Esperienza estiva di un gruppo di giovani di Reggio Emilia
Da oltre 40 anni la diocesi di Reggio Emilia è legata alla chiesa rwandese. Tra le varie iniziative figura anche l’invio di gruppi giovanili desiderosi di fare esperienze di missione. Quello guidato dal padre Moreschi ha animato oltre 700 giovani di ogni etnia, gettando un seme di speranza in un paese che non è ancora riuscito a liberarsi dall’incubo.
«Paese dalle mille colline», come è spesso definito, il Rwanda si trova a un grado e mezzo sotto l’Equatore, schiacciato tra Tanzania e Congo, Uganda e Burundi, con cui costituiva un territorio unico durante il periodo coloniale. Grande come la Sicilia, è popolato da quasi 9 milioni di abitanti. La scorsa estate vi ho trascorso tre settimane, insieme a un gruppo di giovani della diocesi di Reggio Emilia per un campo di esperienza missionaria.
Il legame tra la diocesi di Reggio e il Rwanda risale al 1969, quando vi approdò padre Tiziano Guglielmi, missionario reggiano della congregazione dei Padri Bianchi. Tale legame è diventato sempre più forte, anche dopo la morte del missionario, avvenuta il 19 maggio 1980 in un incidente aereo alle pendici del vulcano Bisoke, nel nord del Rwanda. Anzi, proprio tale disgrazia ha portato alla costituzione del gruppo «Amici del Rwanda. Padre Tiziano», per continuare le opere avviate dal missionario reggiano nella missione di Rwamagana, realizzando la costruzione di una scuola, un centro ospedaliero, la casa per le suore e un’altra per i volontari.
La guerra civile dell’aprile-luglio 1994 e conseguente genocidio ha costretto il gruppo e la diocesi a interrogarsi sul loro ruolo nel futuro del paese martoriato. Don Luigi Guglielmi, fratello di padre Tiziano e all’epoca direttore della Caritas diocesana, volle avviare un progetto che coinvolgesse più direttamente la diocesi reggina e fosse segno di speranza e di solidarietà con la popolazione e la chiesa rwandese.
Nasceva così, nel 1995, il primo progetto Amahoro (pace, in lingua rwandese) a Munyanga, nella diocesi di Kibungo: una casa-famiglia per accogliere i bambini rimasti senza genitori. Tale progetto non si limita a fornire le strutture materiali, si traduce soprattutto in una esperienza di comunità tra volontari italiani e rwandesi, condividendo insieme la vita quotidiana, orientamenti e scelte per l’avanzamento del progetto.
Oltre un centinaio di volontari italiani si sono avvicendati per assicurare il servizio della casa Amahoro e per aprie di nuove in altri luoghi, come a Kabarondo e Bare. A questi volontari si sono presto uniti anche gruppi giovanili, desiderosi di fare esperienze missionarie e realizzare progetti minori attraverso campi estivi di qualche settimana.
Anche il 2006 ha visto partire da Reggio Emilia due delegazioni di volontari. La prima, all’inizio dell’anno, aveva il compito di aggiustare delle pompe che si erano bloccate; la seconda, ad agosto, era il nostro gruppo di giovani, che ha trascorso una ventina di giorni nella missione di Munyaga. Abbiamo animato una marea di ragazzi, fino a 700 in alcune giornate dedicate a un campo estivo. Altri giorni sono stati impegnati nella costruzione di case di fango per i poveri, sotto la direzione di suor Bea, una religiosa belga in Rwanda da una vita.
Naturalmente abbiamo avuto anche il tempo per conoscere la situazione del paese. Il Rwanda è un paese con una storia gloriosa e splendide tradizioni; geograficamente bello e godibile per il clima e fertilità del suolo; non ha pascoli in abbondanza, ma sufficienti a sfamare molte mandrie di mucche dalle coa spropositatamente grandi.
Un’eterna primavera sembra regnare nel paese dalle mille colline, irrorate da piogge regolari, incastonate da molti laghi, piccoli e grandi (Kivu, Bulera, Ruhongo, Rweru, Muhazi e l’immenso Vittoria) e solcato da numerosi fiumi, due dei quali, che alimentano il lago Vittoria, sono ritenuti come le vere sorgenti del Nilo.
La gente è buona e laboriosa. L’intero territorio è coltivato come un giardino, tutto a mano, anche le colline più scoscese, con un ingegnoso sistema di terrazze.
Sulla brillantezza del paesaggio, però, incombe la tristezza infinita della gente. Le ferite aperte dall’eccidio, a più di 10 anni di distanza, non sono ancora rimarginate. La gente sembra avere ancora stampate negli occhi scene orrende di cui è stata testimone. Tutti gli adulti che abbiamo incontrato in quei 20 giorni ci hanno raccontato storie tristi, perché tutti hanno avuto la pertita di uno o più familiari. Una signora rwandese, sposata a un italiano, ha perso i genitori e un fratello con tutta la sua famiglia. Questo fratello, per non finire sotto i colpi di macete, si è gettato nel fiume insieme alla moglie e ai figli.
Le iniziative per ricostruire la convivenza civile e la riconciliazione sono molte. Il tribunale internazionale con sede ad Arusha (Tanzania) ha già emesso sentenze esemplari contro chi si è macchiato di delitti contro l’umanità e continua il suo lavoro fra tante difficoltà finanziarie e logistiche; i tribunali tradizionali, chiamati «gachaca», cercano di promuovere la riconciliazione; il governo vuole imporre la pace e l’unità nazionale usando il pugno di ferro e violando i diritti umani più elementari.
Visitando i «luoghi della memoria» sparsi su tutto il territorio, questo momento nero della storia rwandese risulta anche più tragico e indimenticabile.
Nella chiesa di Ntarama, per esempio, dove furono uccise oltre10 mila persone, si respira ancora l’odore della morte. I teschi delle vittime sono raccolti negli scaffali; sul pavimento ci sono vestiti e scarpe e contenitori di plastica lasciati dalle vittime. Sulle pareti della chiesa si è cominciato a scrivere la lunga lista di 10 nomi. Non difficile immaginare l’atmosfera di tristezza che pervade la gente del villaggio.
Di luoghi della memoria come questi è piena la nazione. Altra meta d’obbligo è Nyamata. Durante la guerra civile vi operava padre Joaquim Vallmajo, spagnolo, assassinato perché parlava troppo dei soprusi dei soldati del Fronte patriottico rwandese. Vicino al cippo che ricorda il missionario spagnolo c’è la tomba della volontaria italiana Antonia Locatelli, anche lei uccisa con una pallottola in bocca, nel 1992, per aver telefonato all’ambasciata del Belgio e a emittenti radio inteazionali (Bbc e Rfi) dando l’allarme di quanto stava succedendo sotto i suoi occhi: il massacro di 300-400 tutsi. Il giorno seguente a tale appello fu uccisa davanti a casa da un gruppo di interahamwe (milizie speciali hutu) venuto appositamente da Kigali. Grazie a lei, però, il mondo fu informato e la polizia fu costretta a intervenire e a porre fine alla carneficina.
Anche con una breve permanenza nel paese ci si accorge che il Rwanda non è ancora uscito da una esperienza così tragica; il demone dell’odio e della divisione ha radici antiche. La popolazione è laboriosa, intelligente e pacifica, ma nel suo interno rimangono frange di estremisti che spingono allo scontro frontale. Per questo si incontrano dappertutto posti di blocco molto noiosi. Suor Bea e suor Mary Amè ci dicono che sono gli stranieri a essere sotto stretto controllo, ma in generale è tutta la popolazione rwandese a vivere sotto stretta sorveglianza.
A parte questo, tutto sembra rientrato in una discreta normalità. La gente cammina per le strade a piedi come un fiume perenne, dato che il traffico automobilistico nella zona rurale è molto limitato. Kigali, la capitale, brulica di gente indaffarata, i negozi sono pieni di prodotti di ogni genere, anche quelli occidentali.
Kibeho non è solo un luogo della memoria, ma è diventato il simbolo del dolore assoluto, nel cuore dell’Africa dei massacri. Vi abbiamo incontrato una delle veggenti alle quali la Madonna, sarebbe apparsa più di una volta a partire dal 28 novembre 1981.
I protagonisti sarebbero sette. Ma la chiesa ha riconosciuto solo le apparizioni alle prime tre veggenti, studentesse delle scuole magistrali in un collegio cattolico. I messaggi consegnati alle tre giovani non si discostano da quelli di altre apparizioni mariane: invito alla preghiera, alla conversione e alla penitenza salvifica. Ma ciò che fa di Kibeho un evento particolarmente impressionante è che, il 19 agosto 1982, i tre veggenti ebbero la visione dei massacri che ci sarebbero stati di lì a pochi anni in Rwanda. «Abbiamo visto gente che si uccideva, corpi decapitati, fiumi di sangue lungo le strade» raccontavano i veggenti.
Inizialmente le apparizioni furono accolte con sospetto e scetticismo; i più benevoli pensavano che gli orrori annunciati riguardassero il Burundi. Poi, dopo 7 anni di indagini e il lavoro di una commissione medica internazionale, il vescovo approvò il culto della Vergine e la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna dei dolori.
E proprio in quella chiesa, il 7 aprile 1994, si rifugiarono circa 20 mila tutsi e hutu moderati. I tutsi che si trovavano in chiesa vennero fatti uscire e massacrati ad uno ad uno a colpi di machete. Quelli che non uscirono vennero uccisi con le granate in chiesa. Tra le vittime ci furono anche due delle tre veggenti.
Quando il Fronte patriottico rwandese giunse al potere, a Kibeho si rifugiarono decine di migliaia di hutu, per sfuggire alla vendetta dei tutsi, formando un enorme campo profughi, sotto l’assistenza di organizzazioni inteazionali. Ma il 18 aprile 1995 l’Esercito patriottico rwandese cinse d’assedio il campo, con lo scopo di controllare i rifugiati, arrestando i sospetti di genocidio e rimandando il resto alle proprie case.
La gente, presa dal panico, cercò di rompere il cordone militare e scappare a perdifiato, sotto i colpi dei soldati. Le strade furono cosparse di sangue, come nella visione proposta ai veggenti 14 anni prima. Si parla di oltre 8 mila vittime, colpite alle spalle; 4 mila secondo le autorità rwandesi.
Ma per Kibeho non era ancora finita. Le autorità rwandesi, in maggioranza tutsi, volevano confiscare il santuario e trasformarlo in mausoleo del genocidio del 1994. Il vescovo locale, mons. Augustin Misago si oppose, così pure la Santa Sede, spiegando che la chiesa non poteva diventare simbolo della memoria solo per una parte del popolo, ma doveva essere luogo di riconciliazione.
Proprio da Kibeho, il presidente del Rwanda lanciò contro mons. Misago l’accusa di genocidio nel 1999. Arrestato e condannato a morte, dopo un processo farsa durato tutto l’anno del giubileo, il vescovo fu poi assolto da un giudice di buon senso.
Oggi il santuario di Kibeho, con le sue travi e capriate di legno affumicate, rimane un monito contro ogni ideologia razzista di purezza etnica e continua ad accogliere migliaia di pellegrini di ogni etnia desiderosi di pace e riconciliazione.
A Munyaga, luogo della nostra esperienza, 700 ragazzi di tutte le etnie hanno giocato e cantato e ballato spensieratamente. Abbiamo gettato un piccolissimo seme di speranza, nell’attesa che cresca e maturi con frutti di pacifica convivenza, cancellando il velo di tristezza che ancora avvolge le mille colline del Rwanda martoriato.
Alessandro Moreschi