altro nella foresta, la polizia e i militari gli rendono la vita difficile: lo minacciano e gli estorcono soldi».
Sulla costa gli allogènes di etnia dioula, mossi, krumen e fante, che in passato vivevano nei villaggi della foresta nelle piantagioni di cacao, si sono riuniti in un’enorme baraccopoli alla periferia  di San Pedro «e da quando è iniziata questa guerra – dice Maurice, le cui cicatrici rituali sul volto rivelano una provenienza burkinabé – non siamo più né avoriani né stranieri. Siamo dei disoccupati».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Si erano tanto amati

La Francia nel pantano avoriano

I francesi in Costa d’Avorio come gli americani in Iraq. Questo il senso dei titoli di alcuni siti internet, di alcuni giornali italiani e di molti giornali avoriani. In realtà il ruolo della Francia va ridimensionato: anche se la vecchia potenza coloniale ha dimostrato limiti enormi nella gestione del conflitto e le società francesi hanno cercato di difendere i loro interessi, il problema è molto più complesso.

Una piscina vuota, un tappeto spelacchiato, un’orchestra jazz che suona per pochi clienti annoiati, volti anonimi che si aggirano per il giardino d’inverno senza guardarsi attorno e un alone di tristezza che vela di grigio anche le stoffe sgargianti dei negozi di souvenir. Difficile immaginare che proprio in questo scenario, per tutti gli anni ‘80 e ‘90, sfilassero francesi eleganti e sorridenti, che si godevano le vacanze nella perla dell’Africa occidentale al culmine del suo splendore e ricchezza, racchiusa in migliaia di tonnellate di fave di cacao.
Eppure l’Hotel Ivoire, il più grande albergo dell’Africa occidentale, l’unico dei tantissimi grattacieli di Abidjan a ergersi fuori dal quartiere chic del Plateau, è stato l’emblema dell’idillio tra la Francia di Charles de Gaulle e François Mitterand e la Costa d’Avorio del presidente e padre della nazione Houphouët-Boigny.

MEMORIA RANCOROSA

Oggi, di quell’idillio da rivista patinata non rimane neppure un’immagine ingiallita e consunta: la visione dell’esercito francese che spara su una folla disarmata di manifestanti, all’indomani dello scontro tra l’aviazione avoriana e la missione francese Licoe del novembre del 2004, ha cancellato dalla memoria nazionale ogni ricordo degli anni d’oro.
Nella Costa d’Avorio del 2007, il rapporto tra avoriani e francesi è riassunto nella fotografia di un bianco che minaccia con il fucile un nero. L’esasperazione politica è dappertutto, perfino nei nomi delle salse che si accompagnano al fufù, negli slogan pubblicitari dei cellulari, nelle competizioni sportive.
Nel sud dominato dal governo del presidente Laurent Gbagbo, l’astio verso la Francia occupa una grossa parte del discorso politico. «Macché francesi – sbotta Kamsi, l’agente della polizia avoriana che presidia il posto di blocco all’entrata di Yamoussoukro, rispondendo al suo giovane collega che si informa sulla nazionalità degli europei di passaggio -. Se fossero francesi li avrei già spediti via invece di chiacchierare con loro».
«Sembra uno scherzo – aggiunge il cancelliere dell’ambasciata d’Italia ad Abidjan -, ma l’odio per i francesi è tale che la vittoria italiana ai mondiali di calcio è stata una vera manna diplomatica: abbiamo sconfitto i francesi e siamo automaticamente diventati eroi per gli abitanti della Costa d’Avorio».
L’ostilità degli avoriani nei confronti degli ex-colonizzatori, tangibile, a volte ostentata, si mescola al timore di non essere ascoltati, creduti, interpellati nelle decisioni che li riguardano da vicino. Come quella di fare la guerra. «Ditelo ai vostri amici europei, ditelo che qui non c’è nessuna guerra, che sono i francesi ad averla inventata per continuare a rubarci quello che è nostro» si raccomandano tutti gli avoriani, dai militari alla gente comune.
La campagna antifrancese della stampa pro-Gbagbo ha dato i suoi frutti e, da Abidjan a Yamoussoukro, tutta la Costa d’Avorio a sud della zona di interposizione Onu vede nell’esecutivo di Parigi un ostacolo all’apertura dell’economia ai partner inteazionali. Una forza militare di occupazione che si nasconde dietro al dito del mandato Onu per mantenere il controllo delle risorse avoriane.
Una cricca di cospiratori che muovono i fili delle marionette locali con l’appoggio di leader stranieri compiacenti e venduti, primo fra tutti il presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré. Una parte della stampa internazionale, inoltre, specialmente quella online, non risparmia alla Francia l’accusa di aver fatto della Costa d’Avorio il proprio Iraq, o il proprio Vietnam.
Thomas Hofnung, giornalista di Libération, trova la causa del divorzio tra Parigi e Abidjan in una più ampia «incapacità francese a ridefinire la sua politica verso un continente diverso da quello della decolonizzazione e in piena mutazione». Secondo Hofnung, la diplomazia francese è confusa: da una parte non se la sente di abbandonare la Costa d’Avorio al suo destino per timore di una nuova carneficina; dall’altra è rimasta a guardare senza schierarsi quando, dopo la morte del presidente Boigny nel 1993, la Costa d’Avorio si è lanciata nella spirale dell’ivoirité, dei colpi di Stato e delle «elezioni calamitose» del 2000.

LA PRESENZA MILITARE

Se la presenza militare francese sul territorio avoriano è una realtà che fin dal 1978 ha permesso al Paese degli Elefanti di non doversi preoccupare delle spese per la difesa e di dedicare le sue risorse allo sviluppo economico, l’intervento vero e proprio della Francia in Costa d’Avorio arriva solo alla fine del 2002. Il conflitto armato che segue il fallito colpo di stato ai danni di Gbagbo, tra il 18 e il 19 settembre, spacca il paese a metà, lasciando il sud nelle mani del governo e portando il nord sotto il controllo dei ribelli delle Forces Nouvelles.
È a quel punto che l’Eliseo affianca ai militari francesi già presenti sul territorio altri 4 mila soldati e lancia l’operazione Licoe. Pochi giorni dopo il mancato golpe, i militari di Parigi ricevono l’incarico di interporsi tra esercito regolare e ribelli e mettere in salvo i quasi 20 mila connazionali in Costa d’Avorio.
Ma i dubbi sull’effettivo ruolo dei francesi nella serie di colpi di stato che hanno sconvolto il paese rimangono. «È difficile credere – scrive su Le Monde Diplomatique la giornalista belga Colette Braekman – che gli onnipresenti servizi di intelligence francesi ignorassero che nei sobborghi della capitale burkinabé, Ouagadougou, dei militari avoriani stavano preparando in clandestinità un’invasione della Costa d’Avorio, reclutando espatriati avoriani del nord, ma anche combattenti burkinabé o maliani».
Se è vero che i francesi non hanno organizzato attivamente la ribellione, è altrettanto vero che non hanno fatto nulla per stroncarla sul nascere. Ovviamente la diplomazia d’oltralpe, a partire dall’allora ambasciatore ad Abidjan, Renaud Vignal, nega ogni responsabilità negli eventi e nel gennaio del 2003, a pochi mesi dal colpo di stato di settembre, il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin lancia un ciclo di trattative diplomatiche che si tengono a Linas-Marcoussis, nella periferia parigina, per dimostrare a tutti che la Francia è in grado di tenere sotto controllo la sua ex colonia.
A Marcoussis sono presenti tutti i principali attori della crisi avoriana e tutti sembrano disposti ad accettare un accordo, sintetizzato nell’ennesima road map della storia più recente. In realtà Gbagbo non si presenta: si fa rappresentare dal capo del suo partito, Pascal Affi Nguessan, con intenzioni che diventano chiare pochi giorni dopo e fanno dimenticare il sorriso soddisfatto con cui de Villepin affronta le conferenze stampa.

DALLA TENSIONE ALLO SCONTRO

Secondo l’Inteational Crisis Group, gruppo di esperti in monitoraggio del conflitto, «la mancanza di buona fede e di volontà politica hanno compromesso gli accordi di Linas-Marcoussis sul nascere». All’indomani della conferenza di pace, al grido di «a ciascuno il suo francese!», Charles Blé Goudé e i suoi Jeunes Patriotes, le milizie pro-Gbagbo, invadono le strade di Abidjan, alla notizia che i ribelli di Guillaume Soro hanno ottenuto il ministero della Difesa e quello degli Intei.
Gbagbo non deve nemmeno scomodarsi a sconfessare gli accordi. Il suo «non ero presente alle negoziazioni» è sufficiente agli occhi dei suoi sostenitori.
 L’inserimento della missione Licoe sotto l’egida dell’Onu, nel febbraio del 2003, in seguito alle pressioni francesi sul Consiglio di sicurezza, non allenta la tensione. Anzi. A fine ottobre, un poliziotto avoriano uccide di fronte a decine di testimoni Jean Hélène, corrispondente di Radio France Inteational (Rfi), freddandolo con un colpo di pistola alla testa. «Siamo in guerra e ho sparato a un nemico – dirà il sergente dopo l’arresto – non facevo nulla di male».
E non è l’unico avoriano a pensarla così, se pochi mesi dopo, nell’aprile del 2004, Abidjan viene scossa dai disordini di piazza e dagli scontri tra opposizione e Jeunes Patriotes che fanno almeno 120 morti (fonte Onu).
Quando il 4 novembre del 2004 Gbagbo decide di lanciare l’«operazione dignità», l’offensiva finale contro i ribelli, la situazione è già avviata al disastro, nonostante la Francia e le Nazioni Unite siano state informate da Gbagbo stesso delle intenzioni del governo. Pare che la sera prima dell’attacco, in una telefonata riportata da François Soudan su Jeune Afrique, Jacques Chirac abbia cercato di convincere il presidente avoriano a desistere, senza successo. «Se non lascio mano libera ai militari – dice Gbagbo – questi finiranno per rivoltarsi contro di me».
Il 4 e il 5 novembre gli aerei avoriani, due Sukhoi-25, decollano dall’aeroporto di Yamoussoukro e bombardano le aree controllate dai ribelli di fronte a 5 mila peacekeepers delle Nazioni Unite e a 4 mila uomini della Licoe che restano a guardare. Solo i caschi blu marocchini si attivano per impedire alla fanteria governativa di forzare la zone de confiance e scontrarsi direttamente con le Forces Nouvelles.
Il 6 novembre, l’aviazione avoriana però si spinge oltre: durante un’incursione su Bouaké, uno dei due Sukhoi punta sul Liceo Descartes – che ospita una caserma della Licoe – e sgancia una bomba. Il bilancio è di 9 morti tra i militari francesi, a cui si aggiunge un civile americano, impegnato in una missione umanitaria. «Ho visto i militari francesi correre dappertutto, gridare e piangere – racconta padre Gilles, della diocesi di Bouaké -; c’erano uomini a terra con ferite e ustioni, un caos generale».
La reazione francese è immediata: il generale Henri Poncet, comandante della Licoe e responsabile nel 1994 dell’evacuazione dei francesi dal Rwanda, ordina l’immediata distruzione dell’aviazione avoriana. Appena i due velivoli atterrano all’aeroporto di Yamoussoukro, partono i missili che li distruggono. Insieme al Liceo Descartes e ai due Sukhoi vanno in frantumi le relazioni cordiali tra Francia e Costa d’Avorio, al punto che Chirac non telefonerà a Gbagbo nemmeno per fargli le condoglianze per la perdita del padre.
Abidjan insorge la mattina dopo: la voce del leader dei Jeunes Patriotes, Blé Goudé, tuona in tutte le radio. «Mostrate la vostra dignità – grida agli avoriani -. Se state mangiando, fermatevi. Se state dormendo, svegliatevi. Tutti all’aeroporto, tutti alla base militare francese!». È la fine. I francesi sono diventati i cobelligeranti che hanno fomentato la guerra per continuare il pillage (saccheggio) della Costa d’Avorio. La mattina dell’8 novembre i militari francesi, che stanno seguendo le operazioni di evacuazione dei civili all’Hotel Ivoire, si trovano di fronte a una folla inferocita e reagiscono aggravando la loro posizione.
«Si sono levati in volo due elicotteri francesi – racconta un testimone italiano che vuole rimanere anonimo, ma la sua versione è suffragata da un rapporto di Amnesty Inteational – e hanno iniziato a sparare sulla folla per tenerla lontana. Ufficialmente ci sono stati 60 morti, ma io ho visto i francesi sparare migliaia di proiettili su una folla compatta di migliaia di persone e secondo me le vittime sono molte di più».

FINE DELLA FRANCIA IN AFRICA

Comunque siano andate le cose, qualunque sia il numero di morti, la fretta di seppellirli si rivela più forte del bisogno di un conteggio: a distanza di pochi giorni tutte le parti in causa, dai francesi al governo avoriano, iniziano a sgonfiare gli eventi. «La paura di un nuovo incontrollato genocidio rwandese – scrive ancora Hofnung – aleggiava nell’aria. In quei giorni la radio avoriana fu ribattezzata Radio Milles Lagunes sulla falsariga della rwandese Radio Milles Colines che incitava alla strage dei tutsi». Gbagbo stesso moltiplica gli appelli alla calma, anche se non smette di parlare di armate di occupazione e di una regia francese nei colpi di stato.
La fine ufficiale degli scontri, peraltro, non ha restituito ai francesi il loro prestigio. L’inaugurazione dell’enorme ambasciata americana ad Abidjan è forse il simbolo più evidente del passaggio di testimone. «La voglia di America degli avoriani è maggiore dell’interesse mostrato dall’amministrazione statunitense per la Costa d’Avorio – si legge nel libro di Hofnung – George Bush infatti non ha voluto scontrarsi direttamente con gli interessi francesi e non ha mai voluto ricevere Laurent Gbagbo alla Casa Bianca, ma è solo questione di tempo».
Oltre a ciò Washington ha fatto escludere il Paese degli Elefanti dall’Agoa (African Growth and Opportunity Act), che promuove gli scambi economici tra Usa e Africa, almeno fino a quando la situazione non si sarà regolarizzata.
La Francia comunque sta perdendo terreno e il rifiuto di Bush a Gbagbo viene letto più come un atto di clemenza verso Parigi che un avvicinamento tra le due potenze. «Il declino della Francia – conclude Hofnung – è legato alla fine di una generazione di politici francesi nati in Africa nel periodo coloniale e alla fine di una generazione di dinosauri africani che con la Francia facevano affari».
Le grandi aziende francesi che per anni hanno agito sul continente nero stanno registrando perdite economiche per milioni di euro e, al di là delle reali responsabilità di Parigi, molti africani sono ormai convinti che i francesi siano un manipolo di bianchi attaccati ai loro privilegi. Un nemico che ostacola lo sviluppo del continente.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




L’alba dell’indipendenza

Genesi del dramma avoriano

Per capire la crisi avoriana è necessario ripercorrere gli eventi che hanno portato alla guerra e ai massacri degli ultimi sei anni. Un’immagine più di ogni altra descrive la fine di un’epoca di prosperità e di pace che era valsa alla Costa d’Avorio la palma di perla dell’Africa occidentale: il gotha dell’Africa francofona e la Francia che conta, in primis François Mitterand, Jacques Chirac e Valéry Giscard d’Estaing, presenziano vestiti a lutto alla cerimonia funebre di Félix Houphouët-Boigny il 7 febbraio del 1994.
Nella colossale basilica di Yamoussoukro, la San Pietro della giungla voluta dal «Vecchio» per onorare le radici cattoliche della Costa d’Avorio, accanto ai politici siedono i signori dell’economia franco-avoriana: il costruttore Martin Bouygues, l’armatore Vincent Bolloré e quel Jacques Foccart,amico di Mobutu e di tutti i dittatori degli anni ‘60, che ha fatto da eminenza grigia dei rapporti franco-africani per almeno un ventennio, organizzando colpi di stato qua e là e influenzando le politiche del continente nero.
I funerali solenni del padre della nazione, quell’Houphouët soprannominato Boigny (ariete in baoulé, la sua lingua e gruppo etnico), che gli avoriani credevano immortale, si svolsero a tre mesi dalla sua morte in un’atmosfera di fine regno: al di qua e al di là del Mediterraneo tutti sapevano che con la morte del «Vecchio» si estingueva il contratto tra francesi e avoriani che aveva fatto della prosperità senza libertà la parola d’ordine della Françafrique. Il miracolo economico avoriano basato sull’indipendenza formale, voluta più dal generale Charles De Gaulle che da Houphouët, e sull’assoluta dipendenza militare della Costa d’Avorio dalla Francia era già finito da qualche anno. Ma la morte del presidente avoriano accelerò il processo.  

Personalità complessa e sfaccettata, il presidente dell’indipendenza aveva messo il suo genio politico al servizio di un principio: tutto cambi perché nulla cambi. La scelta di fare del suo villaggio natale, la piccola Yamoussoukro in cui era nato nel 1905, la nuova capitale politica del Paese ne era stata l’ultima dimostrazione: Abidjan, infatti, continuava a rimanere il vero centro nevralgico del potere politico ed economico, sede del governo avoriano e dell’Ambasciata di Francia, mentre Yamoussoukro si riempiva di ampi viali e giganteschi palazzi vuoti.
L’ex-potenza coloniale era presente ovunque, in ogni snodo economico, in ogni ganglio politico. Ma si trattava di una presenza discreta, lontana dagli occhi dei cittadini avoriani, che vedevano invece scuole funzionanti, rete stradale in rapida espansione, ospedali efficienti e, soprattutto, aumento della produzione di cacao, che dalle mille tonnellate annue del 1920 si era attestata sulle 380 mila del 1978.
Specchio del benessere derivato dall’oro marrone, Abidjan espandeva il suo quartiere chic, il Plateau dei grattacieli in perfetto stile Manhattan. Il momento d’oro coincise con la costruzione dell’Hotel Ivoire, il più grande e lussuoso dell’Africa occidentale.  
Mentre il denaro del cacao scorreva a fiumi nelle tasche degli alti papaveri e le briciole tenevano buoni i lavoratori avoriani attirandone di stranieri, i germi della crisi futura erano già al lavoro. Nessuno si preoccupò di dotare il paese di un’industria di trasformazione o di costruire alternative economiche da mettere in campo nel caso in cui le fluttuazioni del prezzo del cacao avessero portato a periodi di recessione.
La bella meccanica concepita da Houphouët si inceppò alla fine degli anni ‘70, quando l’offerta di cacao superò per la prima volta la domanda europea, facendo precipitare i prezzi. La Costa d’Avorio entrò così nella spirale economica negativa del debito pubblico: per mantenere il tenore di vita degli avoriani il governo si mise nelle mani delle istituzioni finanziarie inteazionali, primo fra tutti il Fondo monetario internazionale, e ai loro piani di ristrutturazione economica. Le riforme colpirono i salari dei dipendenti pubblici e costrinsero l’esecutivo a vendere la rete elettrica e idrica agli amici francesi.
Nonostante gli sforzi, gli errori del Fmi e del governo avoriano resero irreversibile la crisi. Nel 1987 una serie di speculazioni finanziarie innescarono la cosiddetta guerra del cacao: il governo avoriano congelò le esportazioni delle fave per costringere i cioccolatai europei a offrire un prezzo più favorevole ad Abidjan. Non fu così: le grandi società del cacao si rivolsero al vicino Ghana e alla lontana Malesia.
Houphouët  uscì sconfitto dalla prima e unica battaglia della sua vita e milioni di fave rimasero a marcire nella foresta, lacerando il già usurato tessuto economico del paese degli elefanti. Per la prima volta, all’inizio degli anni ‘90, il padre della patria subì le contestazioni della piazza. Migliaia di persone invasero le strade di Abidjan al grido di «Houphouët  voleur, Houphouët  démission!» (ladro, vattene). Era l’inizio della fine: l’Ariete aprì alle opposizioni e si arrese alla nascita di un sistema politico multipartitico.

Il 7 dicembre 1993, arrivò così, con un largo preavviso: la stampa avoriana diede la notizia della morte del «Vecchio» senza avere un nome degno della sostituzione. Lo scialbo Henry Konan Bédié divenne presidente ad interim in virtù del suo incarico di presidente dell’assemblea Nazionale, nonostante fosse stato il primo ministro Alassane Ouattara a garantire la continuità di governo nei giorni della malattia di Houphouët. La guerra degli eredi era cominciata sulle ceneri di un’economia distrutta. Di lì a poco sarebbero emerse le tensioni etniche che avrebbero reso ingovernabile la Costa d’Avorio del xxi secolo.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Galleria degli «errori»

Chi è chi nel conflitto avoriano

Da una parte la coppia presidenziale degli onnipresenti Laurent e Simone Gbagbo, con la loro retorica aggressiva ma anche brillante, almeno nel caso del presidente, e le milizie armate. Dall’altra un’opposizione fatta di personaggi con antichi conti in sospeso, da cui si stacca il giovane leader dei ribelli Guillaume Soro, la cui reale volontà di uscire dalla crisi è però tutta da verificare. Galleria dei protagonisti del conflitto che da cinque anni impedisce alla Costa d’Avorio di risollevarsi dal baratro di miserie politiche ed economiche in cui è precipitata alla morte del padre della patria, Félix Houphouët-Boigny.

Laurent Koudou Gbagbo
presidente della Costa d’Avorio
dal 2000

Nulla descrive Laurent Gbagbo meglio delle sue stesse parole: «I miei avversari dicono che ho una propensione a ingannare tutti? Se io li inganno, è perché loro sono ingannabili». E ancora: «Per arrivare dove sono oggi, sono passato attraverso gli anni difficili dell’opposizione, della clandestinità, della prigione. I miei avversari, invece, non sanno aspettare il loro tuo nella storia: vogliono il potere anche quando non spetta a loro».
Pirotecnico nell’eloquio, ironico, insolente, ma anche appassionato, determinato, razionale, Laurent Gbagbo è l’animale politico per eccellenza nella Costa d’Avorio del dopo Houphouët-Boigny. Abilissimo a giocare al gatto col topo con la diplomazia francese, specialista nel negare oggi quello che ha giurato ieri; la lotta politica è il suo pane fin dai tempi in cui, insieme all’energica moglie Simone, tramava contro il regime a partito unico di Houphouët, il «Vecchio» che per quasi mezzo secolo ha regnato sulla Costa d’Avorio in un rapporto quasi simbiotico con la Francia.
Figlio di un poliziotto che aveva combattuto nell’esercito francese durante il secondo conflitto mondiale, Laurent Gbagbo nasce 62 anni fa vicino a Gagnoa, nella Costa d’Avorio occidentale, in piena cintura del cacao e area bété, una delle etnie non certo favorite dal vecchio presidente.
Storico di formazione, è già attivo negli anni dell’università come sindacalista, ispirato da «idee marxiste di tendenza maoista». Imprigionato alla fine degli anni ‘60, fonda nel 1982 il Front Populaire Ivorien (Fpi) e si autoesilia a Parigi per 6 anni, da dove continua il suo lavoro di opposizione a Houphouët e l’elaborazione del suo programma politico. Rientra ad Abidjan nel 1988 e nel 1990 è l’unico sfidante del Vecchio alle elezioni, dove ottiene il 18% dei voti.

Nel 1992 è al governo Alassane Ouattara, scelto da Houphouët per mettere ordine, nei conti e non solo. Le leggi anti-sommossa promulgate dal premier porteranno Gbagbo in carcere per altri 6 mesi.
Nel 2000, dopo la morte del Vecchio e dopo il colpo di stato del generale Robert Gueï, si ricandida alle elezioni presidenziali: i requisiti per candidarsi, tutti incentrati sul concetto di ivoirité, sono talmente restrittivi che Gbagbo è l’unico avversario di Gueï. A sorpresa vince le elezioni, ma rifiuta di rimettere in palio il titolo includendo anche i candidati che la clausola di ivoirité aveva escluso.
Il conflitto avoriano, secondo Gbagbo, si riassume in poche parole: si tratta di una guerra di successione, iniziata dagli eredi di Houphouët, Alassane Ouattara e Henri Konan Bédié, una guerra nella quale i francesi non hanno saputo stare al loro posto. Cioè fuori.

Acclamato dai suoi come il patriota che può portare a termine la seconda decolonizzazione e la completa liberazione dalla tutela della Francia, i suoi detrattori lo dipingono come il despota che controlla veri e propri squadroni della morte e che si è abbandonato al fanatismo religioso, dopo che la moglie lo ha convinto ad avvicinarsi alla sètta evangelica americana Inteational Church of the Foursquare Gospel.
Quel che è certo è che Gbagbo non ha nessuna intenzione di abbandonare il potere: attaccandosi strenuamente alle prerogative presidenziali garantite dalla Costituzione, ha più volte ostacolato il lavoro del primo ministro Charles Konan Banny, scelto dai mediatori africani e dalle Nazioni Unite per portare la Costa d’Avorio fuori dalla crisi. D’altronde Gbagbo ha tutto l’interesse a coltivare questa situazione di stallo: finché resta alla presidenza, la comunità internazionale non può attivare contro di lui le procedure che lo porterebbero davanti al Tribunale penale internazionale, dove dovrebbe rispondere delle sue ambiguità nel gestire la violenza organizzata, appannaggio dei Jeunes Patriotes, che lascia a briglia sciolta – o addirittura fomenta – contro le opposizioni e gli stranieri.

Simone Ehivet Gbagbo
moglie di Gbagbo
e first lady della Costa d’Avorio

Niente asili, orfanotrofi e tagli di nastri: la first lady avoriana Simone Ehivet Gbagbo non ha tempo per queste cose da moglie del presidente. Di etnia akan, discendente di una famiglia reale, non si veste all’occidentale, preferendo i tessuti e tagli avoriani, e non si interessa di diplomazia. Anzi, la detesta, se è vero che ha liquidato gli avversari di suo marito con espressioni decisamente non tenere: «Henri Konan Bédié? Un idiota. Guillaume Soro? Un giovane manipolato e sotto pressione. Alassane Ouattara? Uno straniero».
E nemmeno a suo marito risparmia critiche, frecciate e aut-aut: durante le negoziazioni degli accordi di Marcoussis, la first lady dichiarò: «Se i nostri uomini vanno a Parigi per prendere decisioni che non ci soddisfano, al loro rientro non ci troveranno nel loro letto».

Classe 1949, figlia di un gendarme, perde la madre alla nascita e si trova rimbalzata da un angolo all’altro della Costa d’Avorio, insieme ai suoi 18 fratelli e sorelle. Appassionata di politica fin dal collège, è durante gli studi in Letteratura all’università di Abidjan che inizia la sua militanza: aderisce alla sezione femminile del movimento studentesco cattolico, rimane affascinata dalle tesi marxiste e dalla loro riedizione in chiave africana nei pensieri di Patrice Lumumba e Kwame Nkrumah.
Nel 1972, sotto lo pseudonimo di «Adèle», aderisce al movimento clandestino che si trasformerà nel Front Populaire Ivorien  (Fpi). Qui incontra «Petit Frère», nome di battaglia di un giovane professore di storia, Laurent Gbagbo, che diventa suo marito. Con lui condivide le lotte politiche contro il regime di Houphouët-Boigny, la prigione e, dal 2000, anche il potere.
Eletta deputata del Fpi nella circoscrizione di Abobo, quartiere povero di Abidjan, la sua propaganda è intrisa di elementi religiosi: da quando è diventata seguace della sètta evangelica Shekinah Glory Memories (Church of the Foursquare Gospel), guidata in Costa d’Avorio da Moïse Koré, pare che la first lady passi molto tempo a leggere la bibbia e digiuni spesso.
Ma i richiami a Dio e i discorsi dai toni quasi messianici non l’hanno tenuta lontana dalle pesanti accuse mosse tra gli altri da Onu e Radio France Inteational. La moglie del presidente sarebbe implicata nello scandalo dei rifiuti tossici scaricati qualche mese fa ad Abidjan e il suo entourage controllerebbe da presso gli squadroni della morte e i Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé. Sembrerebbe quasi che alla lady di ferro avoriana spetti la parte di lavoro sporco che Gbagbo non può permettersi di fare in prima persona.

Henri Konan Bédié
il delfino di Houphouët

Definito «personaggio scialbo» da Le Monde Diplomatique, Henri Konan Bédié è l’erede designato del padre della nazione Houphouët-Boigny. Muove i primi passi della carriera politica all’ombra del Vecchio, che gli spiana la strada e lo mette al riparo dagli scandali e accuse di corruzione. Dopo gli studi di economia è nominato ambasciatore negli Stati Uniti dal 1961 al 1966, ministro delle Finanze di Abidjan dal 1966 al 1977 e presidente dell’Assemblea nazionale dal 1980 al 1993.
Settantatreenne, originario del centro paese, di etnia baoulé come Houphouët, Bédié diventa presidente della Costa d’Avorio ad interim alla morte del suo predecessore, sopraggiunta nel dicembre del 1993.

Appena un anno dopo il suo insediamento fa indispettire Parigi, decidendo di concedere ai giganti americani Cargill e Adm alcuni contratti di esportazione del cacao, senza consultare le multinazionali francesi. Ma il suo nome è legato soprattutto all’introduzione della clausola dell’ivoirité nella competizione elettorale.
Dopo aver dichiarato, nel maggio 1994, «non ritireremo mai il diritto di voto a persone che votano in questo paese fin dal 1945», cede subito alla tentazione di eliminare con un solo colpo di spugna il suo più temibile avversario politico, Alassane Ouattara, l’ex primo ministro avoriano accusato di essere in realtà un burkinabé. Incarica dunque una commissione di intellettuali di definire il concetto di «ivoirité» attraverso il quale stabilire chi è avoriano e chi no, di conseguenza, chi ha diritto a far parte dell’elettorato attivo e passivo.

Messo così fuori gioco Ouattara, Bédié viene eletto con il 96% dei voti in uno scrutinio elettorale boicottato da tutta l’opposizione. Il suo mandato si caratterizza per la corruzione dilagante, nepotismo e incapacità di uscire dalla crisi economica, cominciata già alla fine degli anni ‘80 sull’onda del crollo del prezzo del cacao.
Nel dicembre del 1999, il colpo di stato del generale Robert Gueï mette fine alla presidenza di Bédié e apre le porte a Laurent Gbagbo.
In esilio in Francia fino al 2001, Bédié rientra per prendere parte al Forum di riconciliazione nazionale. È attualmente il presidente del partito fondato da Houphouët, il Pdci.

Alassane Ouattara
il grande escluso

«Uomo distinto e cortese, dai modi lenti, ma dall’intelligenza viva» per il giornalista di Libération T. Hofnung, «creatura satanica» per l’entourage di Gbagbo, Alassane Dramane Ouattara ha tutti i tratti del tecnocrate razionale e posato.
Ado, come lo chiamano i suoi sostenitori, non infiamma le folle, non ingaggia duelli politici o gare retoriche. Fa conti. Nel gennaio 2006, in occasione del suo rientro in Costa d’Avorio dopo tre anni di esilio in Francia, sbriga in due parole la parte toccante del suo discorso e va dritto al punto: «Vorrei dire ai giovani che i momenti difficili sono davanti a noi. Dal momento che la situazione economica è difficile, come economista direi addirittura catastrofica, vorrei dire loro che è questa la nostra priorità e che la pace ci aiuterà a uscire rapidamente dalla crisi economica».
Nato 65 anni fa a Kong, nel nord della Costa d’Avorio, musulmano, Ado studia economia negli Stati Uniti e inizia una brillante carriera che lo porta al Fondo monetario internazionale come economista e alla Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) come governatore.
Nel 1990 Félix Boigny lo richiama in Costa d’Avorio per mettere ordine nei conti avoriani, estremamente provati da un corso sfavorevole del cacao e da anni di corruzione imperante. Divenuto primo ministro, si trova fuori dal gioco politico poco dopo la morte del Vecchio, quando il suo principale avversario Konan Bédié fa approvare la clausola di ivoirité: Ado, che nel frattempo ha accettato l’incarico di vicedirettore generale al Fondo monetario internazionale, è nato in Costa d’Avorio, ma è titolare di un passaporto burkinabé. Per questo non può candidarsi alle elezioni.
La sua temporanea alleanza con quel Gbagbo, che tre anni prima aveva fatto arrestare, non sposta minimamente le sorti del voto, e Konan Bédiè è eletto presidente.

La sua nazionalità avoriana è riconosciuta solo nel 2001 dal Forum di riconciliazione nazionale, voluto dal presidente Gbagbo, che però rifiuta di metter in pratica le decisioni prese durante lo stesso Forum.
Oggi però, Ado, alla testa del Rassemblement des Rèpublicains, può esibire la sua carta d’identità avoriana e affermare: «Sono un figlio di Kong e ne sono orgoglioso. Le carte d’identità dei miei genitori sono disponibili e non sono state fatte ieri. Tutti le conoscono perché sono state pubblicate». Ma per Ado la strada è ancora tutta in salita.

Guillaume Soro
il capo dei ribelli

Il suo nome in lingua senoufo significa «invincibile», come spiega con un sorriso malizioso al corrispondente della Bbc. Guillaume Kigbafori Soro, 32 anni, orfano di entrambi i genitori, originario del nord della Costa d’Avorio, non ha bisogno di trovarsi un nome di battaglia come fanno i suoi uomini, i ribelli delle Forces Nouvelles. Sul campo di battaglia non c’è probabilmente mai stato, ma delle lotte politiche, nonostante la sua giovane età, è già un veterano.
Comincia con la militanza come capo della Federazione degli studenti avoriani (Fesci), che gli procura numerosi soggiorni in carcere durante la presidenza Bédié, ogni volta che una manifestazione degenera in disordini e scontri con la polizia.
Dopo aver lasciato il paese per continuare gli studi in Francia e in Inghilterra, riappare in Costa d’Avorio all’indomani del colpo di stato di Robert Gueï e tra il 1999 e il 2000 per cercare un’intesa con la giunta militare e lanciare un’operazione «mani pulite».

Ma il «Che» avoriano, come lo chiamano i suoi compagni del movimento studentesco, divorzia presto da Gueï e si rivolge al Rdr di Alassane Ouattara, con cui ha in comune tra l’altro la provenienza geografica. Nei giorni dell’ivoirité e dell’estromissione di Ouattara dalla competizione elettorale, condanna pubblicamente la campagna xenofoba, messa in atto contro le etnie del nord e gli stranieri, e sparisce di nuovo dalla scena avoriana.
Riappare nell’ottobre del 2002, un mese dopo lo scoppio della ribellione e la divisione del paese. Noto ora come «il generale» o «dottor Koumba», Soro si presenta come capo del Mouvement patriotique de Côte d’Ivoire (Mpci), che rappresenta le Forces Nouvelles e altri gruppi ribelli armati (ad esempio il Mpigo, movimento nato a ovest da combattenti liberiani).
La sua opposizione a Gbagbo non potrebbe essere più netta. È passato molto tempo da quando il giovane Soro, affascinato dal socialista Gbagbo, vedeva in lui il leader in grado di permettere agli avoriani di «non nascere e morire sotto il governo di Houphouët».
Nemmeno la comunità internazionale è al riparo dalle sue critiche. «Non ci si mette tra due litiganti – dice il giovane leader – se non si ha abbastanza forza per separarli».
Guillaume Soro, come Simone Gbagbo e Charles Blé Goudé, figura sulla lista nera delle Nazioni Unite per le violazioni dei diritti umani in Costa d’Avorio: il segretario generale delle Forces Nouvelles sarebbe colpevole di aver avallato le esecuzioni sommarie compiute dai ribelli. Ma, osservano molti commentatori, la sua è l’unica faccia nuova in un panorama politico popolato da dinosauri: se si andasse a elezioni questo potrebbe rivelarsi un vantaggio non da poco.
Dopo essersi visto attribuire il ministero degli Intei e della Difesa, un rimpasto di governo lo ha nominato ministro delle Comunicazioni nell’esecutivo di transizione guidato da Charles Konan Banny.

Charles Blé Goudé
il capo dei Jeunes Patriotes

«L’esercito francese? Saccheggia, stupra, uccide. Occupa il nostro Paese come la Germania faceva con la Francia». Questa dichiarazione è una delle più pacate tra quelle rilasciate da Charles Blé Goudé, il leader del movimento nazionalista dei Jeunes Patriotes. Succeduto al coetaneo Guillaume Soro alla testa della Federazione degli studenti (Fesci), Blé Goudé studia inglese all’università di Cocody, nella capitale avoriana, e frequenta un master in prevenzione e gestione del conflitto a Manchester.
Blé Goudé è il braccio propagandistico e armato di Gbagbo nelle strade di Abidjan: il suo appoggio attivo alla repressione delle manifestazioni in favore degli accordi di Marcoussis, nel marzo 2004, contribuirà al bilancio finale di centoventi morti e venti dispersi.
All’indomani dello scontro tra esercito avoriano e militari della Licoe, nel novembre dello stesso anno, sarà lui a incitare la folla inferocita a occupare l’aeroporto al grido di «a ciascuno il suo francese». Grande ammiratore del presidente rwandese Paul Kagame per i suoi continui attacchi frontali al ruolo della Francia in Africa, Blé Goudé è noto per le dichiarate posizioni razziste, riprese anche nel suo libro La mia parte di verità, di recente pubblicazione.

Charles Konan Banny
il premier di Mbeki e Obasanjo

Sessantaquattro anni di vita consacrata alle istituzioni economiche e finanziarie e l’appartenenza all’etnia baoulé di Houphouët-Boigny sono i tratti salienti della carta d’identità di Charles Konan Banny, l’attuale primo ministro avoriano.
Scelto nel dicembre 2005 dal duo di mediatori incaricati dall’Onu – il presidente sudafricano Thabo Mbeki e quello nigeriano Olusegun Obasanjo – l’ex governatore della Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) non è per ora riuscito a raggiungere l’obiettivo primario del suo incarico: quello di organizzare le elezioni presidenziali in Costa d’Avorio.
Lo scrutinio elettorale previsto per l’ottobre 2006 è stato rimandato di un altro anno, mentre Konan Banny si è visto colpito da velate accuse di connivenza con Gbagbo. Altre questioni spinose che si trova per le mani sono il mancato disarmo dei ribelli e le difficoltà nel regolare il funzionamento delle audiences foraines, i tribunali itineranti che hanno il compito di verificare l’effettivo numero di avoriani, e quindi di elettori, presenti sul suolo nazionale.

Di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




I coccodrilli della palude avoriana

I camion e gli autobus che percorrono la strada che da Bouaké va a Yamoussoukro rallentano all’improvviso. Sul ponte di Minabo la strada si restringe fino a ridursi a un’unica corsia. Dietro a qualche sacco di sabbia e a un cingolato bianco, un paio di soldati delle Nazioni Unite osservano il passaggio dei veicoli nella zona di confiance, l’area controllata dai caschi blu.
Poco dopo sono i militari avoriani a intimare l’alt. È la dogana che separa la zona controllata dai ribelli da quella in mano alle forze del governo.
A qualche metro di distanza, una donna litiga con un soldato. Gesticola, si agita e pesta i piedi. Il nodo del pagne, il fazzoletto rettangolare che le fa da copricapo, è sfatto, la sua t-shirt sgualcita, ma lei non cede. Per nessun motivo permetterà al militare di perquisire la grossa borsa di tela che stringe tra le mani. Sono i suoi effetti personali, qualche rotolo di franchi Cfa, tutto il denaro che ha a disposizione per il viaggio, e ha paura che le venga sequestrato.
Dietro di lei i gbaka, i camioncini a diciotto posti che attraversano il paese, sono pieni di gente esasperata per i continui controlli della polizia e le estenuanti attese.
Dopo alcune ore un ufficiale con il berretto rosso e lo stemma dei paracadutisti sblocca la situazione: dice qualcosa all’autista di un gbaka e velocemente una mazzetta di banconote cambia padrone. Un ordine secco e il traffico riprende a muoversi.
Non è così per il resto del paese, bloccato ormai da cinque anni da una guerra civile che non sembra avere soluzioni. «È una situazione di ni paix ni guerre – dice padre Martino Bonazzetti della Società dei missionari d’Africa – non c’è pace, ma non si può parlare di guerra».
Gli scontri armati sono limitati alla regione occidentale, ma l’odio negli animi degli avoriani è rimasto immutato e ha traslocato dal campo di battaglia alle piazze di Abidjan, dove ogni settimana si verificano incidenti tra i manifestanti e la polizia.

Nessuno dei protagonisti della crisi sembra interessato a uscire dalla situazione di stallo. Nel nord i ribelli hanno organizzato commerci illegali di cotone e armi con il Mali e il Burkina Faso e non cessano di vessare la popolazione con continue esazioni di denaro; a sud gli alti papaveri del governo avoriano controllano gran parte dell’esportazione del cacao e i profitti delle aziende a partecipazione statale.
«Di fatto – scrive il giornalista di Liberation, Thomas Hofnung, nel suo La Crise en Cote d’Ivoire – la Costa d’Avorio è prigioniera degli interessi di tutti quelli che traggono vantaggi diretti e indiretti dall’agonia del “Paese degli elefanti”. A soffrire rimangono solo i cittadini ordinari».
A fine dicembre il presidente Laurent Gbagbo è apparso alla televisione di stato avoriana proponendo una road map alternativa a quella voluta dalle Nazioni Unite e dalle forze ribelli per uscire rapidamente dalla crisi. «Un programma in cinque punti che non sarà mai accettato dalle opposizioni – ipotizza in via confidenziale il responsabile di una grande Ong internazionale – e che permetterà a tutti di continuare il gioco delle reciproche accuse, mantenendo lo stallo».
Quello che è certo è che la retorica di Gbagbo ha convinto i militari e la polizia. «La nostra fiducia nel presidente non è cieca e incondizionata – sbotta il doganiere avoriano al posto di blocco tra Sassandra e San Pedro, sulla costa oceanica -, ma se non lo lasciano lavorare non saremo mai in grado di giudicarlo. Non abbiamo bisogno di una tutela internazionale, non abbiamo bisogno dei militari francesi, delle Nazioni Unite e dei caschi blu. Se Gbagbo non fa il suo dovere saremmo noi avoriani a scegliere qualcun altro alle prossime elezioni».

Senza saperlo, il doganiere tocca il punto dolente dell’impianto della crisi: anche se i sondaggi condotti dall’Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) hanno confermato che l’attuale presidente è molto più amato di quanto lo siano i suoi avversari Alassane Ouattara, Henri Konan Bédié e Guillaume Soro; la sua rielezione rimane un’incognita.
Nel 2000, infatti, Gbagbo vinse grazie all’esclusione dal voto delle migliaia di immigrati burkinabé, maliani e guineani che negli anni erano stati naturalizzati avoriani e che per i calcoli dei predecessori di Gbagbo erano stati esclusi dalle liste elettorali.
Nel 1995, alla vigilia delle prime elezioni presidenziali multipartitiche, l’attuale candidato dell’opposizione ed ex presidente, Henry Konan Bédié, introdusse una legge che dava il diritto a candidarsi alla presidenza solo a chi avesse risieduto in Costa d’Avorio per almeno i precedenti cinque anni e avesse entrambi i genitori avoriani.
«La legge non mirava a togliere il voto agli stranieri che erano in Costa d’Avorio da più di 50 anni – sottolinea Hofnung -, ma aveva l’obiettivo di eliminare gli avversari di Bédié, in quanto l’allora candidato presidente Alassane Ouattara era detentore di un passaporto burkinabé».
Le conseguenze sull’elettorato, però, sono state immediate e sono una delle cause mai affrontate della crisi avoriana. Gli esclusi dal voto del 2000, almeno nei timori di Gbagbo, si aggiungerebbero oggi agli elettori favorevoli all’opposizione, non dimentichi che le milizie del presidente si sono a più riprese rese responsabili di atti di violenza contro gli stranieri.
Per questo, la presidenza ha ostacolato con ogni mezzo il regolare svolgimento delle cosiddette audiences foraines, durante le quali piccoli tribunali itineranti dovrebbero raccogliere i dati anagrafici degli abitanti dei villaggi per stabilire chi è avoriano e chi straniero.
Ma anche in questo caso, la diffidenza tra governo e ribelli ha congelato le operazioni. L’inizio delle audiences foraines si è scontrato con enormi problemi logistici e con le contestazioni spesso violente dei sostenitori di Gbagbo. Secondo questi, le condizioni in cui si dovrebbero svolgere le operazioni di riconoscimento dei quasi 3 milioni e mezzo di sans papiers non garantiscono l’assenza di frodi massicce. «Un gruppo di giudici, che va a raccogliere i dati dei contadini nei villaggi più sperduti con i mitra delle Forces nouvelles puntati alla tempia, non può essere obiettivo – dice uno dei tanti poliziotti ai posti di blocco nel sud del paese -. È necessario che i ribelli consegnino le armi prima di fare il censimento».
In realtà, secondo le informazioni dell’Inteational Crisis Group, le forze ribelli non hanno per nulla ostacolato o viziato le operazioni di riconoscimento. Quello che hanno fatto è stato invece rifiutare di disarmarsi fino al completamento delle audiences foraines.

Si è creata così una impasse: la contrapposizione tra la presidenza e i ribelli ha minato la già debole autorità del primo ministro della transizione Charles Konan Banny, che è diventato la principale vittima dei giochi di potere e ha deluso le aspettative degli avoriani che avevano intravisto una via d’uscita dalla crisi.
Nemmeno lo scandalo del traffico di rifiuti tossici che, nell’autunno del 2006, aveva costretto alcuni alti funzionari e ministri alle dimissioni è servito a dare una spallata decisiva al potere di Gbagbo, complice la poca incisività dei suoi oppositori. L’impressione è che Ouattara e Bédié preferiscano aspettare che il potere sia loro servito su un piatto d’argento dalla comunità internazionale, piuttosto che lanciarsi nell’agone politico contro i coniugi Gbagbo.

Lontano dai palazzi del potere, le razzie nei villaggi sono all’ordine del giorno tra Man e Guiglo, che si sono guadagnati l’appellativo mediatico di selvaggio west.
Ancora più preoccupante la voce che i mercenari liberiani del Model (Movimento per la democrazia in Liberia) sarebbero pronti a restituire il favore a Gbagbo, che li aveva ospitati sul territorio avoriano mentre organizzavano la loro resistenza contro il presidente del genocidio liberiano, Charles Taylor. «Questi miliziani – afferma Ehouman Kassy di Africa Magazine – si troverebbero in una piantagione vicina alla frontiera e aspetterebbero solo un cenno del presidente avoriano per attaccare i ribelli».
La paralisi ha fatto degenerare il tessuto sociale avoriano: i frequenti posti di blocco e le esazioni da una parte e dall’altra della zone de confiance hanno indotto un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Il pane ha subito nell’ultimo anno un aumento del 30%, per metà  imputabile ai continui taglieggiamenti da parte delle forze dell’ordine.
Tutto è diventato a pagamento, comprese le ricette mediche e, se i funzionari pubblici almeno continuano a ricevere gli stipendi, la corruzione ha invaso tutti i livelli dell’amministrazione.
«Diventare commissario di polizia costa 3 milioni di franchi Cfa in mazzette – spiega Jean Claude, giovane studente di giurisprudenza, oggi arruolato nelle file dell’esercito avoriano -. Molte famiglie si indebitano per fare entrare i figli all’accademia di polizia sapendo che una volta riusciti nel concorso si faranno a loro volta rimborsare con nuove tangenti».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini