Genesi del dramma avoriano
Per capire la crisi avoriana è necessario ripercorrere gli eventi che hanno portato alla guerra e ai massacri degli ultimi sei anni. Un’immagine più di ogni altra descrive la fine di un’epoca di prosperità e di pace che era valsa alla Costa d’Avorio la palma di perla dell’Africa occidentale: il gotha dell’Africa francofona e la Francia che conta, in primis François Mitterand, Jacques Chirac e Valéry Giscard d’Estaing, presenziano vestiti a lutto alla cerimonia funebre di Félix Houphouët-Boigny il 7 febbraio del 1994.
Nella colossale basilica di Yamoussoukro, la San Pietro della giungla voluta dal «Vecchio» per onorare le radici cattoliche della Costa d’Avorio, accanto ai politici siedono i signori dell’economia franco-avoriana: il costruttore Martin Bouygues, l’armatore Vincent Bolloré e quel Jacques Foccart,amico di Mobutu e di tutti i dittatori degli anni ‘60, che ha fatto da eminenza grigia dei rapporti franco-africani per almeno un ventennio, organizzando colpi di stato qua e là e influenzando le politiche del continente nero.
I funerali solenni del padre della nazione, quell’Houphouët soprannominato Boigny (ariete in baoulé, la sua lingua e gruppo etnico), che gli avoriani credevano immortale, si svolsero a tre mesi dalla sua morte in un’atmosfera di fine regno: al di qua e al di là del Mediterraneo tutti sapevano che con la morte del «Vecchio» si estingueva il contratto tra francesi e avoriani che aveva fatto della prosperità senza libertà la parola d’ordine della Françafrique. Il miracolo economico avoriano basato sull’indipendenza formale, voluta più dal generale Charles De Gaulle che da Houphouët, e sull’assoluta dipendenza militare della Costa d’Avorio dalla Francia era già finito da qualche anno. Ma la morte del presidente avoriano accelerò il processo.
Personalità complessa e sfaccettata, il presidente dell’indipendenza aveva messo il suo genio politico al servizio di un principio: tutto cambi perché nulla cambi. La scelta di fare del suo villaggio natale, la piccola Yamoussoukro in cui era nato nel 1905, la nuova capitale politica del Paese ne era stata l’ultima dimostrazione: Abidjan, infatti, continuava a rimanere il vero centro nevralgico del potere politico ed economico, sede del governo avoriano e dell’Ambasciata di Francia, mentre Yamoussoukro si riempiva di ampi viali e giganteschi palazzi vuoti.
L’ex-potenza coloniale era presente ovunque, in ogni snodo economico, in ogni ganglio politico. Ma si trattava di una presenza discreta, lontana dagli occhi dei cittadini avoriani, che vedevano invece scuole funzionanti, rete stradale in rapida espansione, ospedali efficienti e, soprattutto, aumento della produzione di cacao, che dalle mille tonnellate annue del 1920 si era attestata sulle 380 mila del 1978.
Specchio del benessere derivato dall’oro marrone, Abidjan espandeva il suo quartiere chic, il Plateau dei grattacieli in perfetto stile Manhattan. Il momento d’oro coincise con la costruzione dell’Hotel Ivoire, il più grande e lussuoso dell’Africa occidentale.
Mentre il denaro del cacao scorreva a fiumi nelle tasche degli alti papaveri e le briciole tenevano buoni i lavoratori avoriani attirandone di stranieri, i germi della crisi futura erano già al lavoro. Nessuno si preoccupò di dotare il paese di un’industria di trasformazione o di costruire alternative economiche da mettere in campo nel caso in cui le fluttuazioni del prezzo del cacao avessero portato a periodi di recessione.
La bella meccanica concepita da Houphouët si inceppò alla fine degli anni ‘70, quando l’offerta di cacao superò per la prima volta la domanda europea, facendo precipitare i prezzi. La Costa d’Avorio entrò così nella spirale economica negativa del debito pubblico: per mantenere il tenore di vita degli avoriani il governo si mise nelle mani delle istituzioni finanziarie inteazionali, primo fra tutti il Fondo monetario internazionale, e ai loro piani di ristrutturazione economica. Le riforme colpirono i salari dei dipendenti pubblici e costrinsero l’esecutivo a vendere la rete elettrica e idrica agli amici francesi.
Nonostante gli sforzi, gli errori del Fmi e del governo avoriano resero irreversibile la crisi. Nel 1987 una serie di speculazioni finanziarie innescarono la cosiddetta guerra del cacao: il governo avoriano congelò le esportazioni delle fave per costringere i cioccolatai europei a offrire un prezzo più favorevole ad Abidjan. Non fu così: le grandi società del cacao si rivolsero al vicino Ghana e alla lontana Malesia.
Houphouët uscì sconfitto dalla prima e unica battaglia della sua vita e milioni di fave rimasero a marcire nella foresta, lacerando il già usurato tessuto economico del paese degli elefanti. Per la prima volta, all’inizio degli anni ‘90, il padre della patria subì le contestazioni della piazza. Migliaia di persone invasero le strade di Abidjan al grido di «Houphouët voleur, Houphouët démission!» (ladro, vattene). Era l’inizio della fine: l’Ariete aprì alle opposizioni e si arrese alla nascita di un sistema politico multipartitico.
Il 7 dicembre 1993, arrivò così, con un largo preavviso: la stampa avoriana diede la notizia della morte del «Vecchio» senza avere un nome degno della sostituzione. Lo scialbo Henry Konan Bédié divenne presidente ad interim in virtù del suo incarico di presidente dell’assemblea Nazionale, nonostante fosse stato il primo ministro Alassane Ouattara a garantire la continuità di governo nei giorni della malattia di Houphouët. La guerra degli eredi era cominciata sulle ceneri di un’economia distrutta. Di lì a poco sarebbero emerse le tensioni etniche che avrebbero reso ingovernabile la Costa d’Avorio del xxi secolo.
Chiara Giovetti e Alessio Antonini