Il dramma degli «allogeni»
Tollerati durante il periodo d’oro dell’economia avoriana come manodopera nelle piantagioni di cacao, migliaia di immigrati burkinabé, maliani, togolesi, senegalesi e guineani, che da 50 anni vivono in Costa d’Avorio, oggi sono diventati «les allogènes», gli stranieri naturalizzati, e sono considerati una minaccia per le ricchezze della ormai non più ricca Costa d’Avorio.
La strada ombrosa che attraversa palmeti e piantagioni di cacao tra la città di Gagnoua e il villaggio di Sago è fatta di fango. Ogni giorno le enormi ruote dei camion che la percorrono scavano la terra, creando buche profonde che si riempiono d’acqua anche durante la stagione secca, diventando piscine infestate di zanzare. Il fango rosso è appiccicoso e non si stacca più di dosso. Ne sono pieni i pneumatici dei camioncini, delle vecchie automobili e delle biciclette che ci passano sopra, i sandali di quelli che camminano e i risvolti dei pantaloni degli uomini.
È sporco di fango anche il militare che presidia l’entrata del villaggio di Gueyo. I suoi stivali però sono nuovi e lucidi, segno questo che le coltivazioni di cacao che lo circondano portano ricchezza a tutti. Ferma i pochi turisti di passaggio per scambiare due chiacchiere e consiglia di non proseguire dopo il tramonto. «Ci sono i coupeurs de route – dice -, banditi che approfittano della cattiva condizione della strada per intrappolare e assalire chi passa».
Anche questo è un segnale di ricchezza: i commercianti che vengono a comprare il cacao girano per la foresta con in tasca moneta contante. Parecchia. «Un chilo di cacao – spiega padre Silvio Gullino con un accento ligure, rimasto intatto nonostante 20 anni di Africa – vale sui 350-400 cfa, mezzo euro. E visto che gli acquisti vengono fatti sull’ordine della tonnellata non è difficile capire quanto denaro circola in questa zona».
Ma il cacao non richiama solo i ricchi commercianti avoriani. Negli anni ha attirato decine di migliaia di lavoratori stranieri che si sono tuffati a testa bassa nelle operazioni di raccolta. Durante il periodo dello splendore economico, la Costa d’Avorio ha conosciuto un tasso di immigrazione che superava il 25% (a fronte di quello italiano del circa 3%) e, in 40 anni, è passata da 3 milioni di abitanti ai 20 milioni di oggi.
«Oltre tre quarti dei fedeli nelle cappelle intorno a Sago sono di origine burkinabé – chiarisce padre Jean Benedetti – sono venuti qui a lavorare nelle piantagioni e la foresta si è popolata di villaggi. Molti di loro lavorano per qualche anno in Costa d’Avorio e poi tornano nelle loro case d’origine, altri sono qui da molto più tempo».
Nessuno si è mai preoccupato della presenza di questi immigrati. Anzi. Finché hanno lavorato nelle piantagioni di cacao e hanno permesso all’economia avoriana di crescere a ritmi costanti erano tollerati. «Oggi le cose sono cambiate – spiega Maurizio Crivellaro di Inteational Rescue Committee -. Con la recessione economica degli anni ‘90, molti avoriani che si erano trasferiti in città per lavorare come impiegati o funzionari sono restati senza lavoro e sono tornati nei loro villaggi d’origine, trovando le terre che erano dei loro padri occupate da altre persone».
A 400 km da Sago, nel villaggio di Duékoué gli abidjanesi di ritorno hanno assalito con le armi i lavoratori di origine burkinabé che lavoravano nelle piantagioni. Il risultato è stato disastroso: a causa delle scarse conoscenze agricole gli ex impiegati hanno danneggiato le fave di cacao, facendo precipitare la produzione della zona da 3 mila tonnellate a meno di 500 l’anno.
D i fronte alla crisi politica e alla recessione, molti avoriani hanno trovato un capro espiatorio proprio in quei burkinabé e in quei maliani che prima avevano fornito parte della manodopera su cui si basava l’architettura economica del paese. «Siamo diventati les étrangers, gli stranieri – dice Idrissa Zungurane, un vecchio dioula di origine burkinabé, che ha passato più anni in Costa d’Avorio che nella sua madrepatria – perché i gueré (una delle etnie avoriane di maggioranza) sono gelosi di quello che abbiamo guadagnato onestamente con il nostro lavoro e usano le milizie per cacciarci dalle case che ci siamo costruiti. Sono razzisti».
Ma le accuse di razzismo non sembrano toccare i giovani avoriani. «Sono xenofobo: e allora?» è lo slogan che si sono fatti stampare gli studenti di Abidjan sulle magliette, quando due anni fa hanno sfilato per le strade della metropoli per la prima volta, al seguito dei Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé, leader delle milizie ultranazionaliste e capo indiscusso del movimento studentesco.
«La presenza straniera – grida continuamente ai suoi studenti il trentenne Blé Goudé, che sfoggia anche in piazza impeccabili completi gessati, impreziositi da cravatte colorate – è una minaccia per la purezza della razza avoriana e per tutto il paese. Cacciamo gli stranieri!». Il più citato da Blé Goudé nelle sue agorà improvvisate è il presidente «de l’Afrique digne», il rwandese Paul Kagame, l’uomo che ha saputo cacciare i francesi e gli stranieri.
«Da qualche tempo durante le riunioni dei Jeunes Patriotes – aggiunge Ehouman Kassy, corrispondente da Abidjan di Afrique Magazine – viene proiettato il documentario Touez-les tous! (ammazzateli tutti), in cui scorrono le immagini del genocidio rwandese. Secondo i leader degli studenti, tutto ciò serve per sensibilizzare la gente alle mostruosità della guerra civile, secondo altri per dimostrare ai nuovi adepti che si può compiere un massacro sotto gli occhi della comunità internazionale e delle Nazioni Unite senza preoccuparsi delle conseguenze».
A rafforzare la tesi di Kassy, il totale disorientamento dei caschi blu della Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) all’inizio di gennaio, quando un gruppo non identificato di combattenti ha fatto razzia nel villaggio di Kahin, uccidendo quasi 40 persone sotto gli occhi di alcuni peacekeepers, nel bel mezzo della zona cosiddetta de confiance. «Si è trattato di un gruppo armato di burkinabé esasperati dalla situazione – dice James Copnall della Bbc – che hanno deciso di vendicarsi delle violenze subite recentemente dai militari avoriani. Da 7 anni in Costa d’Avorio si sta ripetendo la storia di Yopougon», il quartiere di Abidjan dove si è verificato il primo massacro.
Nel 2000 un gruppo di poliziotti irruppe nel quartiere di Yopougon e uccise oltre 50 dioula, i cittadini avoriani di origine burkinabé o maliana, accusati dalla radio e da tutti i giornali di essere i colpevoli della recessione economica. «Fu orribile – raccontavano i testimoni dell’ecatombe -. Per salvarci ci siamo dovuti nascondere sotto i cadaveri dei nostri familiari mentre i poliziotti continuavano a sparare».
La vendetta non tardò ad arrivare: due anni dopo, durante la guerra civile, una sessantina di gendarmi e le loro famiglie furono catturati da un gruppo di dioula ribelli e furono passati per le armi al grido di «ricordatevi di Yopougon: adesso tocca a voi».
Nella zona di Sago non si sono verificati massacri ma la situazione è molto tesa. «Nelle nostre parrocchie – dice padre Silvio – non ci sono state violenze di massa, ma ogni volta che uno dei nostri catechisti di origine burkinabé si deve spostare tra un villaggio e l’altro nella foresta, la polizia e i militari gli rendono la vita difficile: lo minacciano e gli estorcono soldi».
Sulla costa gli allogènes di etnia dioula, mossi, krumen e fante, che in passato vivevano nei villaggi della foresta nelle piantagioni di cacao, si sono riuniti in un’enorme baraccopoli alla periferia di San Pedro «e da quando è iniziata questa guerra – dice Maurice, le cui cicatrici rituali sul volto rivelano una provenienza burkinabé – non siamo più né avoriani né stranieri. Siamo dei disoccupati».
Chiara Giovetti e Alessio Antonini