Quale spiritualità per un altro mondo possibile?

Forum mondiale di teologia e liberazione

In che condizioni versa oggi la teologia della liberazione? 250 teologi, professionali e non, si sono incontrati a Nairobi per tastarle il polso e valutae l’impatto che ha oggi sul mondo contemporaneo.

La teologia della liberazione è ancora capace di produrre riflessioni che puntano a sovvertire uno status quo iniquo e ingiusto per milioni di persone? Può infiammare i cuori di tanti cristiani e spingerli a lottare a colpi di parola di Dio contro questo sistema, o si è anch’essa ridotta a pura conversazione accademica, tomba di tante teologie?
È ancora capace di chiamare «amici» o «fratelli» le vittime della storia o tende ad analizzarle asetticamente, mettendole in provette da laboratorio? Si alimenta ancora del sogno di Dio? Si lascia sfidare, assumendole come proprie, dalle provocazioni che vengono dai «grassroots movements» (movimenti di base), o ha perso lo slancio delle origini? In altre parole: è ancora viva la teologia della liberazione?
Queste e altre domande sottostavano alla celebrazione del secondo «Forum mondiale di teologia e liberazione», che si è tenuto presso il Carmelite Centre di Langata,  quartiere di Nairobi che ospita un alto numero di congregazioni religiose e centri di studio teologici importanti come il Tangaza College e l’Università cattolica dell’Africa Orientale (Cuea).
Dal 16 al 19 gennaio si sono riuniti circa 250 partecipanti provenienti da tutto il mondo, pronti a ribadire la vitalità della teologia che, senza dubbio, ha rappresentato una delle più evidenti novità della chiesa post-conciliare, una chiesa che si vuole incarnare nelle sofferenze di tutte le genti che attendono, già in questo mondo, un segno di liberazione.

DA PORTO ALEGRE A NAIROBI

La prima edizione si era tenuta due anni fa a Porto Alegre (Brasile) e, come in questo caso, la riunione dei teologi aveva preceduto la celebrazione del World Social Forum. L’idea di fondo era la seguente: se il motto «un altro mondo è possibile» ispirava la riflessione e l’azione di tanti gruppi e movimenti che operano nel sociale, tanto più doveva animare coloro che, per fede, credono veramente che questa utopia possa realizzarsi.
Il titolo che il comitato organizzatore aveva scelto per l’incontro di Porto Alegre era: «Teologia per un altro mondo possibile». Lo sforzo era stato, allora,  quello di riunire insieme un panel di teologi della liberazione di prim’ordine che potessero offrire un quadro il più possibile esauriente dello stato della riflessione teologica a livello mondiale. Molte conferenze, quindi, e poco spazio era stato riservato al contributo dei partecipanti.
Quest’anno si è cercato di dedicare buona parte del tempo a seminari e gruppi di discussione e limitando così lo spazio dedicato alle esposizioni degli esperti. Il tema, inoltre, si prestava maggiormente alla condivisione delle esperienze di tutti, essendo dedicato alla individuazione di una «spiritualità per un altro mondo possibile».
Altra nota positiva è stato organizzare questo secondo Forum in Africa e in modo particolare a Nairobi. Innanzitutto per l’importanza che la capitale del Kenya riveste oggi a livello teologico, grazie alla presenza di tante istituzioni accademiche e di ricerca, non soltanto cattoliche; ma anche perché Nairobi è in grado di offrire utilissimi spunti di riflessione a una teologia che vuole far partire la sua riflessione dal basso, da quegli anfratti del mondo che rimangono inesplorati a causa della miseria e del disagio che li invade. Non vi è città al mondo, oggi, che vive il dramma di un’urbanizzazione selvaggia, forzata e rapida, come quella che riempie quotidianamente le già traboccanti baraccopoli della capitale kenyana.
TEOLOGIA AFRICANA
Un altro punto positivo è rappresentato dallo spazio che la teologia africana ha avuto all’interno del Forum. Le presentazioni degli studiosi del continente hanno seguito due cornordinate principali: l’incontro del mondo africano e della sua religiosità con le grandi religioni e il dialogo che con esse può nascere.
La seconda cornordinata era orientata al sociale e soprattutto alle domande alle quali la teologia è chiamata a dare risposta oggi in Africa. La difesa dell’ambiente, il cappio del debito estero, la pandemia Hiv/Aids, il perdurare di situazioni di grave conflitto, come in Sudan o nel Coo d’Africa, sono veri e propri «luoghi teologici» che interpellano la teologia e la sfidano sul piano della coerenza e del senso.
Come ha sostenuto il sociologo e intellettuale belga Francois Houtart, l’Africa è il continente più intrinsecamente connesso con la globalizzazione e con il modello capitalista neoliberale imperante, proprio in ragione dei benefici che tutto il mondo trae dallo sfruttamento della sua gente e della sua terra.
Come unire queste due cornordinate in un unico flusso di pensiero, fedele alle radici culturali, aperto alle sfide di un mondo in perenne cambiamento e nello stesso tempo attento alle esigenze di chi soffre?
Laurenti Magesa, sacerdote cattolico e teologo tanzaniano di fama, autore fra l’altro di un recentissimo saggio sul modo di ripensare la missione in Africa ai nostri giorni (Rethinking Mission: Evangelization in Africa in a New Era, Aamecea, Eldoret-Kenya, 2006), ha ribadito come il cristiano africano di oggi debba imparare a dissetarsi nuovamente alla fonte di una spiritualità propria. È questo il primo passo di un viaggio verso un vero e proprio esodo mentale ed emozionale, dalla situazione attuale di schiavitù spirituale, sfruttamento e miseria, verso una nuova terra promessa. Un cammino di liberazione integrale verso la giustizia, la libertà, una patente di «credibilità» anche spirituale cui l’Africa anela.

GUARDARE LA VERITÀ

Il punto centrale del Forum (e in una certa misura anche il suo nervo scoperto) è stato il tentativo di individuare punti di contatto tra ricerca e prassi. Più volte è stato ribadito uno dei principi basilari della teologia della liberazione, cioè che il punto di partenza è la realtà vista da un’angolatura particolare: il mondo degli oppressi. Lo ha rimarcato con forza uno dei suoi padri storici, il gesuita salvadoregno Jon Sobrino, ricordando come «le vittime e solo le vittime aprono gli occhi alla realtà», una realtà spesso ovattata, camuffata da chi vuole difendere privilegi usurpati.
Giovanni nel suo vangelo scrive che il maligno è assassino e bugiardo. Se si vuole costruire un mondo alternativo e se si vuole affermae davanti a tutti la sua possibilità occorre vincere questo modello di menzogna e ricorrere a chi ti può presentare un quadro della realtà veritiero e affidabile. La vittima appare per quello che è, con il suo bagaglio di povertà, crudeltà e morte, incapace di nascondere una realtà che la umilia e la ferisce.
Uno dei momenti più importanti del Forum è stato il pomeriggio dedicato alle visite di alcune realtà significative di Nairobi: gli slums di Kibera e Korogocho, alcuni ostelli per l’accoglienza dei bambini di strada e, infine, un progetto di sviluppo comunitario, iniziato e portato avanti dalla comunità della parrocchia St. Joseph the Worker. Kibera, quartiere dormitorio di Nairobi in cui vivono, ammassate come formiche circa 800 mila persone, è lo slum più grande dell’Africa. Le vittime appaiono nude ai nostri occhi, sono lì, basta avere il coraggio di guardarle.

DALLA VERITA’ ALLA CON-PASSIONE

Ma guardare non è sufficiente. Bisogna passare dalla contemplazione della verità, resa manifesta dalle vittime, a una prassi che le liberi dalle catene che le opprimono. «Se il maligno – ricorda Sobrino – non solo è bugiardo, ma anche assassino, alla verità che smaschera la menzogna deve accompagnarsi allora una prassi di compassione capace di generare vita».
Nella compassione, intesa come una condivisione nel dolore e, quindi, una forza generatrice di giustizia e liberazione, può incontrarsi, secondo il teologo latinoamericano, il terreno per costruire una spiritualità per un mondo alternativo. Una spiritualità che deve essere comune, in dialogo con fedi e culture diverse, con le teologie delle grandi religioni, come quelle delle religioni tradizionali che cercano con decisione il loro spazio anche perché espressione di culture marginalizzate o oppresse.
Il discorso vale per le teologie tradizionali africane come per la teologia afro e quella india, tutte presenti con loro rappresentanti al Forum di Nairobi.
Sebbene il tema generale del Forum verteva sull’individualizzazione di una spiritualità per il mondo «altro», che si sta cercando di costruire, ciò che alcuni hanno notato e rimarcato è stato il carattere poco «religioso» del Forum, come se invece di camminare nel dialogo rispettando le proprie differenze, si cercasse di costruire una spiritualità senza religione, a-confessionale. Uno degli appunti fatti dalla platea al Forum è stato: «Qui si sta facendo molta teologia e poca liberazione», criticando così l’incapacità di liberarsi da schemi teologici fissi, vincolanti, senza immaginazione e profezia.
In realtà, a parere di chi scrive, non si è fatta neppure tanta teologia. Si è parlato di movimenti, si è disquisito di organizzazioni, di coscienza e di lotta, di chiesa e di religione, ma si è parlato poco di Dio. E una teologia che lasci Dio ai margini non solo non può esistere, ma è una contraddizione in termini.
L’intento di dare più spazio a laboratori di gruppo e seminari, sullo stile applicato al World Social Forum, è stato lodevole, ma le conclusioni sono risultate molte volte scollate dalle riflessioni presentate nelle conferenze e, spesso, dal tema generale del Forum. Anche l’apporto dei teologi professionali si è limitato in massima parte alla presentazione di un elaborato che non teneva conto degli spunti che arrivavano dai lavori di gruppo e che avrebbero meritato una più attenta lettura teologica.
Forse, per la prossima occasione, bisognerà pensare a qualche cosa di diverso, magari a organizzare questo Forum di teologia dopo il Social Forum, in modo da attingere spunti e provocazioni provenienti dal basso, dal mondo delle organizzazioni, dei movimenti, delle chiese o, soprattutto, da coloro che soffrono sulla loro pelle una forma di oppressione che non aspetta altro che di essere rimossa e chiedersi: «Dio, a questo grido, come risponderebbe?».
Non è una domanda che prevede una facile risposta. Tanto meno un Forum, proprio per le sue caratteristiche, poteva offrie una. Ne è prova la difficoltà che si è avuta nel redigere una dichiarazione conclusiva da presentare al World Social Forum.
In realtà, un tentativo lo aveva fatto la professoressa Mary Getui, presidente del comitato di organizzazione locale, suggerendo quello che poi è diventato il motto della manifestazione: «I am somebody and I can do something» (sono qualcuno e posso fare qualche cosa).
Restano profetiche, a questo riguardo, le parole con le quali Desmond Tutu ha chiuso il Forum, ricordando la sua esperienza in Sudafrica e la lotta senza tregua di un popolo oppresso per ottenere la propria libertà. Lo ha fatto comparando quei tempi con la situazione del Sudafrica odierno e delle sue chiese, che hanno perso la freschezza, la spontaneità e la genuinità della testimonianza, frutto della persecuzione e della lotta.
Il cammino della liberazione era chiaro negli anni dell’apartheid; oggi lo è molto meno, in Sudafrica come altrove. Forse troverebbe nuovamente il suo senso, se la teologia venisse nuovamente fatta a partire da Kibera e dagli altri innumerevoli luoghi che umiliano milioni di persone in tutto il mondo.

Di Ugo Pozzoli


Intervista con Maricel Mena Lopez

UNA TEOLOGIA DAI TANTI VOLTI

Terminati gli studi teologici di base presso l’università Javeriana di Bogotà (Colombia), hai proseguito il tuo iter accademico in Brasile, dove hai conseguito il dottorato in sacra scrittura. Da un po’ di tempo sei tornata alla Javeriana, questa volta come insegnante. Sei afro-colombiana e ti dedichi con passione alla ricerca nell’ambito della teologia etnica e all’accompagnamento pastorale di comunità afro-discendenti. Ti ho presentato, adesso raccontami qualcosa di questo tuo amore per la teologia afro.
Mi interesso delle teologie afro e della liberazione dagli anni ’80; da quando,cioè, ho iniziato a lavorare più direttamente con gruppi giovanili e comunità di base. Ma l’inizio delle mie inquietudini «teologiche» è coinciso con il lavoro nel barrio San Martín, un quartiere molto povero di Cali, popolato per il 95% da persone afro-discendenti. La maggior parte della gente veniva dalle comunità negre del Pacifico, esattamente come la sottoscritta. Insieme abbiamo iniziato a pensare come recuperare canti, tradizioni delle comunità di origine. La domanda che sottostava a tutto questo lavoro era: «Sarà possibile esser negra e cristiana nel medesimo tempo?».

E che risposta vi siete dati?
È stato l’inizio di una ricerca, di un lungo processo. Nei nostri paesi dell’America Latina abbiamo assunto un cristianesimo di stampo molto europeo. Si trattava di vedere come. Noi abbiamo solo cercato di dargli un volto e un corpo più afro; siamo partiti dall’esperienza di fede, che trascende il puro discorso teologico. L’esperienza è aperta, mentre la teologia tende a chiudersi dentro un linguaggio molto dotto, per addetti ai lavori; così facendo, ha finito con il rinchiudere l’esperienza che la gente aveva di Dio dentro una determinata tradizione. In Colombia, per esempio, la maggioranza degli afro-discendenti è cristiana. Nonostante in passato il cristianesimo abbia cercato di fare piazza pulita delle religioni tradizionali africane, noi ci troviamo nei ritmi, nei canti, nel modo di celebrare degli afro discendenti della costa pacifica che tiene molte radici comuni con la Madre Africa.

Come viene recepita in ambiente accademico questa nuova sensibilità religiosa e teologica?
L’impatto sui seminaristi è buono. Vi sono quelli più aperti al dialogo, altri più radicati su posizioni conservatrici. In tutti, però, l’interesse è alto e c’è dibattito, il che è positivo. È una sfida non facile. È una ricerca che va portata avanti con serenità e senza forzature, ma chiedendosi onestamente: «Perché dopo secoli e secoli di evangelizzazione la gente afro o quella indigena vivono facendo coesistere senza nessun problema la fede in Gesù con quella nelle proprie divinità? O partecipano con ugual fede a un candomblé e a una celebrazione eucaristica?». La nostra ricerca punta a dare alla nostra fede un volto latinoamericano, con tutte le sue diverse sfumature. Chiaramente sono temi che creano dibattiti anche accesi, soprattutto con parte dell’istituzione accademica e gerarchica, che si rifiuta di ammettere che possa esistere un altro tipo di teologia. Eppure, passi in avanti possono essere fatti. Per esempio, in maggio vi sarà ad Aparecida, in Brasile, la v edizione della Conferenza dell’episcopato latinoamericano. Non che nutra molte speranze, ma una piccola aspettativa ce l’ho: che ci si interroghi seriamente sul tema del dialogo fra le religioni. A Santo Domingo ci fu un’apertura verso le culture, ad Aparecida spero che emerga invece l’aspetto più spiccatamente religioso del dialogo, soprattutto con le tradizioni religiose afro e indigene. È importante sottolineare questo aspetto, perché a volte anche tra membri della stessa cultura vi possono essere casi di chiusura o di rigetto. Per esempio, alcuni afro-discendenti appartenenti a certe frange pentecostali sono molto ostili verso un lavoro di recupero delle tradizioni proprie. Senza contare che in molti è forte la difficoltà del sentirsi nero e di riconoscerlo con orgoglio davanti agli altri, soprattutto in un paese come la Colombia, in cui il razzismo è molto più diffuso di quanto si possa pensare.

Come vedi l’impegno pastorale della chiesa latinoamericana nei confronti delle minoranze etniche (che però in alcune regioni del continente sono numericamente delle «maggioranze» assolute) come quella afro o indigena? La teologia della liberazione è ancora viva?
Manca un lavoro più profondo e continuo a livello di comunità. Direi che la teologia della liberazione è viva, ma stiamo vivendo in un tempo totalmente diverso rispetto a quando è nata. È forte l’opzione per i poveri, non tanto quella verso le culture differenti. Dobbiamo imparare a dare al povero il volto che gli compete: afro o indio che sia.

Intervista con suor Jane Muguku

Teologia… della strada

Sister Jane, ho visto parecchie suore della Consolata al Forum… Tre di voi hanno anche guidato altrettanti workshops. Complimenti.
È stata una scelta mirata, essere lì dove la gente discute, organizza e soprattutto pensa teologicamente.

Cosa ti è piaciuto di più di questo Forum?
Il metodo. I molti workshops hanno aiutato a incarnare gli spunti teologici nella vita di tutti i giorni. È stato un bell’incontro fra teologi professionisti e noi, poveri teologi jua kali, come diciamo noi in Kenya, teologi «sotto il sole», della strada.

Qual è stato il messaggio più importante di questo Forum, quello che ti porti via in valigia?
Senz’altro la necessità di creare dialogo fra le nostre religioni. Se vogliamo veramente immaginare un mondo diverso e creare una spiritualità che possa animare questo mondo, dobbiamo renderci conto che il dialogo è un’esigenza imprescindibile. Allo stesso tempo,mi ha molto colpito, durante l’ultima assemblea plenaria, quanto ha detto un partecipante dell’India, cosa ribadita anche da una donna africana, che, cioè, se vogliamo creare un mondo diverso, fondato sul dialogo interculturale e religioso, dobbiamo iniziare dalle scuole. Soprattutto a livello religioso è fondamentale avere uno studio comparato serio delle altre religioni, almeno nelle linee fondamentali, condizione indispensabile per iniziare un dialogo su basi di parità.

Qualche elemento negativo?
Uno soltanto, a livello di percezione. Mi è sembrato che nell’assemblea si tendesse troppo a fare l’inchino al «dio» della liberazione sociale, dimenticandosi che l’uomo ha bisogno di essere liberato integralmente. Forse le altre dimensioni non hanno avuto uguale spazio e attenzione. Si vuole costruire una spiritualità per un mondo alternativo, ma se il rapporto con Dio viene limitato soltanto alla dimensione orizzontale e non si esplora sufficientemente quella verticale, sarà poi molto difficile trovare dei punti che ci accomunano, che ci rendano «fratelli e sorelle».

Ugo Pozzoli

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