Per una tecnologia dal volto umano

Le nuove tecnologie: vanno sempre bene?

Inteet e le nuove tecnologie rappresentano una
rivoluzione, ma non hanno una valenza salvifica. A volte, nel Sud del
mondo (con l’Africa in testa) sono più utili una radio ed un telefono
mobile. Senza dimenticare che le grandi multinazionali tecnologiche non
sono associazioni benefiche. Semplicemente vogliono trasformare i
«poveri» in «clienti». Soltanto mettendo da parte la retorica e
ragionando con senso critico, le nuove tecnologie potranno essere
d’aiuto ai paesi poveri.

Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre
(Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire
l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna
e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai
riflettori della modeità e scorre sui binari tranquilli della
tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo
sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà,
tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso
un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo
online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a
questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto
il proprio ingresso nella società dell’informazione.
Questa commistione di tradizione e modeità non deve stupire: internet
sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e
le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto
è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un
ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture
indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale,
circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di
popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global
Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura
di monitorare le risorse forestali del mondo intero.
Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete
mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad
internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica
satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con
l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli
standard stabiliti dalle organizzazioni inteazionali.
Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via
internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di
prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi
in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di
cataclismi naturali.

SE LA SALUTE  VIAGGIA SU INTERNET
È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di
inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato.
Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per
cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti:
la salute, per esempio.
Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud
l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione
sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui
trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché
non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro
diagnosi.
La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989,
offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30
paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali
servizi si tratta.
In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere
adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni
alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico
affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle
ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono
sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un
software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a
raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà
attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.
Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio
spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale
HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene
Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese.
Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità
infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina –
sostiene Maria – è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi
attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento
dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe
un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato
nella maggior parte dei centri sanitari.

LA «GRAAMEN PHONE»:  PICCOLO È BELLO
I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate
di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono
certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa.
Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico
successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni,
fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è
bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è
valida ancora oggi.
Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus,
inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen
Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la
sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha
esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del
Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale,
solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un
telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani.
La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata.
Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale,
molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso
canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per
garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.
Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari
frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una
regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri
contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai
prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che
appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le
chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai
contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a
ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.
L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più
avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e
moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli
ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.

CARA, VECCHIA RADIO
Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri
Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con
quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org)
trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici
domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto
di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database
contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di
accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per
effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.
La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata
impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto
quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse
infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo
alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia
elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.
È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano
replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo
strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più
che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i
cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di
oralità della cultura africana.
Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove
tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro
immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle
raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel
mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti,
che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri
stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella
pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.

«VENDO CAPRE»:  SU INTERNET
Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia
per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno
di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano
e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet… Ci
sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La
tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in
Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè…».
Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e
Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Inteet) serve
a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere
delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società
siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei
casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cornoperative locali,
che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi
correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi:
dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al
turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi
potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere
accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché
delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è
necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni
in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze
rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle
e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé
del mercato mondiale.
Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i
poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione.
Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che,
grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di
gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno
ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?

MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO
Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità
delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con
l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società
dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono
con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo
strumento tecnologico.
Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità
internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a
internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare
di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in
una qualsiasi realtà del Sud del mondo.
Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e
nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché
dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in
Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta
da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba
necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di
migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi
di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali
programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le
uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di
utenti contemporaneamente. Perché – è la domanda ricorrente – non
incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di
base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?
Il ragionamento spiana la strada all’ingresso in massa del mondo del
business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di
trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in
partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti»,
destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente)
a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività
delle loro attività.
Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di
retorica e da un’assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni
volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno
sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della
tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una
riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un
valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le
finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto
sulle fasce più deboli della popolazione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro

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