Se New York vale l’Africa

La «frattura digitale» (digital divide)

Non molto tempo fa tutti parlavano di «villaggio
globale». Oggi, dopo il successo delle nuove tecnologie, si discute di
«digital divide». Per capire, è sufficiente un semplice dato: soltanto
lo 0,3% degli utenti internet (i cosiddetti «navigatori») vive nel Sud
del mondo. Perché esiste la «frattura digitale»? Essa rappresenta una
priorità come altri bisogni? Ovvero: vale la pena colmarla?

Una delle questioni più invocate nell’agenda del recente Summit
dell’Onu sulla «Società dell’informazione» (World Summit on the
Information Society, Ginevra 2003 – Tunisi 2005) è stata quella
relativa al «digital divide» (divario digitale), un termine con cui ci
si riferisce alle disparità nella possibilità di accedere alle
tecnologie e alle risorse dell’informazione e della comunicazione, in
particolare internet. È anch’esso uno dei frutti perversi della
globalizzazione, in particolare del processo di digitalizzazione
dell’economia e della società che, ben lungi dal trasformare il mondo
in un villaggio globale, ha contribuito a differenziare e allontanare
individui e strati sociali, aree rurali e zone urbane, paesi ricchi e
paesi poveri.
È di queste settimane la notizia che gli utenti internet nel mondo
avrebbero raggiunto il miliardo di persone, e già sono partiti
innumerevoli piani per connettere «il secondo miliardo». Tuttavia, non
sarebbe male astenersi qualche momento dal fantasticare, per osservare,
invece, come si distribuisce, nel mondo, il primo miliardo di
navigatori. Secondo i dati di Nua Inteet Surveys, un’agenzia che si
occupa di monitorare a livello mondiale lo sviluppo della rete internet
e l’utilizzo che ne viene fatto, la grande maggioranza della
popolazione del mondo è ancora priva del tutto dell’accesso a internet.
L’88% degli utenti vive nei paesi industrializzati, contro il solo 0,3%
che abita nei paesi poveri. Per riflettere sull’enormità delle
disuguaglianze esistenti, si ripete spesso che vi sono più connessioni
internet nella sola città di New York che in tutto il continente
africano, mentre vi sono più nodi di accesso (host) in un paese poco
popolato come la Finlandia che in tutto il Sud America messo insieme.

INTERNET O ACQUA E MEDICINE?
Se osserviamo la distribuzione geografica, scopriamo che Stati Uniti e
Canada insieme (Nord America) assommano un terzo degli utenti di tutto
il mondo, pur rappresentando solamente il 5% della popolazione
mondiale; l’Africa sub-sahariana, per contro, possiede l’1,1% degli
utenti internet, nonostante nel continente viva l’11% della popolazione
mondiale. Occorre poi prendere queste cifre, di per sé comunque
esplicite, con estrema cautela: i già pochi utenti internet africani,
infatti, sono concentrati quasi interamente (il 58%) nel solo
Sudafrica, che non è certo un paese in via di sviluppo, mentre gli
utenti asiatici sono quasi tutti circoscritti al Giappone e alle ricche
«enclave» di Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, tagliando
fuori la quasi totalità degli abitanti della popolosa Cina continentale.
La frattura risultante è certamente una sfida più complessa di quanto
appaia da queste cifre, altrimenti non si spiegherebbe il grande
fiorire di iniziative, finalizzate a «colmare» il divario digitale.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un impegno intensificato, da
parte dei colossi delle tecnologie dell’informazione e delle grandi
compagnie mondiali delle telecomunicazioni, in favore di una rapida
diffusione delle nuove tecnologie nei paesi in via di sviluppo. Ad esso
si sono affiancate le rumorose proteste di coloro che, in occasione dei
vari vertici inteazionali, bruciano sulla piazza i computer
portatili, sostenendo che «il Terzo Mondo ha bisogno di acqua e di
medicine, più che di nuove tecnologie».
Ciascuna delle due opposte reazioni pecca di eccessiva superficialità:
le grandi multinazionali tecnologiche faticano a comprendere che il
problema reale non è quello di incentivare l’utilizzo delle tecnologie,
bensì quello di subordinarle agli obiettivi di sviluppo umano; i
contestatori di piazza, invece, non sanno valutare appieno il ruolo
dell’informatica nei processi di sviluppo e la dimensione sempre meno
collaterale che questa sta assumendo. Oggi il cosiddetto «cyberspazio»,
lo spazio elettronico generato dalle reti informatiche, non è più uno
spazio autonomo, con dinamiche di funzionamento proprie, ma riflette i
valori e le prerogative della realtà concreta, con gli stessi rischi di
vedersi affermare modelli di sviluppo insostenibile.

LE BARRIERE DEL «DIGITAL DIVIDE»
Le barriere cui oggi assistiamo in materia di accesso alle informazioni
e alle risorse informatiche non si sono prodotte per caso, ma sono il
risultato di alcuni precisi fattori di tipo tecnologico, culturale, ed
economico. Vediamo dunque di che cosa si tratta.

• Le barriere dell’analfabetismo e delle risorse energetiche
Molti saranno forse sorpresi nell’apprendere che il primo grande
ostacolo per l’accesso alle tecnologie dell’informazione non ha nulla a
che vedere con la tecnologia: si tratta dell’analfabetismo, che
colpisce la quasi totalità delle persone che vivono al di sotto della
soglia di povertà, privandole degli strumenti linguistici per scrivere,
leggere e comunicare le proprie esperienze.
Il secondo ostacolo è rappresentato dalla distribuzione delle risorse
energetiche. Nel mondo ci sono più di due miliardi di persone che non
possono accedere all’energia elettrica e altrettante che la possono
utilizzare solo sporadicamente. Anche per queste persone, come è ovvio,
le cosiddette «autostrade dell’informazione» risultano inaccessibili.

• Le barriere infrastrutturali
Il fatto di possedere un’istruzione di base e di trovarsi vicino a una
presa di corrente non è però sufficiente per «entrare in rete»: sono
necessarie anche delle adeguate infrastrutture telefoniche e almeno un
computer. Anche per quanto riguarda tali indicatori, le disuguaglianze
sono evidenti. Per dirla con una celebre battuta dell’attuale
presidente del Sudafrica: «la metà della popolazione mondiale non ha
ancora fatto la prima telefonata».
Molti sono ingenuamente convinti che queste siano le uniche barriere
rilevanti. Anche le organizzazioni inteazionali si servono
abitualmente del termine «e-readiness» (prontezza digitale) per
alludere alla dotazione infrastrutturale di un paese, intendendo
implicitamente che, una volta recuperati i ritardi infrastrutturali, un
paese possa dirsi «pronto« a fare il suo ingresso nel mondo digitale.
• La barriera dei costi
In Italia, perlomeno da qualche anno, non si pensa più al costo
dell’accesso a internet come a una barriera; tuttavia, nel Sud del
mondo, la bassa densità di utenti non consente di sfruttare, come al
Nord, collegamenti specializzati a costi forfetari e rende assai
costosa una connessione internet. Questo, aggiunto ai costi per gli
spazi web su cui ospitare le pagine ipertestuali, ai costi delle
periferiche e ai tassi delle tariffe doganali sui prodotti delle
tecnologie dell’informazione, costituisce una grave forma di
emarginazione dalle strutture di comunicazione.

• Le barriere economiche
Oggi il settore delle telecomunicazioni nei paesi del Sud del mondo si
trova stretto in una morsa. Da una parte c’è il settore pubblico, che
procede arrancando. Dall’altra parte ci sono invece le imprese,
assetate di nuovi profitti. I paesi in via di sviluppo costituiscono,
in questo momento, il più grande mercato per l’investimento in
telecomunicazioni e di certo quello che sta crescendo in maniera più
vistosa. Da qualche tempo, in risposta a queste spinte, è stato avviato
un brutale processo di liberalizzazione, che ha portato a cospicui
investimenti nelle aree più redditizie del Sud (i centri urbani e la
clientela più ricca) e ha progressivamente emarginato le aree rurali e
le popolazioni più povere.

• La barriera dei contenuti
I paesi poveri, nonostante i massicci tentativi di creare punti di
accesso all’informazione («edicole multimediali», «Inteet caffè»,
etc…) continuano a rimanere consumatori passivi di informazioni
provenienti dal Nord del mondo. Anche il fattore linguistico accentua
questa frattura, dal momento che più dell’80% delle pagine web sono in
inglese, contro il 10% o meno della popolazione globale che parla
l’inglese come lingua madre.

• La barriera della censura
Forse non tutti sanno che il Patto Internazionale delle Nazioni Unite
relativo ai diritti civili e politici possiede un articolo, l’art. 19,
che enuncia un vero e proprio «diritto a comunicare». Tale diritto
resta largamente disatteso e l’ostacolo più appariscente è
rappresentato dalle restrizioni e dalle censure che sono state imposte
da diversi stati. L’organizzazione Reporters sans Frontières ha
elaborato una lista nera di paesi dichiarati «nemici di internet». Essi
si sono macchiati di gravi violazioni, per esempio stabilendo un
monopolio di stato sulla foitura di accesso alla rete, controllando i
provider privati, filtrando siti web ospitati da server stranieri,
violando la confidenzialità degli scambi privati su internet, infine
lanciando procedimenti penali contro utenti della rete.
• La barriera della multimedialità
L’ultima delle barriere è probabilmente la meno considerata e la più
insidiosa: si tratta della multimedialità. Oggi, le pagine web a cui
accediamo normalmente sono sempre più cariche di multimedialità,
rendendo le pagine internet praticamente illeggibili per molte persone,
anche nel Nord: innanzitutto per le migliaia di persone disabili, che
possono utilizzare il computer nella sola modalità testuale e che sono
costrette a interagire attraverso tastiere braille o dispositivi di
sintesi vocale. In secondo luogo per gli abitanti del Sud, che
dispongono di collegamenti internet lenti e realizzati su linee
telefoniche fatiscenti. Ricordiamo che multimedialità è sinonimo di
collegamenti veloci e costosi e che in tali paesi la velocità di
trasmissione dei dati via modem è ancora troppo bassa per utilizzare
l’audio e il video nella stessa modalità intensiva dei paesi del Nord.

PER UNA NUOVA SOBRIETÀ
Il nodo della questione non è quello di aumentare
indefinitamente la capacità delle reti di trasmissione («banda larga»)
che, essendo di proprietà dei grandi colossi multimediali, rimarranno
estremamente costose e la cui accessibilità già oggi pone seri dubbi a
coloro che si occupano di «libertà in rete». Una risposta più adeguata
dovrebbe portarci a recuperare la dimensione etica, riscoprendo una
nuova sobrietà nella comunicazione, che ci permetta di esprimere i
contenuti informativi che desideriamo senza eccedere nel traffico di
dati.
Forse la sfida tecnologica più grande è, paradossalmente, quella di
fare «marcia indietro», impegnandoci a inseguire un modello di
formazione online veramente sostenibile, caratterizzato non da un
eccesso di informazione multimediale ad alto consumo di risorse, ma da
una nuova sobrietà nella comunicazione e nell’utilizzo degli strumenti
che abbiamo a disposizione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro