Mosaico «esplosivo»
Potere, petrolio e milizie: dove sta andando il gigante africano
La grande diversità è la sua ricchezza. Ma, gestita
male, diventa la sua rovina. Così il paese più popoloso dell’Africa, e
attuale sesto produttore di petrolio al mondo, è attraversato da
movimenti identitari. La scadenza elettorale di aprile scatena voraci
appetiti nella classe politica, e stimola la galassia di milizie
armate. Tutti in cerca di una fetta di torta.
Il clima politico e sociale si sta surriscaldando in Nigeria ed è
destinato a peggiorare con l’avvicinarsi delle elezioni politiche di
aprile. Il presidente Olusegun Obasanjo, eletto nel 1999 e rieletto nel
2003, ha rappresentato una svolta democratica per il paese, che dei
suoi 46 anni d’indipendenza ne ha vissuti 28 di dittatura militare.
Obasanjo ha tentato di lottare contro la corruzione con pochi risultati
tangibili. Il suo maggior successo è stato invece rilanciare il paese a
livello internazionale, facendolo uscire dall’isolamento causato dai
governi militari. Non è riuscito tuttavia sul piano interno dove ha
continuato a svilupparsi il fenomeno delle milizie etniche e si sono
inaspriti gli scontri tra gruppi di interesse economici e politici.
Lo scorso maggio, Obasanjo ha tentato, senza successo, di far
modificare la costituzione, che impone il limite di due mandati
consecutivi, per poter prolungare la sua opera al vertice dello stato.
La vera questione è che la gestione del potere nel gigante africano fa
gola a molti.
Una potenza africana
Sesto produttore di petrolio a livello mondiale e primo in Africa con
2,5 milioni di barili al giorno (35.255 milioni di barili di riserve),
la Nigeria si contende la leadership continentale solo con il
Sudafrica.
Repubblica federale di 36 stati, 130 milioni di abitanti e oltre 250
popoli, il paese definito «mosaico» per le sue grandi diversità
etniche, culturali, religiose e linguistiche ha una certa difficoltà a
mantenersi unito. Divisioni tra gli stati musulmani del nord (dodici
dei quali hanno adottato la legge islamica, sharia) e quelli cristiani
del sud, ma anche tra potere centrale e singoli stati federati.
Le tensioni tra cristiani e musulmani, ma anche tra allevatori e
coltivatori che spesso sfociano in massacri con centinaia di vittime,
sono oggi in lieve diminuzione, ma sempre latenti.
Il sistema federale che doveva garantire la partecipazione di tutte le
etnie, ma ancora prima l’impostazione coloniale, hanno in realtà
favorito i tre principali gruppi: haussa, yoruba e igbo. Questo ha
creato spesso un senso di emarginazione e alienazione rispetto allo
stato nigeriano delle altre centinaia di etnie.
Dalla metà degli anni ’90 questi sentimenti di identità etnica e
politica, esacerbati dai sistemi oppressivi delle dittature militari,
sono sfociati nella nascita di una moltitudine di milizie
etniche. Gruppi armati attivi nelle diverse zone del paese con
origine simile ma anime molto diverse. Dalle rivendicazioni politiche
degli yoruba, al movimento per l’indipendenza del Biafra, alle milizie
islamiche nel nord, ai movimenti per la ripartizione delle risorse nel
delta del Niger.
Cambio ai vertici
Lo scorso dicembre, il partito del presidente, Partito democratico del
popolo (Pdp), ha eletto il suo candidato per le presidenziali. Si
tratta di Umaru Yar’Adua, governatore, musulmano, di uno stato del nord
(Katsina). Uomo schivo, ma soprattutto uno dei rari governatori
«integri», secondo la Commissione per i crimini economici e finanziari
(Efcc), istituita dall’attuale presidente. La commissione ha aperto
inchieste su 31 dei 36 governatori. In effetti la Nigeria, secondo la
classifica annuale in base alla corruzione, stilata dall’Ong
Transparency Inteational, resta uno dei paesi più corrotti del mondo,
occupando il 142simo posto su 163 recensiti.
Secondo un tacito accordo tra gruppi di potere, dopo gli 8 anni di
governo federale a un uomo del sud, cristiano, sarebbe stato un uomo
del nord ad avere la presidenza. Con la riforma della costituzione il
presidente ha tentato di venire meno ai patti, senza peraltro riuscirci.
Allora Obasanjo ha preferito mandare avanti un uomo di secondo piano
del partito, ma musulmano del nord, e con una buona immagine a livello
nazionale. È riuscito così, allo stesso tempo a soddisfare l’accordo,
ma anche a scartare alcuni avversari «musulmani» diretti. Come
l’attuale vicepresidente, Atiku Abubakar, uomo potente del Pdp ma in
rotta con Obasanjo (è anche stato uno dei fautori del «no» alla riforma
costituzionale) che ora si candiderà sotto un’altra bandiera politica.
Oppure Ibrahim Badatasi Babangida, già presidente dittatore dall’85 al
’93 intenzionato di nuovo a correre per la presidenza.
È molto probabile che i giochi si definiranno all’interno del Pdp, che
oggi controlla 28 dei 36 governatorati e ha la maggioranza al
parlamento federale. Con una possibile vittoria di Yar’Adua, il partito
dovrebbe poi accontentare gli stati del sud con la vice presidenza.
Ma anche gli Igbo (Ibo) dell’est, etnia maggioritaria (40 milioni) e
che non hanno un presidente da 40 anni vorrebbero dire la loro.
Questa successione sarebbe il primo passaggio di poteri tra civili nella storia del paese.
Molte risorse, ma per pochi
La Nigeria è dunque un paese molto ricco di risorse, che non vanno però a beneficio della sua numerosa popolazione.
Secondo gli analisti dell’Inteational Crisis Group (Icg), Ong
internazionale per la prevenzione dei conflitti, il sistema federale
non funziona e contribuisce all’aumento della violenza che destabilizza
il paese. Incoraggia lotte feroci tra gruppi d’interesse per
appropriarsi del potere. In questo contesto sono nate le milizie
etniche e politiche, ma è anche fiorito il crimine organizzato. Le tre
componenti si intrecciano in modo inestricabile. Lo stato, sempre
secondo l’Icg, vuole reprimere i sintomi, inviando più poliziotti e
militari, piuttosto che cercare di debellare le cause: controllo delle
risorse, uguaglianza dei diritti, condivisione del potere e della
responsabilità.
Questa situazione sta portando all’aumento dei conflitti interni, con
conseguente peggioramento della situazione di sicurezza e
un’instabilità crescente. Alcuni analisti parlano di possibile
«collasso» o «esplosione» del gigante.
Petrolio chiama sangue
Il caso emblematico è il sud dove si concentrano i giacimenti di
petrolio nel delta del fiume Niger e in mare. Da queste zone il paese
ricava il 95% delle sue entrate all’esportazione. Ma si stima che il
70-75% della popolazione del delta (oltre 20 milioni) vive con meno di
un dollaro al giorno. Questa situazione costituisce un substrato
ideale per milizie armate, come il Mend (Movimento per l’emancipazione
del delta) sorto a inizio 2006 e molte altre, che rivendicano il
controllo locale delle risorse. I loro metodi sono attacchi al governo
federale e alle compagnie petrolifere, come rapimenti degli impiegati
(come il recente sequestro dei tre italiani e il libanese dipendenti
dell’Agip), ma anche attentati con auto bomba. Vogliono
paralizzare l’industria del petrolio alla quale hanno già fatto ridurre
del 25% la produzione nel 2006.
Motivi di militanza spesso etnica o politica (come anche richieste
d’indipendenza), contrabbando e criminalità comune si intrecciano nella
galassia dei movimenti del delta, rendendo molto difficile districarsi,
e facili le strumentalizzazioni. Le milizie riescono facilmente a
far crescere l’odio verso il governo centrale e garantirsi un supporto
popolare molto utile in questo tipo di guerriglia. Il governo risponde
con la forza, inviando esercito e polizia. Azione poco efficace
in una zona i cui centinaia di fiumi sono impossibili da controllare.
Chi ci guadagna
Mentre nel 1960 era retrocesso ai singoli stati il 50% dei proventi del
petrolio estratto sul loro territorio, questa percentuale è scesa al
13% dopo il 1999 (toccando il minimo di 1,5% durante il governo del
generale Sani Abachi). Una delle rivendicazioni delle milizie del delta
è che questa ripartizione delle risorse sia più equa. Questo non sempre
risolverebbe i problemi della popolazione, perché sono spesso i
governatori corrotti che riescono ad approfittare di queste
retrocessioni.
Tra le altre rivendicazioni c’è spesso la questione ecologica, a causa
dell’impatto negativo dell’estrazione e trasporto del petrolio in
questo fragile ecosistema. Secondo l’Icg per i disastri
ambientali le responsabilità sono condivise, oltre che dalle compagnie,
anche dai ladri di greggio che danneggiano le tubature causando
fuoriuscita di petrolio. Oltre ai danni ambientali questo fenomeno
provoca spesso incidenti devastanti come la recente esplosione a Lagos
(dicembre 2006) che ha causato la morte di oltre 280 persone.
Nonostante la grande instabilità che questi fenomeni di lotta armata
stanno creando, sembra lontano il pericolo di una vera insurrezione
organizzata, anche se questo spettro compare ogni volta si avvicini una
scadenza per il potere.
Chirurgia «mini» per un paese «maxi»
Tutto è cominciato quando un amico mi propose un’esperienza in Nigeria,
presso la Nnewi University nello stato di Anambra, dove nessuno aveva
mai fatto chirurgia laparoscopica (1). Si trattava di partecipare al
primo congresso di chirurgia mini invasiva, durante il quale avrei
dovuto eseguire la prima operazione di quel tipo mai eseguita. La cosa
mi ha entusiasmato moltissimo e senza pensarci su, ho accettato
immediatamente. Io, abituato dal 1987 a missioni in Kenya, Burundi e
soprattutto in Sud Sudan, in condizioni estreme, avrei avuto la
possibilità di agire in un ambiente medico più consono al nostro. Avrei
potuto apportare con questa nuova tecnica chirurgica, già ampiamente e
lungamente utilizzata da noi, una ventata di attualità a tutto
vantaggio dei pazienti.
Arrivato in Nigeria, con tutte le paure, le tensioni emozionali (tutto
sommato fisiologiche), l’orgoglio, la speranza, la felicità, sono
subito entrato in sintonia con la gente e i luoghi, che
sembravano a me già visti e vissuti. È infatti molta la somiglianza con
diverse città e villaggi di altri paesi africani, con le strade
polverose, rossicce e piene di gente e attività.
In ospedale siamo stati accolti molto bene e quasi coccolati.
L’interesse è stato molto alto e durante la mia relazione le domande
non si sono risparmiate. Talvolta con fare polemico, soprattutto dai
ginecologi, che già utilizzano la laparoscopia diagnostica ma non
quella operativa. Si sono visti forse minati nell’esclusività di tale
metodica, con il timore di essere surclassati dai chirurghi generali.
Sono state delle giornate interessanti di scambio di vedute e con
propositi positivi. Abbiamo realizzato delle sessioni di training
simulato, che hanno coinvolto a tuo tutti i partecipanti al
congresso, dimostrando il vivo interesse dei medici locali. Si è infine
passati alla sessione della chirurgia in diretta con dei casi
all’inizio semplici come un caso di colecistectomia laparoscopica
(asportazione della colecisti) e un’appendicectomia laparoscopica
(asportazione dell’appendice). D’altronde in tutto il mondo si è
iniziato con questi due tipi di interventi prima di passare a quelli
più complicati. La sala operatoria era gremita di medici, infermieri e
studenti interessati a questo grande evento (all’inaugurazione ha
partecipato il ministro della sanità). Nonostante questo non sentivo il
peso di tutti quegli sguardi, ma la leggerezza della voglia di essere
lì. Avevo sì dei timori all’inizio, perché in Nigeria nessuno aveva mai
preparato ferri chirurgici di quel tipo specifico, nessun aiuto
chirurgo aveva mai fatto esperienza su questi interventi. Ma
l’entusiasmo di avere vicino molte persone motivate, mi ha fatto subito
superare ogni difficoltà. Alla fine di tutto però ero stanco. Ma con
una stanchezza «carica» dovuta al fatto che tutto era andato
perfettamente bene e aveva creato immensa gioia e soddisfazione a
pazienti e ambiente medico.
È bello vedere l’entusiasmo e la voglia di andare avanti, anche quando
sussistono problemi sociali e politici come in questo paese. E questo,
secondo me, vale comunque a tutte le latitudini del mondo.
(1) Chirurgia laparoscopica o chirurgia mini invasiva è la tecnica
chirurgica che prevede l’esecuzione di un intervento chirurgico
addominale senza apertura della parete. Ciò avviene attraverso piccoli
strumenti che passano in fori nel ventre e l’intervento viene
visualizzato attraverso un monitor.
Marco Bello e Dario Andreone