Il nostro mondo ha una visione Nord-centrica. L’Italia, gli Usa,
oggi anche un po’ l’Europa. È questo «il mondo che conta». Esistiamo,
quindi pensiamo, solo noi. L’Africa, sono le guerre, i massacri,
l’Aids, talvolta gli elefanti e le giraffe. L’America Latina ci porta
samba e merengue, spesso il calcio. L’Asia, è la Cina, soprattutto,
perché qualsiasi cosa tocchiamo è stato fabbricato lì. Poi ci sono gli
stranieri, di tutti i colori, che «invadono» la nostra vita.
Eppure in Africa esistono popoli, culture, modi di essere e di vivere.
Nel quotidiano. Gioali, radio, televisioni, siti internet. Una
società ricchissima di varietà, giovane e in cammino costante. Con i s
uoi personaggi di riferimento: politici, di chiesa, di cultura.
Con questa nuova rubrica abbiamo l’ambizione di portare nelle vostre
case almeno un po’ della visione africana del mondo e degli
accadimenti. Un piccolo segno per dire: un altro mondo è possibile, un
altro mondo già esiste. A volte basterebbe ascoltarlo.
Saddam Hussein è stato impiccato il 31 dicembre scorso. Il giorno della
Tabaski (Aid-el-Kébir, festa del sacrificio di Abramo, durante la quale
si sgozza il montone, ndr). La sua esecuzione è stata largamente
mediatizzata e ha profondamente scioccato l’opinione pubblica
internazionale e, in particolare, in Africa. Lo spettacolo del Rais, in
giacca scura, la corda al collo, che parla ai suoi boia era
particolarmente toccante e rivoltante, anche se non si perdono di vista
i gravi crimini che pesavano sull’uomo. Le reazioni alla sua
impiccagione sono state varie. Qualcuno metteva in causa le condizioni
poco degne della sua esecuzione a dir poco sbrigativa, quando avrebbe
dovuto rispondere a numerosi altri crimini durante il suo regno
sanguinoso, sui quali si sperava di fare luce. Secondo altri, le
immagini insopportabili mostrate alla televisione sono giustamente la
prova che la pena di morte è una pratica di un’altra epoca e che
bisogna bandirla per sempre dal diritto penale. Naturalmente le
reazioni in Africa si sono divise su queste linee, dimostrando anche
che tutti i luoghi del mondo sono entrati in una fase d’uniformazione,
realizzando così il villaggio planetario annunciato da Mac Luhan.
Questi avvenimenti di Baghdad ci danno l’occasione di guardare
l’evoluzione della pena di morte come sanzione penale in Africa.
Prendiamo il caso del Burkina Faso.
Non c’è dubbio che, come tutte le società umane, le società africane
tradizionali considerano la vita come un valore sacro, come del resto
lo dimostra la sorte riservata alle donne, ai bambini e alle persone
anziane durante i conflitti armati tra etnie rivali. La morte non è mai
stata un fatto banale. Essa è inflitta solo in casi eccezionali. Nella
zona mossì (etnia maggioritaria in Burkina Faso, ndr), una pena
intermedia è stata prevista per evitare di giustiziare certi individui
destinati alla pena di morte. Si tratta della castrazione. Questi
uomini castrati restavano a palazzo dove si mettevano al servizio del
re. L’assassinio appariva nelle società tradizionali come il fatto più
grave. In questo caso la sanzione penale è generalmente la morte. Anche
in questo caso poteva applicarsi una pena compensatoria diversa da
quella capitale. Ad esempio tra gli anyanga del Togo, la famiglia
dell’assassino, se voleva salvargli la vita, doveva fornire sette
persone come compensazione. Questi diventano schiavi al servizio della
famiglia della vittima. Nell’ampia scelta di sanzioni in vigore tra i
mossì, le multe sono le meno pesanti, seguono le sevizie corporali
(come l’incatenamento) e la morte. Per quanto riguarda la pena
capitale, una piazza speciale, chiamata boegtoèga era riservata alle
esecuzioni a Ouagadougou, attuale capitale e sede del Moro Naba,
l’imperatore dei mossì. I giustiziati erano in generale delle persone
vicine al re che avevano avuto relazioni colpevoli con le sue spose. Il
boia si chiamava dapoéramba. Bisogna sapere che i condannati a morte
erano trattati in modo diverso a seconda se erano prìncipi o gente
comune. Questi ultimi prima di essere condotti al patibolo venivano
legati con delle corde, mentre per gli altri un pezzo di stoffa era
sufficiente. Questa differenza si spiega con il fatto che davanti alla
morte, il prìncipe a causa della sua nobiltà, deve restare degno per
accogliere la sentenza del reame. Poteva capitare che nelle contese che
opponevano capi tra di loro, l’arbitraggio del Moro Naba portasse alla
pena di morte per il colpevole. In questo caso preciso non c’era
bisogno del plotone d’esecuzione. L’imperatore invitava il colpevole ad
«andarsene», ovvero a darsi la morte. La vittima si suicidava,
piantandosi una freccia avvelenata nel petto o facendosi strangolare da
una banda di cotone bianco. Nel reame mossì di Ouagadougou, Naba Warga
(1666 – 1681) ha la reputazione di essere stato l’imperatore che meglio
ha organizzato la giustizia penale tradizionale.
La legge dei costumi (tradizionale) ha cessato di esercitare molto
prima dell’indipendenza. Il Burkina Faso ha adottato un codice penale
che all’articolo 9 prevede la pena di morte. È prevista l’esecuzione
per fucilazione in un posto designato dal ministero pubblico. Nessuna
esecuzione può essere fatta nei giorni di festa legale né la domenica.
L’esecuzione di una donna condannata a morte è subordinata al rilascio
di un certificato di non gravidanza. Notiamo tuttavia che la
giurisdizione burkinabè non sembra troppo invogliata ad applicare la
pena capitale. L’ultima esecuzione risale al 1988, quando sette
militari furono fucilati dopo essere stati condannati da un tribunale
militare rivoluzionario per aver ucciso, nel novembre di quell’anno, un
ufficiale dell’esercito e sua moglie. Il 12 giugno 1984, l’esecuzione
di cinque militari e due civili fu ordinata sempre da un tribunale
militare, per complotto contro il governo. Altre condanne ci sono
state, pronunciate dalla camera criminale della Corte d’Appello di
Ouagadougou nel 2003 in contumacia per assassinio e mutilazione. Ma il
fatto che è stato al centro della cronaca è l’assassinio nel 2004 di
due ragazze da parte di un giovane. Questi confessa di averlo fatto con
l’obiettivo di raccogliere il loro sangue per un rito con il
marabut (sacerdote musulmano, ndr) che gli avrebbe procurato ricchezza
e prestigio sociale. Il giovane fu giudicato e condannato a morte, ma
la pena non è stata ancora eseguita. La cosa più interessante è il
dibattito che ha seguito il processo. L’opinione pubblica s’è
appassionata al caso, per la crudeltà del crimine commesso dall’uomo,
le cui vittime erano per di più due amiche.
Due campi si sono allora costituiti sulla questione della pena di
morte. I favorevoli stimano che la criminalità si sia sviluppata perché
la pena capitale non è applicata in tutto il suo rigore. Questa
opinione è condivisa da un magistrato che constata come i mezzi per
combattere il crimine siano insufficienti. Occorre dunque, stima, che
le pene siano abbastanza dissuasive per scoraggiare i malintenzionati.
Questa opinione è contraddetta da un avvocato della parte civile di
questo ultimo caso. Secondo lui la pena capitale è uno spreco umano. Se
lo scopo della giustizia è permettere a una persona di pentirsi e
correggersi, allora la pena di morte non ha senso. Il dibattito è
ancora aperto.
Su 53 stati africani, 13 hanno abolito la pena capitale e 20 la mantengono ma non la applicano.
(tradotto e adattato da Marco Bello, per la versione originale in francese si veda oltre)
Germain Nama è uno dei più noti
intellettuali del Burkina Faso. Ha 57 anni ed è padre di 4 figli.
Professore di filosofia di formazione e giornalista impegnato per i
diritti umani. Ha collaborato con Norbert Zongo, il celebre giornalista
assassinato nel 1998, fin dalla creazione dell’Indépendant nel 1993.
Settimanale di cui è diventato condirettore alla morte di Zongo fino al
2002. È membro fondatore del Movimento burkinabè dei diritti dell’uomo
e dei popoli, nel quale è stato per oltre 10 anni presidente della
commissione arbitrale (struttura di consiglio e studio che assiste il
comitato esecutivo). Nama è direttore del giornale l’Evénement dalla
sua creazione (2001). Il bimensile di attualità politica più seguito
del paese, di cui è co-fondatore. (Per la versione completa online www.evenement-bf.net)
Ha un impengo nella commissione nazionale burkinabè per l’Unesco dal
1993, nel quale è capo divisione. Nel suo paese è molto apprezzato,
dagli amici e dai nemici, per il suo equilibrio e la sua correttezza.
Bitiu significa «legno sacro» e si tratta di un albero feticcio protettore. È il soprannome di Germain Nama.
La peine de mort en Afrique
Saddam Hussein a été pendu le 31 décembre deier, le jour de la
Tabaski. Sa mise à mort fortement médiatisée a profondément choqué
l’opinion inteationale et en particulier en Afrique. Le spectacle du
Raïs, en costume sombre, la corde au cou, parlant à ses bourreaux était
particulièrement saisissant et révoltant, même quand on ne perd pas de
vue les lourdes charges qui pesaient sur l’homme. Les réactions
consécutives à sa pendaison ont été diverses. Les uns mettaient en
cause les conditions très peu dignes de son exécution du reste
expéditive, alors qu’il devait répondre de nombreux autres crimes dont
on espérait qu’il en sorte une lumière sur les dessous de son règne
sanglant. Pour les autres, les images insupportables montrées à la
télévision sont justement la preuve que la peine de mort est une
pratique d’un autre âge qu’il faut bannir à jamais du droit
pénal. Naturellement, les réactions en Afrique ont aussi
épousé cette ligne de partage, démontrant ainsi que toutes les contrées
du monde sont entrées dans une phase d’uniformisation, réalisant ainsi
le village planétaire annoncé par Mac Luhan. Ces événements de Bagdad
nous fouissent l’occasion de jeter un regard sur l’évolution de la
question de la peine de mort comme sanction pénale au Burkina Faso
Il n’y a pas de doute qu’à l’instar de toutes les sociétés humaines,
les sociétés africaines traditionnelles tiennent elles aussi la vie
pour une valeur sacrée, comme du reste en témoigne le sort qui est fait
aux femmes, aux enfants et aux personnes âgées pendant les conflits
armés entre tribus ou ethnies opposées. La mort n’a jamais été un fait
banal. Elle n’est prononcée que dans des circonstances exceptionnelles.
En pays mossi, une peine intermédiaire a été prévue pour éviter
d’exécuter certains individus normalement destinés à la mort. C’est le
cas de la castration. Ces hommes castrés restaient dans l’entourage du
palais où ils se mettaient au service du roi. Le meurtre apparaissait
dans les sociétés traditionnelles comme la faute la plus grave. Dans
ces cas de figure, la sanction pénale est généralement la mort.
Même là, il arrive qu’on applique une peine compensatornire autre que la
mort. C’est ainsi que chez les Anyanga du Togo, la famille du
meurtrier, si elle tient à épargner la vie de son membre, elle doit
fouir sept personnes en guise de compensation. Ces personnes ont
vocation à être des esclaves au service de la famille de la
victime. Dans la panoplie des sanctions en vigueur en pays mossi,
les amendes apparaissaient comme les plus douces, à côté des sévices
corporelles (dont la mise aux fers) et la mort. En ce qui concee la
peine de mort, une place spéciale appelée boegtoèga était réservée à
l’exécution de la sentence à Ouagadougou où siège le Moro Naba,
l’empereur des mossis. Les suppliciés étaient en règle générale des
proches du roi qui ont entretenu des relations coupables avec ses
épouses. Les bourreaux s’appelaient les « dapoéramba.» Il faut
savoir que les condamnés à mort étaient traités différemment selon
qu’ils sont princes ou roturiers. Ces deiers avant d’être conduits à
la potence se voient attachés les mains à l’aide de cordes, tandis que
pour les princes, un morceau de tissu suffisait. Cette différence
s’explique par le fait que devant la mort, le prince en raison de sa
noblesse, doit rester digne pour accueillir la sentence du royaume. Il
arrive que dans les litiges qui opposent les chefs entre eux,
l’arbitrage du Moro Naba conduise à la sanction de mort contre le
fautif. Dans ce cas précis, il n’est point besoin d’un peloton
d’exécution. L’empereur invite le fautif à « s’en aller »
c’est-à-dire à se donner la mort. La victime se donne elle-même la
mort, soit en se plantant une flèche empoisonnée dans le mollet, soit
en se faisant étrangler avec une bande de cotonnade blanche. Dans le
royaume mossi de Ouagadougou, Naba Warga (1666-1681) est réputé être
l’empereur qui a le mieux organisé la juridiction pénale coutumière.
Le droit modee burkinabè prévoit la peine de mort
La loi coutumière a cessé de s’exercer bien avant l’indépendance. Le
Burkina Faso a adopté un code pénal qui prévoit la peine de mort en son
article 9. Celle-ci s’exécute par fusillade en un lieu désigné par le
ministère public (art15). Aucune exécution ne peut avoir lieu les jours
de fête légale ni le dimanche (art 18). L’exécution d’une femme
condamnée à mort est subordonnée à la délivrance d’un certificat de non
grossesse. On note cependant malgré ces dispositions que les
juridictions burkinabè ne semblent pas pressées d’appliquer la peine de
mort. Les deières exécutions en date remontent à 1988 où sept
militaires ont été fusillés après avoir été condamnés la veille par un
tribunal militaire révolutionnaire pour avoir tué en novembre de la
même année un officier de l’armée et son épouse. Le 12 juin 1984,
l’exécution de cinq militaires et deux civils fut ordonnée, également
par un tribunal militaire, pour complot contre le gouveement.
D’autres condamnations eurent lieu, cette fois prononcées par la
chambre criminelle de la Cour d’appel de Ouagadougou notamment en
2003 par contumace pour meurtre et mutilation. Mais l’affaire qui
défraya la chronique, c’est le meurtre en 2004 de deux filles par un
jeune homme. Ce deier avoua l’avoir fait dans le but de recueillir
leur sang en vue d’un rite maraboutique censé lui procurer richesses et
considération sociale. Le jeune fut jugé et condamné à mort, mais la
peine n’a pas encore été appliquée. Le plus intéressant, c’est le débat
qui a suivi ce procès. En effet, l’opinion publique se passionna pour
cette affaire, en raison de la cruauté du crime commis par un jeune
homme dont les victimes étaient de surcroît ses amies. Deux camps se
sont constitués autour de la question de la peine de mort. Ceux qui
sont favorables estiment que si la criminalité se développe, c’est
parce que la peine de mort n’est pas appliquée dans toute sa rigueur.
Cette opinion est du reste partagée par un magistrat qui constate à son
tour que la criminalité est très développée alors que les moyens
manquent pour la combattre. Il faut donc estime t-il que les peines
soient suffisamment dissuasives pour décourager les gens à commettre
les crimes graves, passibles de la peine de mort. Cette opinion se
trouve contredite par un avocat de la partie civile de cette deière
affaire en date. En effet pour lui, la peine capitale est un gâchis
humain. Si le but de la justice c’est de permettre à une personne de se
repentir et de se corriger, alors la peine de mort n’a pas sa raison
d’être.» Le débat est donc toujours ouvert.
Notons que sur les 53 Etats africains, 13 ont aboli la peine de mort
pour tous les crimes, 20 la maintiennent mais ne l’appliquent pas.
Germain Bitiu Nama