La rete strappata

Le mani sulla Rete (1)

È possibile spegnere internet? Per alcuni di noi questa domanda è
semplicemente inconcepibile. Siamo troppo abituati a pensare alla
«grande rete» come al simbolo stesso della libertà e della democrazia.
Inteet è una realtà volatile e diffusa, che oltrepassa le singole
realtà geografiche o le giurisdizioni territoriali: tentare di
esercitare un effettivo controllo rappresenta uno sforzo titanico, tale
da far impallidire la mitica fatica compiuta da Ercole per abbattere
l’Idra di Lea: internet è un gigante che possiede ben più di dodici
teste e, quando ne abbiamo abbattuta una, altre mille sono pronte a
spuntare in qualunque angolo del mondo.

Dove la Rete è prigioniera
In realtà, molti governi, lontani dai riflettori dell’opinione
pubblica, hanno ormai rivolto lo sguardo verso la rete, cercando di
frenare il crescente protagonismo di uno strumento che, forse troppo
frettolosamente, era stato incaricato di aprire la strada a una
rivoluzione democratica. E così, nei pochi anni di esistenza della
Rete, hanno potuto svilupparsi metodi raffinati e variegati per
esercitare il dominio e la censura. Secondo Reporters sans frontières,
13 paesi del mondo possono essere qualificati come veri e propri
«nemici« di questo medium. Si tratta di una «lista nera» piuttosto
eterogenea, che non risparmia alcuna area geografica e che è del tutto
priva di qualsiasi pregiudiziale di natura ideologica.
Una parte di questo poco invidiabile gruppo è composta dagli stati più
autoritari, quelli che, senza troppi scrupoli, proibiscono l’accesso a
internet. La Corea del Nord, per esempio, ha scelto la strada
dell’isolamento totale, rifiutando l’installazione di provider al suo
interno. Altri paesi, come il Myanmar, pur connessi alla rete, hanno
quasi raggiunto l’obiettivo di bloccarla interamente, restringendo
l’accesso degli utenti a una manciata di siti consentiti: circa 800
siti inteazionali, più una dozzina disponibili nella rete intea del
paese. Ciò equivale a costringere gli utenti a «navigare in una
pozzanghera».
Ci sono alcuni paesi che, in forma più subdola, consentono l’accesso a
internet, ma lo limitano alle persone di fiducia, che vengono
debitamente autorizzate dopo avere subito rigorosi controlli. È il caso
di Cuba, il cui governo esercita un controllo ferreo sull’accesso. In
tutto il paese esiste un solo cybercaffè pubblico, aperto in seguito
alle necessità del turismo e il cui prezzo è di 5 dollari l’ora, la
metà del salario medio mensile dei cubani.
A frenare l’accesso concorrono certamente cause che non si possono
ricondurre direttamente ai governi: per esempio, i costi eccessivi
della tecnologia. Tuttavia, queste difficoltà vengono spesso mantenute
artificialmente dai governi, a scopo di controllo. In Kazakistan, per
esempio, gli operatori devono pagare costi di utilizzazione e di
connessione assolutamente proibitivi, che scoraggiano queste attività.
Anche la presenza di monopoli di stato nel settore delle
telecomunicazioni è un problema oggettivo: in Sudan lo stato controlla
tutte le connessioni alla rete attraverso Sudanet, l’unico rudimentale
provider statale.
Che cosa si voglia effettivamente controllare, non è difficile capirlo…
In Sierra Leone, nel contesto di una campagna di repressione nei
confronti della stampa critica, le autorità hanno attaccato anche un
giornale online e hanno arrestato due giornalisti. Uno dei casi più
clamorosi è stato quello della Bielorussia che, in vista delle elezioni
presidenziali del 2000, peraltro costellate di brogli e di
irregolarità, ha fatto chiudere tutti i siti dell’opposizione. Metterli
a tacere è stato un compito facile, visto che nel paese esiste un solo
provider, ovviamente statale.

Dal filtraggio dei contenuti ai «dissidenti telematici»
Ad un livello di maggiore sofisticazione, si sfruttano le possibilità
offerte dalla tecnologia. Il filtraggio dei contenuti è una di queste
e, come è facile immaginare, è operato in base a motivazioni
squisitamente politiche. Ma non si deve sottovalutare il fatto che, in
molte aree del mondo, prevalgono le componenti culturali. Il pericolo
rappresentato da internet per i precetti della religione di Allah è il
pretesto usato da molti paesi del Medio Oriente per giustificare la
censura. Nell’Iran i provider sono costretti a bloccare i siti
«immorali» o quelli che «minano» la sicurezza dello stato, cosicché gli
studenti iraniani di medicina, tanto per fare un esempio, non possono
collegarsi a pagine web che parlino di anatomia. Nella ricca Arabia
Saudita tutto il traffico transita nei server di un gigantesco sistema
di filtraggio chiamato «Djeddah»: esso impedisce completamente
l’accesso ai siti che propongano «informazioni contrarie ai valori
islamici». È appena il caso di osservare che una tale «salvaguardia«
dei valori islamici è operata servendosi quasi esclusivamente di
tecnologia coercitiva proveniente dall’Occidente.
Sebbene sia evidente la pretestuosità di certi argomenti, è indubbio
che alcuni paesi, soprattutto quelli del continente asiatico, siano
caratterizzati da una notevole diversità culturale e da sistemi di
valori distanti da quelli occidentali, ritenuti una minaccia. In Cina
il governo ha vietato l’installazione di Inteet caffè a meno di 200
metri dalle scuole, e questo la dice lunga sul timore di una
contaminazione culturale occidentale.
Proprio la Cina è il paese in cui le restrizioni poste a internet
toccano il vertice. In questo paese vige un rigoroso monitoraggio degli
utenti, costantemente vigilati da corpi politici speciali appositamente
incaricati. Le chiusure di Inteet caffè sono all’ordine del giorno,
con il pretesto della scarsa sicurezza dei locali: del resto, è vero
che porte e finestre vengono frequentemente bloccati dall’interno
proprio per evitare i controlli improvvisi degli agenti governativi. In
Cina esiste una vera e propria «cyberpolizia», formata da tecnici
specializzati incaricati di vigilare sul software in dotazione negli
Inteet caffè e sul comportamento degli utenti, non esitando a violare
la confidenzialità della posta elettronica.
Come non bastasse il rigido controllo poliziesco, la Cina utilizza a
pieno regime anche gli strumenti giudiziari. Ai «dissidenti telematici»
vengono comminate pene durissime. Dal gennaio 2001 l’invio di materiale
clandestino o «reazionario» attraverso la Rete viene punito perfino con
la pena capitale.

GianMario Schiesaro

GianMarco Schiesaro

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