Uccidera l’anima

Gamal Ghitani, giornalista e scrittore egiziano, nato il 9 maggio 1945, incarcerato dal regime nasseriano nel 1966, è autore di Zayni Barakat «un grande romanzo storico che rivela, con una sconcertante analisi, gli eterni meccanismi del potere e della corruzione», tradotto in 25 lingue (in italiano edito da Giunti). Nel 2006 ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per la raccolta di racconti Schegge di fuoco (Jouvence 2005). Lo abbiamo intervistato.

Iniziamo col parlare del grande maestro, Nagib Mahfuz, unico premio Nobel del mondo arabo (1988) da me presentato su Missioni Consolata (mostro l’articolo e foto su MC marzo 1996). Non fu solo un grande scrittore, ma anche intellettualmente molto onesto, che scava dentro i suoi personaggi e mostra la differenza tra quello che dicono e come appaiono e ciò che sono realmente, smascherando mediocrità e corruzione. Come lo ha incontrato e che cosa pensa di Mahfuz?
Lo incontrai nel 1959 quando lui era uno scrittore affermato e io avevo solo 14 anni: la conoscenza di allora è diventata amicizia. Per oltre 20 anni ci siamo incontrati ogni martedì sera: camminavamo lungo le sponde del Nilo e parlavamo di qualsiasi argomento. Era un incontro molto importante per me e per lui. Nel 1994, Mahfuz aveva 83 anni quando gli integralisti cercarono di ucciderlo, picchiandolo selvaggiamente, a causa del libro Il rione dei ragazzi. Smise di scrivere per due anni, dovendo fare riabilitazione fisica alla mano destra; ebbe anche seri problemi agli occhi: memorizzava e poi dettava i suoi pensieri. Il suo stile è molto semplice e nel  contempo molto forte. È ancora il numero uno tra gli scrittori di lingua araba. Tutta la mia generazione vede in lui un modello. Camminiamo alla sua ombra.

Come rievoca nel racconto «La scorta» in Schegge di fuoco, la sua esperienza quando fu imprigionato nel 1966 ha segnato la sua vita e influenzato il suo lavoro…
Avevo 21 anni, lavoravo già e mi ero iscritto a un partito segreto, di ispirazione maoista. Nasser perseguitava tutti questi movimenti politici. Fui arrestato con altri compagni. Fummo sottoposti a ogni tipo di tortura. Abbiamo trascorso così circa sei mesi. All’inizio del 1967 invitarono Jean Paul Sartre, che dichiarò di non poter venire in Egitto se non fossimo stati liberati. Grazie a questo intervento fummo liberati. Ci tengo a precisare che non siamo mai stati processati da nessuna corte e che io avevo lasciato il partito  prima del mio arresto, perché non gradivo che il partito mi dicesse che cosa dovevo o non dovevo scrivere o che censurasse i miei scritti. Sono infatti sempre stato una persona libera che vuole pensare e scrivere da persona libera.

L’esperienza del carcere ha ispirato il suo libro Zayni Barakat. Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Ho iniziato Zayni Barakat dopo la sconfitta inflittaci da Israele nella guerra del Kippur (o guerra dei 6 giorni). Continuavano a dirci che avevamo vinto, cioè a raccontarci bugie. Ho indagato nella storia per trovare un periodo storico a cui ispirarmi per poi raccontare che cosa succedeva ai giorni nostri. Nel contempo iniziai a lavorare come giornalista, visitando anche il fronte dell’Iran. Nel 1980 smisi di fare il corrispondente di guerra: un conto è morire per il mio paese, l’Egitto; un altro conto è morire per l’Iran. Sono uno spirito libero non un mercenario.

Un personaggio importante di questo romanzo è Zakaria, capo della polizia segreta: lo definirei un «mostro», che usa tutte le persone che crede di amare, anche bambini, per spiare tutto e tutti.
Descrivendo Zakaria, ho raccontato il comportamento reale della polizia, che usava qualsiasi mezzo: dal pedinamento all’imprigionamento, alle torture più atroci, spesso fino all’uccisione, quasi sempre senza un giusto processo. 

Zayni Barakat, il grande censore del Cairo (titolo del romanzo) in modo più subdolo si comporta come Zakaria. Infatti appare come una persona irreprensibile, ma, usando frasi altisonanti che chiamano in causa Dio, la giustizia, il benessere della comunità, di fatto anche lui usa e manipola le persone.
Zakaria diceva: «Distruggiamo l’anima e il corpo», mentre per Zayni «bisogna distruggere l’anima, cosicché la stessa persona può continuare a camminare, ma sarà un’altra persona», diverrà cioè parte di un sistema e pedina del potere.

Un altro  personaggio, Said, lo studente, è definito nella presentazione il suo alter ego, sempre pedinato, seguito, cade quasi in disperazione, perché non sa come comportarsi.
Said è il simbolo della mia generazione.

In vari suoi racconti ha descritto altri modi, praticati al giorno d’oggi, per «uccidere l’anima». «Cerimonia» è popolato di personaggi quasi grotteschi di una organizzazione umanitaria, che raccoglie ingenti fondi per imprese fantasma, ma non fa nulla per la gente; il protagonista di «Ricetrasmittente» è un giovane onesto e istruito, circondato da poliziotti e amministratori corrotti, che lo obbligano ad andarsene; in «Notizia» il capoufficio non dimostra alcun interesse per il solerte fattorino. Insomma menzogna, camuffata da «buone azioni», corruzione e indifferenza… «uccidono l’anima».
Proprio così. Desidero, però, precisare che quando scrissi quei racconti, mi trovavo in un momento molto delicato della mia vita: 10 anni fa dovetti recarmi negli Usa per un intervento al cuore. Alcuni amici mi consigliarono di scrivere dei racconti. La raccolta Schegge di fuoco è il frutto di quel periodo, in cui mi sentivo in punto di morte.
Che cosa «cura l’anima»? La sorella che cucina per il fratello i piatti preferiti, malgrado gli impegni di famiglia e sia diabetica; la madre che aiuta il figlio preparando panini deliziosi per il suo negozio… In pratica, è la famiglia la «cura dell’anima».
Questo è quanto succede in Egitto. La famiglia è molto, molto importante.

Il protagonista di «Letargo» si rattrista e quasi piange, quando legge il versetto: «Io non vi chiedo altra mercede, se non l’amore per il prossimo». Perché?
Tutte le persone povere e semplici (come l’uomo onesto del racconto «Ricetrasmittente», vittima della corruzione di poliziotti e burocrati) soffrono per la corruzione e sanno che tale versetto troppo spesso si riduce a semplici parole.

In un’intervista lei ha affermato che ci sarà vera democrazia  solo quando nel mondo ci sarà onestà per costruire vera giustizia e vera pace.
Sono obiettivi  ancora molto lontani e non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per l’Occidente. Costruire una società che offra a tutti la possibilità di istruirsi e avere una vita dignitosa è quasi un miraggio. Ho scoperto che lo stesso progresso può, di fatto, uccidere l’uomo.  Nel mondo la situazione è molto brutta se pensiamo che il 5% dell’umanità detiene tutta la ricchezza del pianeta, mentre  milioni di persone sopravvivono a mala pena. Basta leggere alcuni miei racconti come «Cerimonia» per scoprire gli inganni che ci circondano.

Di Silvana Bottignole

NAGIB MAHFUZ Premio Nobel per la letteratura 1988

Nato nel 1911 in un quartiere popolare del Cairo, Nagib Mahfuz è morto il 30 agosto 2006 all’età di 95 anni. Nel 1994 (aveva 83 anni) fu minacciato di morte e poi selvaggiamente picchiato dai fondamentalisti islamici a causa del suo libro: Il rione dei ragazzi. Che cosa contiene questo romanzo di tanto «pericoloso»?
Il rione dei ragazzi (tradotto in italiano nel 2001) era uscito a puntate nel 1959 sul quotidiano egiziano Al Ahram; la raccolta in un volume, edizione leggermente espurgata, è stata pubblicata a Beirut nel 1967.
Con la genialità di grande scrittore, Mahfuz racconta la spiritualità popolare, che ha ispirato i mitici cantastorie delle caffetterie della Cairo Vecchia. Adham (Adamo), Ghabal (Mosè), Rifaa (Gesù), Kassem (Maometto) e un emblematico mago Arafa con assistente (forse Marx e Mao) sono i protagonisti di 144 brevi capitoli, tanti quanti le sure del Corano.  
Come tutti gli abitanti del vicolo discendono da Ghabalawi, l’antenato che vive nella Grande Casa, proprietario di tutti i beni amministrati da un fiduciario. Purtroppo, però, «per ogni uomo che cerca di fare del bene, troviamo dieci capi che brandiscono i loro manganelli e cercano lo scontro; cosicché la gente si è abituata a comprare la propria incolumità con tangenti in denaro, sottomissione e servilismo».
Adham è il capostipite, cacciato dalla Grande Casa per la sua curiosità. Sollecitato da Idris (diavolo in forma umana) e incoraggiato dalla moglie, voleva conoscere i segreti del «libro» proibito. Al contrario di Idris, ladro e seminatore di discordia, Adham vivrà del suo duro lavoro, ma sempre nel rispetto del severo Ghabalawi, che lo perdonerà.
Ghabal, salvato e cresciuto dalla figlia del fiduciario, non sopporterà le oppressioni fatte al suo popolo, parlerà con Ghabalawi e, divenendo incantatore di serpenti, sconfiggerà il fiduciario, rimanendo «proverbiale fra la sua gente per giustizia, forza e ordine».
Riifa, quasi simile a Ghabalawi ed esortato dalla sua voce, vuole scacciare gli spiriti del male che albergano nel cuore degli uomini, per lui «i migliori sono quelli che fanno del bene». Farà un matrimonio pro forma per salvare una prostituta da morte sicura, ma sarà tradito da questa con i capi, che lo uccideranno. «Alla sua morte, Riifa godette di un onore, rispetto e amore che mai aveva sognato quando era vivo. La sua vita divenne una storia gloriosa… specialmente da parte di Ghabalawi, che raccoglie il suo corpo e lo seppellisce nel giardino… Alcuni dei suoi seguaci giunsero agli estremi, evitando persino il matrimonio, con l’idea di imitarlo».
Kassem, grande ammiratore di Ghabal e Riifa, su invito di un servo di Ghabalawi, comincia ad addestrare il popolo nell’uso dei bastoni, perché desidera portare la giustizia di Ghabal, la misericordia di Riifa, ma anche gestire il patrimonio. Dopo molte battaglie, diverrà fiduciario, facendo conoscere alla gente del suo vicolo «fratellanza, amore e pace».
Infine, il mago Arafa giunge quando nel mondo c’è molta sofferenza. Vuole conoscere il libro segreto di Ghabalawi, causandone la morte. Diverrà una pedina del fiduciario, che userà le sue bombe rudimentali per opprimere e spaventare la gente. Qualcuno spera ancora nel suo messaggio.

Silvana Bottignole

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