L’informaizone? Oligopoli e nuove povertà

Tra lusso e bisogno

L’affermazione delle nuove tecnologie di
comunicazione non ha ridotto il divario tra Nord e Sud. Anzi, ha spesso
prodotto una sorta di nuova «colonizzazione». Chi fa arrivare le
notizie del Sud ai maggiori organi informativi del Nord? Un pugno di
agenzie e di network televisivi del Nord. Con l’arrivo della
globalizzazione, l’informazione si è concentrata nelle mani di grandi
gruppi transnazionali, che guardano soltanto ai profitti, alla Borsa o
a precisi interessi di potere. Un fenomeno che accomuna Nord e Sud del
mondo, ma che mostra le conseguenze più negative nei paesi più poveri.
 

In tempi recenti la Banca mondiale ha ampliato la propria definizione
di povertà. Oltre ai componenti purtroppo diventati classici
(un’alimentazione inadeguata, la mancanza di istruzione, un reddito
basso e via dicendo…) sono stati inclusi anche i seguenti elementi:
«senso di impotenza, mancanza di una voce, vulnerabilità e paura».
Ormai anche un’istituzione del rango della Banca mondiale (notoriamente
più in sintonia con le politiche di crescita economica che con quelle
di sviluppo umano) ha riconosciuto che si può essere poveri anche per
la mancanza di informazione o per l’incapacità di comunicare.
Eppure, nella consapevolezza comune, questa urgenza non è ancora
abbastanza radicata, né tra gli addetti ai lavori (pensiamo ad esempio
alle Organizzazioni non governative, Ong) né tra i professionisti
dell’informazione (giornalisti o altro). Prevale ancora, purtroppo,
l’idea che i bisogni primari (i cosiddetti basic needs) siano soltanto
quelli alimentari o sanitari, mentre l’informazione costituisca un
lusso di cui si possa fare a meno nelle fasi iniziali dello sviluppo.
Forse è per questo che non desta alcuno stupore l’esistenza di uno
squilibrio nello stato dell’informazione tra Nord e Sud: a una
crescente e dominante affermazione delle tecnologie, e quindi del
potere informativo, si contrappone un impoverimento della capacità di
«farsi ascoltare» da parte dei soggetti (paesi, popoli, comunità) meno
dotati di mezzi. Qualcuno ha parlato di una nuova forma di sfruttamento
in cui, alle risorse naturali e alle materie prime, si sono sostituite
le informazioni che provengono dai paesi più poveri. I più audaci si
sono spinti perfino a parlare di «colonizzazione mediatica».

I CIRCUITI INFORMATIVI E GLI OLIGOPOLI
Oggi le quattro maggiori agenzie stampa del mondo gestiscono da sole
l’80% del flusso di notizie: si tratta delle statunitensi Associated
Press e United Press Inteational, della britannica Reuters e della
francese France Press. La quasi totalità delle informazioni provenienti
dal Sud del mondo passa attraverso queste grandi agenzie di stampa
prima di raggiungere i nostri giornali e i nostri telegiornali. Lo
spazio che esse dedicano ai paesi più poveri è stimato intorno al 10 –
30% delle notizie complessive.
L’esclusione di larga parte del Sud dai circuiti informativi è soltanto
una parte del problema. In realtà, l’aspetto più preoccupante è il
crescente predominio e la frequente manipolazione, da parte dei paesi
più ricchi, dell’informazione proveniente dal Sud. Il genere di notizie
di provenienza dal Sud che trovano ospitalità nei nostri mass media
sono generalmente quelle che le grandi centrali di comunicazione (le
poche agenzie inteazionali e i potenti network televisivi) decidono
di trasmettere, secondo una scelta che rispecchia la cultura e gli
interessi occidentali. Inoltre, la distribuzione delle informazioni che
dal Sud riescono a raggiungere il Nord segue ancora criteri che
rispecchiano gli antichi legami coloniali, di fatto ancora operanti: le
notizie provenienti dall’Africa Orientale hanno accesso prevalentemente
ai media inglesi; quelle dell’Africa Occidentale ai media francesi, e
così via.
Gli Stati Uniti sono i primi esportatori di informazione e di programmi
nel mondo; ma occorre ricordare che sono statunitensi anche i sistemi
di controllo, il management, le norme di regolamentazione dei sistemi
televisivi. Sono compagnie statunitensi quelle che hanno assistito, con
la loro consulenza tecnico – organizzativa, la creazione dei sistemi e
degli impianti televisivi di molta parte dei paesi in via di sviluppo.
E questo non ha potuto non incidere anche in termini di influenza
culturale: il fatto di usare una tecnologia concepita in Occidente, con
codici e regole lì predisposte, condiziona il modo di far televisione,
le scelte di linguaggio, la strutturazione dei palinsesti,
l’orientamento verso un determinato pubblico. È quella che Massimo
Ghirelli, nel suo libro L’antenna e il baobab, ha definito la
«vischiosità culturale» dei mass media.

IL MITO (OCCIDENTALE) DELLA «MODERNIZZAZIONE»
Negli anni ‘50, agli albori del concetto di sviluppo, veniva attribuita
un’enorme importanza ai mezzi di comunicazione di massa, identificati
come strumenti straordinariamente efficaci per trasformare una comunità
«tradizionale» in una società «modea». L’approccio adottato era
quello, quanto mai ingenuo, della «modeizzazione»: ai mass media,
cioè, veniva affidato il compito di preparare gli individui a un rapido
cambiamento sociale, a imitazione delle società occidentali.
Oggi risulta difficile comprendere quanto fosse radicata l’idea che
un’adeguata esposizione ai mass media potesse modificare le strutture
cosiddette «arretrate» di vita, di valori e di comportamento esistenti
nelle società tradizionali. Basti pensare che i media furono utilizzati
non solo come agenti, ma anche come indici di modeizzazione nei paesi
in via di sviluppo. L’Unesco (www.unesco.org) giunse addirittura a
stabilire uno standard minimo necessario di disponibilità di mass media
nei paesi in via di sviluppo, più precisamente: 10 quotidiani, 5 radio,
2 televisioni e 2 posti cinema ogni 100 persone.
Negli anni ’60 e ’70 l’enfasi posta sulle capacità, da parte dei
singoli individui, di rinunciare alla tradizione venne sostituita da
una sottolineatura marcata delle barriere sociali, economiche e
culturali. Cominciò a diffondersi la coscienza di quanto fossero
ineguali i meccanismi di scambio, anche relativamente alla risorsa
informazione. Si prese coscienza del controllo pressoché totale del
mondo dell’informazione da parte dell’Occidente. Nell’ottobre 1970,
alla conferenza Unesco di Parigi, per la prima volta si parlò di
«squilibrio dell’informazione», evidenziando la necessità di un «nuovo
Ordine mondiale della comunicazione». Nel 1973, alla conferenza di
Algeri, venne avanzata la proposta di dare vita a un’agenzia stampa dei
paesi non allineati.

LE SCOMODE VERITÀ DEL «RAPPORTO MACBRIDE»
Nel 1980 il processo raggiunse il suo culmine con il Rapporto MacBride
(presentato all’assemblea Unesco di Belgrado), ancora oggi un punto di
riferimento indispensabile per tutti coloro che si occupano di
informazione nei paesi poveri. Esso indicava come obiettivo primario
l’«eliminazione di squilibri e disparità negli strumenti della
comunicazione» e definiva il nuovo Ordine mondiale della comunicazione
come «lo stabilirsi di nuove relazioni derivanti dai progressi
annunziati dalle nuove tecnologie e di cui dovrebbero beneficiare tutti
i popoli».
È importante la caratterizzazione dell’informazione che il rapporto
offriva: «strumento di potere», «arma rivoluzionaria», «mezzo
educativo», «strumento di liberazione o di oppressione»… Dai termini
usati è evidente la sottolineatura del problema del controllo
dell’informazione e dell’influenza da questa esercitata sull’azione
sociale, e sulle diseguaglianze che essa finisce per alimentare e
ratificare, confermando il predominio di chi è più potente e meglio
attrezzato. Un nuovo Ordine mondiale può fondarsi soltanto
sull’uguaglianza dei diritti, sull’indipendenza, sullo sviluppo libero
e autonomo di paesi e popoli.
Il documento suscitò, com’è facile immaginare, polemiche e proteste. Lo
scontro si protrasse per tutti gli anni Ottanta, soprattutto in sede
Unesco, fino a mettere seriamente in crisi l’organizzazione: dapprima
gli Stati Uniti e in seguito la Gran Bretagna decisero di abbandonarla,
con l’accusa di aver trasformato i propri programmi sociali in veicoli
di azione politica, sotto lo sguardo complice dell’Unione Sovietica e
dei suoi satelliti.

«NUOVO» ORDINE O «VECCHIO» DIRITTO?
A partire dagli anni ‘90, il dibattito comincia a perdere le
connotazioni più ideologiche e ad acquistare un certo pragmatismo. La
richiesta di un «nuovo Ordine mondiale della comunicazione» viene
progressivamente accantonata, così come l’obiettivo di giungere a una
completa emancipazione dei media esistenti nei paesi più poveri. La
causa è da ricercarsi nella progressiva degenerazione delle nuove
democrazie, nate con la decolonizzazione, verso sistemi di governo
autocratici e illiberali. Diventa evidente che, all’interno di molti
paesi del Sud, i media rimangono monopolio di regimi autoritari e
l’informazione viene manipolata a scopo di potere.
A conti fatti, si sono rivelate effimere entrambe le illusioni: quella
della modeizzazione (diffusa nel dopoguerra) e quella di
un’automatica funzione di emancipazione, in senso democratico, dei
media (diffusa negli anni ‘70): si sono dimostrati decisivi fattori
fino a quel momento trascurati, perché relativi alla sfera micro
anziché quella macro: chi produce l’informazione, chi sono i formatori
del consenso, quali strumenti di valutazione critica sono disponibili
ai cittadini; e soprattutto, quanti sono i cittadini in grado di
acquistare un apparecchio televisivo, o saper leggere un giornale.
Quando, alla fine degli anni ’90, comincia a porsi con forza il
problema della democratizzazione della comunicazione e del controllo
dell’informazione, è ormai troppo tardi. Il processo di globalizzazione
e le forze del mercato concorrono a sganciare i media dai singoli
governi nazionali e a consegnarli nelle mani dei grandi gruppi di
potere.
La possibilità, da parte di governi e istituzioni, di elaborare
politiche adeguate e di indirizzare i processi in corso si fa sempre
più esigua, anche perché l’informazione perde gradualmente il suo ruolo
di «bene pubblico» e viene progressivamente privatizzata. Domina una
sola legge, quella del rendimento, e i media sono ormai diretti da
manager spesso interessati solo ai profitti e alle quotazioni in borsa
dei titoli.
Esiste poi una preoccupante tendenza verso la concentrazione dei media,
legata alla diffusione di economie neo-liberiste e allo sviluppo
tecnologico. L’enfasi su un contenuto orientato al profitto, e
alimentato dalla pubblicità, ha già portato a una diminuzione del
ventaglio delle possibilità di scelta e a una perdita di spazio per il
dibattito informativo. Anche lo spettro audiovisivo, che è di dominio
pubblico, è sotto l’assedio degli interessi commerciali. Alle persone
comuni è reso sempre più difficile l’accesso a canali mediatici
indipendenti e a visioni alternative del futuro.
Per i paesi del Sud si apre una nuova sfida: non più soltanto
l’obiettivo di un’informazione più equilibrata e più rispondente ai
loro bisogni, ma la difesa del «diritto all’informazione», ovvero la
possibilità di accedere liberamente a questa preziosa risorsa. •

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro