Da Vicenza a Cameri, uno scandalo che non può essere taciuto
PERCHÉ?
Perché si aumentano le spese belliche?
Perché si perpetuano le servitù militari?
Perché non si utilizzano i soldi (pubblici) in favore di uno sviluppo «virtuoso»?
«Mi rivolgo alla vostra rivista di cui sono assidua lettrice per richiamare la vostra attenzione su quanto sta avvenendo a Vicenza in questi giorni. Vi prego di fare un articolo su questo argomento per aiutarci a vincere questa battaglia a favore della pace ma contro potenze fortissime. Se volete ulteriori informazioni vi segnalo il sito www.altravicenza.it.
Grazie per l’attenzione e continuate così.
Abbiamo pensato che fosse giusto accontentare la nostra lettrice, pur sapendo – per esperienza maturata sulla nostra pelle (dal Kosovo all’Iraq, dalla Palestina all’Iran) – che quando si affrontano questi argomenti si rischiano sempre le critiche e, a volte, gli insulti. Proprio per auto-tutelarci (senza, però, auto-censurarci) abbiamo chiesto di esprimere un parere su questi argomenti a 4 nostri collaboratori di prestigio, tutti preti (per questa volta). Prima di lasciarvi alle loro considerazioni, ricordiamo qualche dato.
Nel mondo, gli Stati Uniti sono di gran lunga il paese con la maggior spesa militare, pari al 48% del totale mondiale (dati Sipri). In Italia, le forze degli Stati Uniti si sono piazzate bene e comodamente, da Nord a Sud del paese. I casi più clamorosi sono quelli de La Maddalena (Sassari), una base navale che ospita sottomarini nucleari e che dovrebbe (finalmente) essere smantellata nel 2008; Aviano (Pordenone), da dove partirono i cacciabombardieri durante la guerra del Kosovo (1999) e Camp Darby (in provincia di Pisa, nonostante il nome inglese), dove esercito ed aviazione statunitensi custodiscono un ricco arsenale. Da anni l’Italia è tra i primi 10 paesi del mondo sia come spesa militare che come esportatore di armi.
Dimenticando totalmente le questioni etiche, parliamo di soldi. La Confindustria, la maggioranza dei politici, gli economisti e i giornalisti «schierati» (diciamo così) affermano che «basi militari e spese militari sostengono lo sviluppo economico perché incentivano gli investimenti e producono posti di lavoro». Provate soltanto ad immaginare che volano economico produrrebbe un dirottamento dei soldi pubblici spesi per la difesa (e per la costruzione di mezzi da guerra: ad esempio, gli aerei da combattimento Eurofighter e Joint Strike Fighter o le navi da guerra della classe Fremm) per progetti diversi come, ad esempio, investimenti nel settore delle fonti energetiche rinnovabili e contributi per l’edilizia bioecologica. Si incentiverebbe non soltanto lo sviluppo economico, ma anche e soprattutto uno sviluppo di tipo virtuoso. Quanto al (presunto) ritorno economico delle basi Usa, sarebbe meglio dare un’occhiata ai rapporti del «Dipartimento della difesa» degli Stati Uniti, alla voce Allied Contributions to the Common Defense. Nel 2004, ad esempio, l’Italia ha pagato agli Stati Uniti, per le cosiddette «spese di stazionamento», 366 milioni di dollari: soltanto Giappone e Germania pagano più del nostro paese. Washington prende i soldi, ma se i suoi soldati combinano qualche «marachella» (come la strage del Cermis, in Trentino, che nel 1998 provocò 20 morti) non possono essere processati in Italia. Di questo si è lamentato addirittura il Corriere della sera (pur favorevole, come tutti i grandi giornali, alla presenza delle basi Usa), che parla della necessità di «aggioare le condizioni dell’ospitalità» (17 gennaio 2007).
Come tutti sanno, mancano sempre i soldi per le Università, la ricerca, gli ospedali, le scuole, la salvaguardia dell’ambiente, il risparmio energetico, le pensioni, le politiche migratorie, la cooperazione internazionale, ma non mancano mai per le spese militari. Sembra che, in ogni parte del mondo, dagli Usa all’Italia, la lobby politico-militare-finanziaria esca sempre vincente. Una ragione in più per alzare la voce. Noi lo facciamo.
e ricchezza»), di opportunità («altrimenti se ne vanno da un’altra parte»), ma in verità nulla di tutto ciò può essere giustificato, se si considerano le spese militari un attentato alla pace e uno spreco assurdo di risorse. Da Vicenza a Cameri, dagli eserciti alla finanziaria: troppe scelte di guerra, troppa ipocrisia. E troppi interessi. 1
Essere per sempre spettatori passivi (o impotenti) davanti alla morte del diritto e dell’etica?
Solo un occhio superficiale o, almeno, sprovveduto, può vedere nell’attuale dibattito sulla nuova base dell’Us Army a Vicenza una semplice questione riguardante i rapporti Italia-Usa (con il collaterale e strumentale dibattito sull’antiamericanismo) o un problema correlato alla nostra «politica estera» (con il consequenziale e ugualmente strumentale riferimento alla «fedeltà» circa gli impegni precedentemente assunti dall’Italia).
Il problema non è questo. Il problema è l’intero contesto nel quale questa scelta viene a porsi; e preoccupante è il panorama che ne emerge.
Ora noi sappiamo bene che nel mondo della comunicazione una parola, un’espressione ed anche un’intera affermazione prendono senso dal contesto del discorso: il luogo in cui si parla, il pubblico cui ci si riferisce, l’oggetto del parlare ed il parlare stesso. In contesti diversi le stesse parole assumono valori diversi, a volte anche contraddittori. La parola «padre», per portare un esempio, in contesti diversi può significare il padre che ha generato, ma può significare anche Dio, il padrino e perfino il padrone e il mafioso. Quindi, onde evitare incomprensioni e fraintendimenti si rende necessaria un’opera di contestualizzazione del «parlato» e di «sintonizzazione» con il parlante: tutto ciò al fine di una corretta comprensione e di una positiva comunicazione.
Questo lavoro «ermeneutico» in filosofia viene chiamato «sitz in leben». Ed è un lavoro non facile, eppur necessario. Una volta, a Raimon Panikkar, fu chiesto di indicare gli equivalenti sanscriti di 25 parole chiave latine ritenute emblematiche della cultura occidentale. Egli declinò l’invito, perché ciò che sta alla base di una cultura non sta necessariamente alla base di un’altra. È un campo in cui i significati non sono trasferibili. «Le operazioni di traduzione sono più delicate dei trapianti cardiaci» ebbe a dire in quella occasione.
Ora qui, non si tratta di «tradurre», ma di «leggere» dei fatti e onestà e correttezza vogliono che si faccia opera di contestualizzazione, «sitz in leben», appunto.
Proviamo allora a porre questa scelta del governo Prodi a favore dell’installazione di una nuova base americana presso l’aeroporto Dal Molin di Vicenza.
In sintesi, rileviamo che:
1. il Pentagono, unilateralmente e senza consultare gli «alleati», ha deciso di rischierare dalla Germania in Italia la sua brigata aerotrasportata;
2. la scelta americana è parte integrante del programma di Bush e della sua politica guerrafondaia che pretende di combattere il terrorismo con la guerra e di imporsi come unico gendarme mondiale, accantonando anche e depotenziando perfino la stessa Onu;
3. l’impegno con Bush è una eredità che ci viene dalla servile politica estera del precedente governo; una politica che in Europa non ha trovato nessun seguito, oltre l’infelice eccezione anglo-italiana.
Questo, in breve, il panorama circostanziato e a breve raggio.
E se proviamo ad allargare, come di dovere, l’orizzonte all’economia e alle politiche che caratterizzano il mondo nella sua attuale distretta?
Notiamo, allora, che la politica è stata asservita all’economia e che questa, a sua volta, trova la sua floridità nell’industria militare. Così l’Impero e la Guerra sono diventati fratelli siamesi, le banche sono i migliori azionisti delle lobby militari e l’euro-
dollaro e le armi sodomizzano sotto lo stesso tetto.
In questo contesto sia la querelle di Vicenza, come quella di Cameri, ma anche la questione dell’Afghanistan sono tutti tasselli che concorrono a rinforzare la morsa micidiale degli osceni connubi di cui sopra. Da lamentare, in aggravio al bilancio negativo delle ultime scelte governative, lo scandalo di una finanziaria che, dopo aver tagliato fondi su scuola, sanità e servizi, in nome del rigore e dell’austerità, per la guerra riserva privilegi ed extra: nella sola Tabella di bilancio della difesa il precedente importo totale di 17,782 miliardi di euro è stato portato a 18,134 miliardi, con un incremento di 352 milioni.
Si pone, allora, bruciante, la domanda su che cosa vada lavorando una politica di pace che invece di scalfire, almeno in parte, questi abbracci mortiferi li consolida e li perpetua.
Bisogna purtroppo lamentare che, nonostante affermazioni in contrario, la «politica» considera le obiezioni all’attuale deriva militarista come variabili irrilevanti, sterili trastulli di chi si attarda a parlare di «valori».
Si deve ancora lamentare, con Danilo Zolo, docente di filosofia del diritto internazionale all’Università di Firenze, che «le ragioni morali hanno scarsissimo rilievo nei rapporti inteazionali. Oggi prevalgono i rapporti di forza. Il sangue di innocenti è un banale “effetto collaterale”. Il diritto internazionale, di fatto, è una razionalizzazione ex post della volontà delle grandi potenze. E se il diritto è scarsamente efficace, l’etica è addirittura incommensurabile con gli obiettivi politici, economici e militari che legittimano anche agli occhi delle maggioranze democratiche dei paesi occidentali l’uso dei mezzi di distruzione di massa. La logica delle grandi potenze non ha nulla a che fare con i “valori” cui pure si fa retorico riferimento: è una logica spietata i cui emblemi sono i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono Guan-tanamo e Abu Ghraib o, su altro versante, è l’11 settembre 2001» e, aggiungiamo noi, Sigonella, Vicenza, Cameri e, ancora, la finanziaria.
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Il primato della forza sulla ragione non deve uccidere la voglia e il dovere di sognare.
Sono due i nodi «bellici» dell’attuale realtà italiana: l’allargamento della base militare Usa in località Dal Molin a Vicenza e l’accordo per l’acquisto di nuovi aerei da combattimento denominati F35 con la prospettiva di un loro assemblaggio finale presso l’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara.
Il tema è uno di quelli spinosi e sui quali bisogna procedere con molta attenzione.
La Commissione diocesana Giustizia e Pace di Novara, da tempo allertata su questo tema, ha cercato di farsi interprete e di dare risonanza al magistero della chiesa su un tema così importante, ripercorrendo passo dopo passo gli interventi più incisivi e qualificanti elaborati a partire dal Concilio Vaticano II ad oggi sulla corsa agli armamenti. Ed è proprio ripercorrendo questi testi che si resta allibiti di fronte alla protervia della lobby delle armi. Quando la chiesa ricorda che ogni volta che capitali astronomici vengono destinati alla fabbricazione di strumenti di morte, sottraendo così ingenti risorse che potrebbero essere destinate allo sviluppo dei popoli e alla risoluzione di emergenze drammatiche (Aids, malattie, fame), gli si risponde obiettando che un polo tecnologico così d’avanguardia sarebbe una promozione non solo per tutta la realtà novarese ma addirittura per l’intero Piemonte, notoriamente in una fase di crisi per ciò che riguarda i posti di lavoro.
Ci sono molti modi da cui partire per affrontare un tema così spinoso come quello degli F35, noi preferiamo farlo stando dalla parte dei più poveri a cui non vorremo mai dire: «resta con la tua fame, le tue malattie, le tue emergenze, perché le risorse che potrei destinare a te e ai tuoi bambini, le utilizzeremo per costruire armi sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate che magari terremo in magazzino ma che ci aiuteranno a sentirci più sicuri di fronte alle paure che attanagliano i nostri stomaci». La scelta di stare accanto ai poveri ci sembra più aderente ai criteri evangelici che non a quelli dettati dalla «real politique».
La corsa agli armamenti è sempre stata una iattura per i popoli della terra ed in particolare per i paesi del cosiddetto Terzo Mondo: essa disperde enormi risorse che potrebbero essere destinate a risolvere i principali problemi dei paesi poveri. È urgente più che mai passare da una strategia di guerra ad una strategia di pace. La corsa agli armamenti in quanto contraria all’uomo è contraria a Dio. Da un punto di vista pastorale bisogna lavorare e impegnarsi per bandire questa corsa folle per due ragioni principali:
1) non c’è nessuna proporzione tra i danni causati e i valori che si vorrebbero salvaguardare;
2) armarsi per difendersi, quando le armi di difesa hanno un potenziale distruttivo enorme, come l’atomica, perde ogni sua ragione d’essere, giustificazione, e legittimità.
Potremmo aggiungere che l’accumulo spropositato di armi nelle mani di pochi paesi, potrebbe spingere questi ad una politica di ricatto verso altre nazioni, mettendo a rischio il già precario equilibrio dei diversi paesi della comunità internazionale.
In più la corsa agli armamenti costituisce una profonda ingiustizia perché afferma il primato della forza sulla ragione (questo è un leit-motiv che accomuna tutti i pontefici del secolo scorso fino a Benedetto XVI, nei loro incessanti appelli per la pace).
La corsa agli armamenti è inoltre una vera pazzia perché spinge i rapporti umani individuali e quelli politici inteazionali a basarsi sulla paura dell’altro creando attraverso il controllo dei mass media, una specie di isterismo collettivo. La corsa agli armamenti diventa un mezzo per imporre alle nazioni più deboli la propria visione del mondo. Tutto questo non è accettabile dalla coscienza cristiana.
La pace non è solo superamento del criterio di non belligeranza, è la riacquisizione di valori spirituali e ideali che promanano dal vangelo, come la difesa della vita, la valorizzazione della persona nella sua dignità e la costruzione di rapporti di giustizia tra individui e popoli. Se vogliamo che la pace non resti un sogno, dobbiamo avere il coraggio di sognare insieme.
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La guerra come sostegno di una pace che non c’è. Perché la pace ha bisogno di giustizia.
La logica del mondo è opposta alla logica cristiana evangelica: l’una e l’altra sono incompatibili nel fine e nei mezzi. Il mondo del potere è finalizzato alla guerra come struttura di sostegno al dominio, il vangelo è finalizzato alla pace come struttura della coscienza individuale, fondamento della coscienza dei popoli. Il mondo vuole dominare, il vangelo esige di servire. Il mondo usa strumenti di distruzione anche quando potrebbe ricorrere a mezzi pacifici, il vangelo impone l’amore per i nemici come condizione essenziale della propria identità di figli di Dio. Il potere ha bisogno della guerra perché il suo obiettivo è l’annientamento dell’altro come ostacolo alla propria dittatura, la pace ha bisogno di giustizia perché il suo obiettivo è la convivenza. La guerra è serva del potere, il dialogo è trampolino per la pace. Due mondi e due strategie che non possono mai coincidere o soltanto venire a compromesso.
Opposti contraddittori. Bisogna scegliere: o Dio o mammona. O il Dio dell’esodo o il vitello della schiavitù. O la pace o la guerra. Lev Nikolaevic Tolstoj ci avverte che non è più tempo di «Guerra e pace» nel senso ineluttabile del destino, ma è tempo della responsabilità personale, sorgente del diritto pubblico e del destino dell’umanità. Non c’è una via di mezzo. Non licet! Si deve scegliere. Il mondo guerrafondaio ha fatto proprio l’aforisma romano «se vuoi la pace prepara la guerra», sostenendo così il principio della moralità della guerra come sostegno della pace o per lo meno come deterrente dello stato di pace. Questa pseudo e lugubre filosofia è servita e serve a giustificare la guerra dovunque e comunque perché la pace deve essere difesa dappertutto e sempre e quindi necessita di armi che diventano così il fondamento primario dell’economia senza distinzioni di tempi e di qualità. L’aberrazione raggiunge livelli parossistici quando un’azione di guerra preventiva, un intervento armato o una spedizione di militari in assetto di guerra vengono spudoratamente definiti «azioni umanitarie». Le centinaia di migliaia di morti innocenti in Iraq o i torturati di Abu Graib e di Guantanamo avrebbero fatto a meno di questi aiuti umanitari che li hanno seppelliti sotto le bombe e al di fuori di ogni garanzia civile di diritto come prescrivono le convenzioni inteazionali.
Conseguenze logiche. Come cristiani siamo incastrati: o Dio c’è o Dio non c’è. Se Dio c’è, le conseguenze logiche sono inevitabili come lo sono quelle nell’ipotesi che Dio non ci sia. È finito il tempo e l’aberrazione del «giusto mezzo» che è la logica che tutto giustifica e nulla risolve come spesso hanno motivato la loro politica i partiti cosiddetti ispirati al cristianesimo. Non esistono né possono esistere partiti cristiani o cattolici come non può esistere un governo cattolico o cristiano, aspirazione truce di chi vorrebbe imporre la religiosità con la forza della spada o con l’obbligatorietà di leggi civili. La parola di Cristo è drastica e tagliente: non potete servire due padroni. L’uno (il mondo) si serve, l’altro (Dio) si cerca. I cattolici che sono nelle istituzioni elettive, i giovani che si arruolano volontari nell’esercito, uomini e donne che hanno ricevuto il battesimo nel Nome di Gesù Cristo crocifisso e risorto, non possono accettare qualsiasi compromesso con il militarismo comunque si camuffi e si manifesti. Nessun giovane oggi è obbligato a fare il militare in un esercito dove conta non più la difesa del proprio popolo, ma il grado di scientificità per ammazzare sempre meglio. Un giovane che sceglie di fare il militare si mette contro la logica del vangelo e si pone in una condizione di forte rischio per la sua sopravvivenza sia fisica che spirituale. Nessun credente può vestire una divisa militare che resta incompatibile con la veste bianca del battesimo. Anche dove il servizio militare fosse obbligatorio, il credente è obbligato a diventare obiettore di quella coscienza che è creata ad «immagine e somiglianza» di Dio. Il vangelo non è un codice di galateo o un manuale di realismo. Il vangelo è semplicemente la prospettiva del Regno di Dio che esige la non-violenza come pratica quotidiana di vita e di relazione: a chi ti percuote sulla guancia destra porgi anche la sinistra; a chi ti chiede il mantello, offri anche la tunica. Una via di mezzo non esiste né può esistere.
Democrazia a sovranità limitata. I cosiddetti cattolici impegnati in politica a qualunque mangiatornia appartengano, sono indissolubilmente fedeli agli Usa. Divorziano cattolicamente dalle mogli, ma restano indissolubilmente fedeli nei secoli al matrimonio con gli Stati Uniti o meglio con il governo degli Usa che garantisce loro una masochistica sottomissione. Una parte di essi parla di pace, fa genuflessioni doppie davanti al papa, si appella ai «valori», ma sceglie sempre la guerra a favore della guerra. Berlusconi, drogato di americanismo e condizionato dal suo bisogno di essere fotografato accanto al texano Bush, ha dato carta bianca ai servizi segreti Usa e alle basi militari in Italia che come Paese cessa di essere una nazione autonoma e sovrana e diventa un pied-à-terre del governo degli Stati Uniti, come ha dimostrato il caso di Abù Omar. Non è da meno il governo Prodi, condizionato dal suo complesso di inferiorità (dimostrare di non essere anti-americano) che ha concesso il raddoppio della militarizzazione di Vicenza sulla testa e sulla vita degli abitanti, coprendosi con la foglia di fico della delibera comunale, relegando così la politica estera agli umori di un consiglio comunale di periferia. La smentita è venuta il 1o febbraio 2007 dal senato della Repubblica che ha votato un ordine del giorno dell’opposizione giustificato dal sen. Renato Schifani, capo dei senatori proprietà di Berlusconi, con queste parole: «La scelta di ampliare la base è di rango politico ed è coerente con la politica estera del governo, in continuità con quella del governo precedente». L’Italia cagnolino di compagnia del governo statunitense e democrazia a tempo e limitata.
La voglia di guerra e il dovere della disobbedienza. Nel mondo cresce una voglia di armi e di guerra, una voglia così efferata e impudente che passa sopra i diritti naturali delle popolazioni chiamate a pagae il prezzo salato in termini di salute, di ambiente e di dignità. La concessione agli Stati Uniti del raddoppio della base militare già esistente a Vicenza è solo un sintomo tragico di una situazione senza ritorno.
Come se non bastasse a Cameri in provincia di Novara c’è il progetto di assemblaggio di caccia bombardieri da guerra aerea, trasportatori di bombe e/o testate nucleari. In 15 anni l’Italia dovrebbe acquistae 131 al costo previsto di 150 milioni l’uno (ma altri parlano di 200 milioni). Facciamo allora un po’ di conti: 8 F-35 all’anno costerebbero al nostro paese 1.200 milioni di euro, cioè circa il 4 % della finanziaria 2007. «Se non li faremo a Cameri, tante famiglie di lavoratori resteranno senza stipendio», è stato detto. Ma con tutti quei soldi (pubblici) quanti posti di lavoro «virtuosi» si potrebbero creare? Un fiume di denaro pubblico buttato nelle spese militari, mentre nel mondo la povertà avanza inesorabilmente e in Italia circa 3 milioni di famiglie non arrivano alla fine del mese.
A Vicenza e a Cameri bisognava dire un doppio «no», pretendendo una ridiscussione generale della politica estera e coinvolgendo l’intera Europa in una ricerca che analizzasse i fallimenti degli Stati Uniti, impedendo che continuassero a fare strage di democrazia e di integrità territoriale di paesi sovrani e liberi. Avremmo voluto assistere ad un governo compatto e univoco, mentre ancora una volta assistiamo allo scempio di una non-maggioranza che sta dilapidando il patrimonio che le italiane e gli italiani gli hanno conferito sull’orlo del precipizio istituzionale berlusconiano.
Nemmeno un temperino. L’Italia terra strategica nel cuore del Mediterraneo per essere porta tra Occidente e Oriente, partecipa e condivide la politica suicida della rincorsa agli armamenti, diventando complice e causa di ingiustizie che si perpetrano in quel mondo che dice di volere aiutare con progetti di pace. I progetti di pace escludono le armi, anche il temperino degli scout perché la pace, ove fosse necessario, come è necessario, si arma dello scudo della non-violenza che consiste nel principio aureo: quando la violenza è inevitabile, è meglio subirla che darla. Nessuna deroga può esserci al principio evangelico: «Chi di spada ferisce di spada perisce». Il frutto maturo della nostra «civiltà» consiste nel fatto che oggi in ogni guerra in atto la percentuale dei militari morti è pari al 5% mentre i civili muoiono nella misura del 95%. I militari si divertono, gli innocenti muoiono. In caso di guerra nucleare, gli unici a salvarsi sarebbero i militari rinchiusi in qualche sommergibile. L’umanità corre a ritmo serrato verso la militarizzazione senza aggettivi perché oggi i governi sono condizionati da una politica militarista che determina l’economia, le alleanze e le scelte sociali.
Militarismo in clergyman. Da questa prospettiva evangelica le cappellanie e gli ordinariati militari sono un controsenso evangelico e il segno grave di un’alleanza tra due poteri che si autoreferenziano e si alimentano reciprocamente. In nome del realismo. Il segno di questa aberrazione sono i vescovi e i preti militari che diventano parte integrante dell’esercito con titoli, stellette e relativo stipendio fornito dal ministero della difesa. Ministri dell’altare embedded in tuta mimetica a servizio di una struttura di peccato perché strutturalmente finalizzata all’uccisione e alla morte. Nei primi tre secoli i militari non potevano accedere al sacerdozio come i figli dei macellai perché gli uni e gli altri erano familiari al sangue. Dopo ogni guerra i preti che vi hanno preso parte ricevono la dispensa nell’eventualità che avessero compiuto atti contrari allo status sacerdotale che propriamente non si addice al servizio militare (Codice Diritto Canonico 289 §1). In ogni guerra i cappellani delle diverse religioni pregano Dio perché protegga i propri soldati e ciò è una bestemmia perché esige da Dio un comportamento contraddittorio visto che in guerra qualcuno deve pur morire. Chi deve scegliere Dio? Con quale metodo? La guerra degli uomini diventa guerra tra gli «dèi» e ci riporta indietro all’Olimpo, quando le divinità parteggiavano per l’uno o per l’altro esercito. Oggi la presenza di preti e frati e vescovi inquadrati militarmente è una delle concause che giustificano e alimentano le guerre di religione e il dissesto etico delle nostre generazioni. Se anche la chiesa con proprio personale è dentro al processo militarista finalizzato alla guerra e alla violenza degli stati e dei loro eserciti, è impossibile annunciare il vangelo delle Beatitudini o del Magnificat o del Servo di Yhwh o pensare che il mondo possa cambiare e lasciare che la pace da sola possa farcela: davanti agli occhi del mondo la stessa guerra è giustificata e legittimata.
Esportare idiozia. Gli Usa hanno ammesso ufficialmente che la guerra in Iraq (ma anche quella in Afghanistan) è stata un fallimento completo (non potendolo dire così, parlano di «errori»). Gli unici risultati di quelle scellerate guerre, volute da un incapace e scellerato capo di governo a cui si accodarono altri scellerati capi di governo, pigmei illiberali e schiavi di servilismo, sono stati la destabilizzazione delle zone di guerre e del mondo intero che oggi è più fragile e più esposto al terrorismo che quelle guerre alimentano e ingrassano. L’idiozia di esportare la democrazia in armi ha prodotto l’accorciamento della democrazia negli stessi paesi produttori di guerra. Quando, come Missioni Consolata, dicemmo (confortati anche da un papa) che la guerra è una pazzia fatta da pazzi contro pazzi e che nulla avrebbe risolto, ma tutto avrebbe aggravato, fummo tacciati di antiamericanismo, di disfattismo, di antipatriottismo e finanche di connivenza con i terroristi islamici. Fummo solo prevedibili e noiosi profeti impotenti. In una società civile democratica, di fronte a questo sfacelo, uomini insignificanti come Bush, Blair, Berlusconi, Aznar che hanno voluto le guerre per ideologia avrebbero dovuto non solo dimettersi da ogni carica istituzionale, ma anche scomparire dalla scena politica perché hanno ingannato i loro popoli, li hanno defraudati della dignità, li hanno mandati allo sbaraglio e li hanno uccisi con falsità. Licenziati per incapacità di governo o peggio ancora per incapacità di valutazione previsionale. Un capo di stato che non sa prevedere le conseguenze delle proprie scelte è una iattura per il suo popolo.
Scenari mondiali: che succederà ora in Iran, Siria e Palestina? Tony Blair ha di fatto affossato la (meritoria) proposta italiana all’Onu di moratoria sulla pena di morte. L’Europa, infatti, non parlerà una sola lingua perché Blair in Europa fa gli interessi degli Usa da cui non si discosta più di una museruola da cane. Una grande occasione perduta politicamente e moralmente. Il suo degno compare di guerre Bush, persa la guerra in Iraq, cerca di imbastie un’altra contro l’Iran con l’intento di scatenare una deflagrazione nel Medio Oriente e forse permettere ad Israele di usare armi atomiche per la soluzione finale di Iran, Siria e Palestina. Si è capovolto l’aforisma latino che diventa: parla di pace, ma prepara la guerra. Questa escalation verso la guerra sistematica cammina di pari passo con il degrado ambientale, la desertificazione del sud e dell’Africa e la prospettiva della distruzione del pianeta per implosione della stupidità dei governi cosiddetti democratici. Per essere una civiltà occidentale ce n’è di che vergognarsi. In tutto questo frangente, siamo in attesa di sentire la voce della gerarchia ecclesiastica che in nome del vangelo e dell’etica che sgorga dalla sua dottrina sociale, sicuramente avrà una parola illuminante. Una parola di salvezza per i loro popoli e il loro ambiente geografico e sociale.
«Alienum a ratione». Semplicemente folle. «Quelli che vuol perdere, Dio rende pazzi», dice un proverbio latino attualissimo oggi: la maggior parte dei governi sono in mano a uomini folli: il mondo è già collocato sulla bocca di un vulcano in eruzione perché con le riserve atomiche la terra può essere distrutta sette volte ed essi continuano ad armarsi sempre più modeamente, occupando sempre più territori, popoli e persone e perseguendo la sola logica che il demone della guerra concepisce e partorisce: la distruzione degli innocenti, la strage dei civili, la miseria e la povertà strutturale di due terzi dell’umanità. Con un cambio di strategia: nei prossimi mesi e anni sentiremo parlare di necessità di armarsi per la salvaguardia della stabilità ambientale. Il prologo è cantato dagli industriali che hanno fomentato abbondantemente il dissesto ambientale ad ogni livello (è drammatico il rapporto su clima e ambiente redatto dai maggiori esperti mondiali e reso pubblico lo scorso 2 febbraio), ma sono pronti a convertirsi all’ecologismo e all’economia ambientale perché vi hanno intravisto un modo «altro» per fare soldi e sottomettere sempre più popoli e territori ai loro guadagni. Non è lontano il tempo in cui vedremo i militari e gli eserciti convertiti alla difesa dell’ambiente per poterlo distruggere meglio, guadagnandoci anche il prezzo e sopraprezzo, mentre i loro popoli muoiono di fame o si avviano inesorabilmente verso la catastrofe ambientale annunciata. Pazzo o folle vuol dire senza ragione/illogico ed è così che Giovanni XXIII definisce la guerra nella enciclica Pacem in terris: «alienum a ratione», semplicemente «folle».
La voglia di guerra è la soluzione finale dell’istinto di aggressività che regge la morale di questa nostra epoca: molti soldati, pur volontari, non vanno in guerra solo per guadagnare qualche centesimo in più, molti vanno perché spinti dall’odore del sangue a cui si sono allenati per anni senza mai avere la possibilità o di menare le mani o di mettere a frutto tutta la violenza che hanno incamerato nel tempo della preparazione professionale. I politici si divertono a garantire che i «nostri» soldati sono professionalmente preparati. Traduzione: i nostri soldati sono preparati ad uccidere professionalmente, cioè a colpire per primi, cioè ancora ad agire «preventivamente» se vogliono salvarsi la pelle. I torturatori di Abu Graib torturavano «per diversivo o per noia». Allo stesso modo nelle strade delle nostre città persone fragili, ma che hanno sete di guerra senza poterla realizzare mettono in atto l’unica guerra possibile per bulli annoiati: aggredire persone ancora più deboli e fare ecatombe di stupri, di sesso, di violenza gratuita. Il futuro è già cominciato: la voglia militarista ha già intaccato il nostro vivere civile; la mentalità guerrafondaia dilaga e domina le nostre città e le nostre relazioni. Dio ci salvi da questo buco nero senza ritorno, se ancora è in grado di farlo. A noi cittadini inermi e credenti nel Dio di Pace, il dovere di resistere senza ambiguità.
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Le armi non si devono nè vendere né costruire: «in piedi, costruttori di pace!»
«In piedi, allora, costruttori di pace. Anzi, come dicono i francesi, en marche!». Queste parole di don Tonino Bello (Arena di Verona, 1989) ci devono scuotere ancora oggi. Se ci guardiamo intorno e vediamo il crescere di una cultura militare e di guerra. Se apriamo gli occhi per vedere cosa davvero succede dietro alle scelte di ampliamento della base Usa a Vicenza, dietro alla notizia che il quotidiano Libero (non certo antiamericano…) riportava a fine gennaio 2007, in merito alla conferma della presenza nella base di Aviano di testate nucleari, dietro al folle progetto di assemblaggio a Cameri (Novara) degli aerei da guerra F35, i cui costi sono astronomici, davvero urge far risuonare le parole profetiche di don Tonino: «In piedi, costruttori di pace». Guai a chi mette velocemente nel cassetto le proprie motivazioni, magari anche cristiane, per buttarsi negli affari, nei vantaggi di un’economia armata, che pare essere davvero il motore di tutta l’economia e la finanza. Le armi sono un businnes pazzesco! Proprio pazzesco, sì! Perché la guerra, come dice la Pacem in terris di Giovanni XXIII, è «roba da matti» (alienum est a ratione).
Un segno profetico di fronte a questi progetti di morte ci viene dal documento, firmato da mons. Ferdinando Charrier, vescovo di Alessandria e presidente della Commissione Problemi sociali, Giustizia e Pace del Piemonte insieme a mons. Tommaso Valentinetti, vescovo di Pescara-Penne e presidente di Pax Christi Italia, del 25 gennaio scorso.
Scrivono i due monsignori: «Sulla scia dei pronunciamenti del magistero della chiesa desideriamo riaffermare, come comunità cristiana, la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione di strumenti concepiti per la guerra. Ci riferiamo, in particolare, alla problematica sorta recentemente sul nostro territorio piemontese relativa all’avvio dell’assemblaggio finale di velivoli da combattimento da effettuarsi nel sito aeronautico di Cameri (Novara). Riteniamo – continua il testo – che la produzione di armamenti non sia da considerare alla stregua di quella di beni economici qualsiasi».
Contro questa posizione si sono subito levate voci autorevoli, anche cattoliche (ahimè!), con questi toni «pur dichiarandomi, in termini ideali, vicino ai vescovi, ritengo che non si possa prescindere, in una fase delicata per la nostra economia, da una valutazione pragmatica… Dobbiamo fare tutto il possibile per far sviluppare il nostro territorio e non possiamo permetterci di perdere nessuna opportunità che vada in queste direzioni».
Come a dire: il vangelo va bene, ma a livello intimistico o per le suore di clausura. Nella vita poi bisogna essere realistici, e al vangelo subentrano altri criteri! Su alcuni valori non si transige (Pacs, aborto, famiglia, fecondazione artificiale…), su altri come l’economia, i soldi, la guerra… bisogna vedere, valutare…!
Un altro messaggio profetico arriva dalla insanguinata terra dell’Iraq, dove ho molti amici. Ci sono stato più volte, anche nello scorso mese di dicembre. Avendo parlato del progetto degli aerei F35 al vescovo di Kirkuk, mons. Luis Sako, ecco cosa mi ha risposto:
«Che vergogna! Se un beduino nel deserto si fabbrica una spada per proteggersi, si può capire. Ma gente del Primo Mondo, gente istruita e saggia, gente nobile che costruisce armi, aerei e altri strumenti di morte: questa è una cosa vergognosa! Una cosa inammissibile. Basta armi! Basta distruzioni e gente che muore ogni giorno! La vita è bella. A causa delle armi fabbricate da voi e con i vostri soldi, in Iraq ogni giorno ci sono circa 100 morti, molti feriti e profughi. Lo stesso accade adesso in Somalia, Palestina, Libano e in altri paesi. Il nostro paese è diviso e la popolazione che è rimasta vive nella paura».
«Queste armi sono solo fuoco e sono brutte come i loro fabbricatori. Con questi soldi potete costruire terre nuove e formare gente nuova e aiutare positivamente alla crescita della vita!. Così sarete beati costruttori della pace e di una società migliore, invece di fare con queste armi una offesa a Dio e all’umanità intera. Questa è una colpa capitale», conclude Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, Iraq (31 gennaio 2007).
Brutti segnali di guerra e profetici richiami alla pace. Siamo in Quaresima, tempo di conversione. Ci aiutano ancora le parole di don Tonino all’Arena di Verona: «Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire… che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena… se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali».
Antonelli, Bandera, Farinella, Sacco