La Francia nel pantano avoriano
I francesi in Costa d’Avorio come gli americani in Iraq. Questo il senso dei titoli di alcuni siti internet, di alcuni giornali italiani e di molti giornali avoriani. In realtà il ruolo della Francia va ridimensionato: anche se la vecchia potenza coloniale ha dimostrato limiti enormi nella gestione del conflitto e le società francesi hanno cercato di difendere i loro interessi, il problema è molto più complesso.
Una piscina vuota, un tappeto spelacchiato, un’orchestra jazz che suona per pochi clienti annoiati, volti anonimi che si aggirano per il giardino d’inverno senza guardarsi attorno e un alone di tristezza che vela di grigio anche le stoffe sgargianti dei negozi di souvenir. Difficile immaginare che proprio in questo scenario, per tutti gli anni ‘80 e ‘90, sfilassero francesi eleganti e sorridenti, che si godevano le vacanze nella perla dell’Africa occidentale al culmine del suo splendore e ricchezza, racchiusa in migliaia di tonnellate di fave di cacao.
Eppure l’Hotel Ivoire, il più grande albergo dell’Africa occidentale, l’unico dei tantissimi grattacieli di Abidjan a ergersi fuori dal quartiere chic del Plateau, è stato l’emblema dell’idillio tra la Francia di Charles de Gaulle e François Mitterand e la Costa d’Avorio del presidente e padre della nazione Houphouët-Boigny.
MEMORIA RANCOROSA
Oggi, di quell’idillio da rivista patinata non rimane neppure un’immagine ingiallita e consunta: la visione dell’esercito francese che spara su una folla disarmata di manifestanti, all’indomani dello scontro tra l’aviazione avoriana e la missione francese Licoe del novembre del 2004, ha cancellato dalla memoria nazionale ogni ricordo degli anni d’oro.
Nella Costa d’Avorio del 2007, il rapporto tra avoriani e francesi è riassunto nella fotografia di un bianco che minaccia con il fucile un nero. L’esasperazione politica è dappertutto, perfino nei nomi delle salse che si accompagnano al fufù, negli slogan pubblicitari dei cellulari, nelle competizioni sportive.
Nel sud dominato dal governo del presidente Laurent Gbagbo, l’astio verso la Francia occupa una grossa parte del discorso politico. «Macché francesi – sbotta Kamsi, l’agente della polizia avoriana che presidia il posto di blocco all’entrata di Yamoussoukro, rispondendo al suo giovane collega che si informa sulla nazionalità degli europei di passaggio -. Se fossero francesi li avrei già spediti via invece di chiacchierare con loro».
«Sembra uno scherzo – aggiunge il cancelliere dell’ambasciata d’Italia ad Abidjan -, ma l’odio per i francesi è tale che la vittoria italiana ai mondiali di calcio è stata una vera manna diplomatica: abbiamo sconfitto i francesi e siamo automaticamente diventati eroi per gli abitanti della Costa d’Avorio».
L’ostilità degli avoriani nei confronti degli ex-colonizzatori, tangibile, a volte ostentata, si mescola al timore di non essere ascoltati, creduti, interpellati nelle decisioni che li riguardano da vicino. Come quella di fare la guerra. «Ditelo ai vostri amici europei, ditelo che qui non c’è nessuna guerra, che sono i francesi ad averla inventata per continuare a rubarci quello che è nostro» si raccomandano tutti gli avoriani, dai militari alla gente comune.
La campagna antifrancese della stampa pro-Gbagbo ha dato i suoi frutti e, da Abidjan a Yamoussoukro, tutta la Costa d’Avorio a sud della zona di interposizione Onu vede nell’esecutivo di Parigi un ostacolo all’apertura dell’economia ai partner inteazionali. Una forza militare di occupazione che si nasconde dietro al dito del mandato Onu per mantenere il controllo delle risorse avoriane.
Una cricca di cospiratori che muovono i fili delle marionette locali con l’appoggio di leader stranieri compiacenti e venduti, primo fra tutti il presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré. Una parte della stampa internazionale, inoltre, specialmente quella online, non risparmia alla Francia l’accusa di aver fatto della Costa d’Avorio il proprio Iraq, o il proprio Vietnam.
Thomas Hofnung, giornalista di Libération, trova la causa del divorzio tra Parigi e Abidjan in una più ampia «incapacità francese a ridefinire la sua politica verso un continente diverso da quello della decolonizzazione e in piena mutazione». Secondo Hofnung, la diplomazia francese è confusa: da una parte non se la sente di abbandonare la Costa d’Avorio al suo destino per timore di una nuova carneficina; dall’altra è rimasta a guardare senza schierarsi quando, dopo la morte del presidente Boigny nel 1993, la Costa d’Avorio si è lanciata nella spirale dell’ivoirité, dei colpi di Stato e delle «elezioni calamitose» del 2000.
LA PRESENZA MILITARE
Se la presenza militare francese sul territorio avoriano è una realtà che fin dal 1978 ha permesso al Paese degli Elefanti di non doversi preoccupare delle spese per la difesa e di dedicare le sue risorse allo sviluppo economico, l’intervento vero e proprio della Francia in Costa d’Avorio arriva solo alla fine del 2002. Il conflitto armato che segue il fallito colpo di stato ai danni di Gbagbo, tra il 18 e il 19 settembre, spacca il paese a metà, lasciando il sud nelle mani del governo e portando il nord sotto il controllo dei ribelli delle Forces Nouvelles.
È a quel punto che l’Eliseo affianca ai militari francesi già presenti sul territorio altri 4 mila soldati e lancia l’operazione Licoe. Pochi giorni dopo il mancato golpe, i militari di Parigi ricevono l’incarico di interporsi tra esercito regolare e ribelli e mettere in salvo i quasi 20 mila connazionali in Costa d’Avorio.
Ma i dubbi sull’effettivo ruolo dei francesi nella serie di colpi di stato che hanno sconvolto il paese rimangono. «È difficile credere – scrive su Le Monde Diplomatique la giornalista belga Colette Braekman – che gli onnipresenti servizi di intelligence francesi ignorassero che nei sobborghi della capitale burkinabé, Ouagadougou, dei militari avoriani stavano preparando in clandestinità un’invasione della Costa d’Avorio, reclutando espatriati avoriani del nord, ma anche combattenti burkinabé o maliani».
Se è vero che i francesi non hanno organizzato attivamente la ribellione, è altrettanto vero che non hanno fatto nulla per stroncarla sul nascere. Ovviamente la diplomazia d’oltralpe, a partire dall’allora ambasciatore ad Abidjan, Renaud Vignal, nega ogni responsabilità negli eventi e nel gennaio del 2003, a pochi mesi dal colpo di stato di settembre, il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin lancia un ciclo di trattative diplomatiche che si tengono a Linas-Marcoussis, nella periferia parigina, per dimostrare a tutti che la Francia è in grado di tenere sotto controllo la sua ex colonia.
A Marcoussis sono presenti tutti i principali attori della crisi avoriana e tutti sembrano disposti ad accettare un accordo, sintetizzato nell’ennesima road map della storia più recente. In realtà Gbagbo non si presenta: si fa rappresentare dal capo del suo partito, Pascal Affi Nguessan, con intenzioni che diventano chiare pochi giorni dopo e fanno dimenticare il sorriso soddisfatto con cui de Villepin affronta le conferenze stampa.
DALLA TENSIONE ALLO SCONTRO
Secondo l’Inteational Crisis Group, gruppo di esperti in monitoraggio del conflitto, «la mancanza di buona fede e di volontà politica hanno compromesso gli accordi di Linas-Marcoussis sul nascere». All’indomani della conferenza di pace, al grido di «a ciascuno il suo francese!», Charles Blé Goudé e i suoi Jeunes Patriotes, le milizie pro-Gbagbo, invadono le strade di Abidjan, alla notizia che i ribelli di Guillaume Soro hanno ottenuto il ministero della Difesa e quello degli Intei.
Gbagbo non deve nemmeno scomodarsi a sconfessare gli accordi. Il suo «non ero presente alle negoziazioni» è sufficiente agli occhi dei suoi sostenitori.
L’inserimento della missione Licoe sotto l’egida dell’Onu, nel febbraio del 2003, in seguito alle pressioni francesi sul Consiglio di sicurezza, non allenta la tensione. Anzi. A fine ottobre, un poliziotto avoriano uccide di fronte a decine di testimoni Jean Hélène, corrispondente di Radio France Inteational (Rfi), freddandolo con un colpo di pistola alla testa. «Siamo in guerra e ho sparato a un nemico – dirà il sergente dopo l’arresto – non facevo nulla di male».
E non è l’unico avoriano a pensarla così, se pochi mesi dopo, nell’aprile del 2004, Abidjan viene scossa dai disordini di piazza e dagli scontri tra opposizione e Jeunes Patriotes che fanno almeno 120 morti (fonte Onu).
Quando il 4 novembre del 2004 Gbagbo decide di lanciare l’«operazione dignità», l’offensiva finale contro i ribelli, la situazione è già avviata al disastro, nonostante la Francia e le Nazioni Unite siano state informate da Gbagbo stesso delle intenzioni del governo. Pare che la sera prima dell’attacco, in una telefonata riportata da François Soudan su Jeune Afrique, Jacques Chirac abbia cercato di convincere il presidente avoriano a desistere, senza successo. «Se non lascio mano libera ai militari – dice Gbagbo – questi finiranno per rivoltarsi contro di me».
Il 4 e il 5 novembre gli aerei avoriani, due Sukhoi-25, decollano dall’aeroporto di Yamoussoukro e bombardano le aree controllate dai ribelli di fronte a 5 mila peacekeepers delle Nazioni Unite e a 4 mila uomini della Licoe che restano a guardare. Solo i caschi blu marocchini si attivano per impedire alla fanteria governativa di forzare la zone de confiance e scontrarsi direttamente con le Forces Nouvelles.
Il 6 novembre, l’aviazione avoriana però si spinge oltre: durante un’incursione su Bouaké, uno dei due Sukhoi punta sul Liceo Descartes – che ospita una caserma della Licoe – e sgancia una bomba. Il bilancio è di 9 morti tra i militari francesi, a cui si aggiunge un civile americano, impegnato in una missione umanitaria. «Ho visto i militari francesi correre dappertutto, gridare e piangere – racconta padre Gilles, della diocesi di Bouaké -; c’erano uomini a terra con ferite e ustioni, un caos generale».
La reazione francese è immediata: il generale Henri Poncet, comandante della Licoe e responsabile nel 1994 dell’evacuazione dei francesi dal Rwanda, ordina l’immediata distruzione dell’aviazione avoriana. Appena i due velivoli atterrano all’aeroporto di Yamoussoukro, partono i missili che li distruggono. Insieme al Liceo Descartes e ai due Sukhoi vanno in frantumi le relazioni cordiali tra Francia e Costa d’Avorio, al punto che Chirac non telefonerà a Gbagbo nemmeno per fargli le condoglianze per la perdita del padre.
Abidjan insorge la mattina dopo: la voce del leader dei Jeunes Patriotes, Blé Goudé, tuona in tutte le radio. «Mostrate la vostra dignità – grida agli avoriani -. Se state mangiando, fermatevi. Se state dormendo, svegliatevi. Tutti all’aeroporto, tutti alla base militare francese!». È la fine. I francesi sono diventati i cobelligeranti che hanno fomentato la guerra per continuare il pillage (saccheggio) della Costa d’Avorio. La mattina dell’8 novembre i militari francesi, che stanno seguendo le operazioni di evacuazione dei civili all’Hotel Ivoire, si trovano di fronte a una folla inferocita e reagiscono aggravando la loro posizione.
«Si sono levati in volo due elicotteri francesi – racconta un testimone italiano che vuole rimanere anonimo, ma la sua versione è suffragata da un rapporto di Amnesty Inteational – e hanno iniziato a sparare sulla folla per tenerla lontana. Ufficialmente ci sono stati 60 morti, ma io ho visto i francesi sparare migliaia di proiettili su una folla compatta di migliaia di persone e secondo me le vittime sono molte di più».
FINE DELLA FRANCIA IN AFRICA
Comunque siano andate le cose, qualunque sia il numero di morti, la fretta di seppellirli si rivela più forte del bisogno di un conteggio: a distanza di pochi giorni tutte le parti in causa, dai francesi al governo avoriano, iniziano a sgonfiare gli eventi. «La paura di un nuovo incontrollato genocidio rwandese – scrive ancora Hofnung – aleggiava nell’aria. In quei giorni la radio avoriana fu ribattezzata Radio Milles Lagunes sulla falsariga della rwandese Radio Milles Colines che incitava alla strage dei tutsi». Gbagbo stesso moltiplica gli appelli alla calma, anche se non smette di parlare di armate di occupazione e di una regia francese nei colpi di stato.
La fine ufficiale degli scontri, peraltro, non ha restituito ai francesi il loro prestigio. L’inaugurazione dell’enorme ambasciata americana ad Abidjan è forse il simbolo più evidente del passaggio di testimone. «La voglia di America degli avoriani è maggiore dell’interesse mostrato dall’amministrazione statunitense per la Costa d’Avorio – si legge nel libro di Hofnung – George Bush infatti non ha voluto scontrarsi direttamente con gli interessi francesi e non ha mai voluto ricevere Laurent Gbagbo alla Casa Bianca, ma è solo questione di tempo».
Oltre a ciò Washington ha fatto escludere il Paese degli Elefanti dall’Agoa (African Growth and Opportunity Act), che promuove gli scambi economici tra Usa e Africa, almeno fino a quando la situazione non si sarà regolarizzata.
La Francia comunque sta perdendo terreno e il rifiuto di Bush a Gbagbo viene letto più come un atto di clemenza verso Parigi che un avvicinamento tra le due potenze. «Il declino della Francia – conclude Hofnung – è legato alla fine di una generazione di politici francesi nati in Africa nel periodo coloniale e alla fine di una generazione di dinosauri africani che con la Francia facevano affari».
Le grandi aziende francesi che per anni hanno agito sul continente nero stanno registrando perdite economiche per milioni di euro e, al di là delle reali responsabilità di Parigi, molti africani sono ormai convinti che i francesi siano un manipolo di bianchi attaccati ai loro privilegi. Un nemico che ostacola lo sviluppo del continente.
Chiara Giovetti e Alessio Antonini