Dio Padre è giiusto perché misericordioso
Con questa 7a puntata iniziamo la spiegazione, versetto per versetto, della parabola raccontata da Lc 15,11-32, a cominciare dal titolo.
Il più diffuso è: «Parabola del figliol prodigo»1. L’espressione non appartiene al testo biblico, ma è messo dagli editori come sintesi del brano. Non è un titolo sbagliato, ma è impreciso e povero, perché riduce l’immensa ricchezza della parabola a un solo aspetto, per altro marginale: la prodigalità spensierata del figlio lontano da casa.
Sono stati proposti molti titoli per questa parabola, che però non si lascia imbrigliare in una definizione sintetica. La prima edizione della Bibbia della Cei del 1971 titola: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il “figlio prodigo”», cercando di salvare e superare al tempo stesso il titolo tradizionale, ma travisando così la figura del figlio maggiore, che non è affatto un figlio fedele. La seconda edizione del 1997, infatti, cambia il titolo nel più comprensibile «Parabola del padre misericordioso», mettendo in evidenza il cuore del racconto, ma lasciando in ombra l’elemento della «giustizia», che è essenziale nel pensiero lucano.
Bruno Corsani e Carlo Buzzetti nella edizione bilingue (greco-italiano) del NT titolano: «Parabola del figlio ritrovato»3, che è parzialmente vera, ma non dice il cuore della parabola. Helmut Gollwitzer titola «La gioia di Dio»4 e in questo modo sintetizza tutto il capitolo alla luce del tema della gioia (gr.: charà/chàirê) presente espressamente 6 volte in tutto il capitolo 15 (vv.5.6.7.9.10.32; cf anche v. 23). Gérard Rossé sceglie un titolo neutro, da scoprire: «La parabola del padre e dei suoi due figli»5, senza alcuna implicazione preventiva. Noi proponiamo di chiamarla: «La parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso». È un titolo lungo, ma offre la chiave di lettura per entrare nel cuore di Dio il cui mestiere è il perdono. Sappiamo, però, che si continuerà a chiamarla per abitudine e comodità «parabola del figliol prodigo».
La sezione della «giustizia»
Prima di cominciare l’analisi dei versetti, è necessario ribadire che quando si legge questa parabola bisogna avere ben presente l’inizio e la fine della sezione in cui Lc colloca il racconto: la sezione comprende da 15,1 fino a 17,10 e tratta della «giustizia di Dio», in contrapposizione a quella degli uomini. Questi emettono sentenze e condanne secondo criteri di eguaglianza, per lo più di convenienza; Dio al contrario esercita la giustizia di Padre e di Madre per recuperare sempre i figli del suo amore.
In Lc 15,1 come abbiamo già visto più volte, si legge il contesto di riferimento: «Si avvicinavano poi a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre mormoravano [sott. contro di lui] i farisei e gli scribi, dicendo». A conclusione della sezione in Lc 17,1-10 leggiamo che bisogna perdonare il fratello che si pente (v. 3); bisogna perdonare sempre: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu gli perdonerai» (v. 4).
Dall’inizio alla fine, l’orizzonte è dominato dai pubblicani, dai peccatori e dal perdono senza condizioni e senza misura. Perdonare è soltanto amare a perdere, senza chiedere nulla in cambio. Un perdono che pone una condizione (ti perdono, se fai questo o quello… se ti comporti così… se non lo fai più…) non è un perdono, perché manca la caratteristica della gratuità: non ti perdono perché lo meriti, ma perché io ho sperimentato la misericordia di Dio e la rendo visibile, le do un corpo offrendolo a te, realizzando così la preghiera del Padre nostro: «Padre, … perdona a noi i nostri peccati affinché anche noi possiamo perdonare a ogni nostro debitore» (Lc 11,4).
Il perdono di Dio diventa fondamento del perdono reciproco degli uomini e il perdono vicendevole degli uomini diventa il «sacramento» visibile della misericordia di Dio. A differenza di Lc, Mt userà una prospettiva diversa: «Padre, …perdona a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (6,12): impegniamo il perdono di Dio a condizione che «prima» noi abbiamo già perdonato. Le due prospettive s’integrano e si rafforzano.
Le coppie in contrasto
L’orizzonte in cui si colloca la parabola è duplice: da una parte la coscienza di essere peccatori (Lc 15,1-2) e dall’altra la certezza della misericordia (Lc 17,3-4). Gesù non fa un discorso morale né assume l’atteggiamento di giudice. Egli guarda al cuore della persona e cerca ogni mezzo perché entri nella dinamica della tenerezza di Dio, «perché nulla vada perduto di ciò che mi ha dato» (Gv 6,39).
La parabola, in quanto modello letterario, veicola un insegnamento generale, per cui il suo messaggio è valido sempre, anche per noi oggi. Sia l’inizio che la fine dell’intera sezione della «giustizia» mettono in contrapposizione due gruppi di persone con i loro atteggiamenti e sentimenti. I vv. 1-2 hanno una struttura incatenata:
1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e peccatori per ascoltarlo,
2mentre mormoravano i farisei e gli scribi, dicendo…
(sott. contro di lui)
Due vv. appena per mettere in evidenza tre contrasti: 1) pubblicani-peccatori si contrappongono a farisei-scribi;
2) i primi sono considerati lontani e impuri, ma si avvicinano a lui, mentre farisei-scribi, che dovrebbero essere vicini (almeno per professione), sono molto lontani e mormorano contro di lui, perché agisce fuori dai loro schemi: non sanno superare il loro limite; 3) i pubblicani-peccatori si dispongono ad ascoltare, cioè a entrare in sintonia di cuore e di anima; al contrario dei farisei-scribi, che parlano per condannare e disprezzare, «dicendo: Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
È il capovolgimento radicale delle situazioni: chi crede di credere è ateo, chi è stato giudicato ateo e gettato fuori invece è credente, è parte della chiesa. Lo stesso atteggiamento troviamo in Mc 3,31-35, quando Gesù accredita come «sua famiglia» non quella di sangue, ma quella di «elezione»: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli, e stando fuori, lo mandarono a chiamare… Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno [cioè dentro], disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre». Anche qui la contrapposizione è tra «fuori» e «seduti (dentro)».
Lo stesso clima si respira alla fine della sezione dove la contrapposizione è tra chi ascolta e chi deve ricevere il perdono: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu perdonalo/gli perdonerai» (17,4). Gesù usa l’imperativo alla 2a persona singolare, allo stesso modo di Yhwh quando trasmette i comandamenti a Mosè sul Sinai (Es 20,2-17; Dt 5,6-21).
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova. Il perdono è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1,1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo.
Solo all’interno di questo clima possiamo accostarci alla rilettura della parabola prendendo coscienza che essa è stata scritta apposta per ciascuno di noi e ora la ri-leggiamo come se fosse la prima volta. Non ci limitiamo solo a una esegesi fredda e scientifica, ma cercheremo di danzare insieme alla Parola, evocando tutto ciò che essa suscita in noi, per la nostra vita spirituale e di preghiera.
V. 11a: «E disse»
L’espressione solenne e maestosa, propria del verbo principe della narrativa, «e disse» apre la parabola come al v. 3 apriva quella del pastore e della donna. Il soggetto sottinteso di tale verbo è Gesù, che è nominato in 14,16 e poi si passa direttamente a 17,11: in tutto il capitolo 15 Gesù non è mai nominato nemmeno come «narratore».
Questa assenza letteraria mette maggiormente in evidenza la sua Presenza come «Parola» che annuncia il «vangelo della misericordia giusta» di Dio, quasi a volerci insegnare che non dobbiamo fermarci mai alle apparenze, se vogliamo cogliere il cuore dell’altro. Dio è «Assente-Presente», discreto e silenzioso, che solo nel più intimo del più profondo di noi stessi e degli altri possiamo incontrare e «vedere». Anche sulla barca in mezzo alla tempesta sembrava dormire, ma al momento opportuno, la sua «Parola» domina le acque e i venti tempestosi (cf Mc 4,35-41).
Nel segno della coerenza. L’espressione «e disse», sia nella linea narrativa principale (come è qui in Lc) sia nella linea secondaria di commento aggiuntivo, nella bibbia ebraica ricorre 2.084 volte, nella bibbia greca della Lxx 2.337 volte, nel NT 125 volte. Una cifra impressionante che mette in evidenza la centralità della «Parola» in tutta la storia della salvezza.
Le due parabole di Lc 15 sono «Parola di Dio», proclamata dal Lògos stesso per dare compimento alla profezia di Isaia, che Gesù fa sua nella sinagoga di Cafaao, quando si appropria della sua personalità di messia della nuova Alleanza: «Mi ha consacrato con l’unzione (= sono il messia) per annunziare ai poveri il vangelo e proclamare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19; cf Is 61,1-2). I poveri a cui va annunciato il vangelo sono i peccatori, reprobi, assassini, ladri, immorali, impuri, gli esclusi, le prostitute e tutte le categorie di persone che il perbenismo di ogni tempo condanna come fecero gli scribi e farisei.
Dabar: parola e fatto. È Dio che parla e annuncia la salvezza del perdono, ma non come proposito od obiettivo, ma come evento che si compie nel momento stesso in cui Lui «dice». Dio, quando parla, crea e realizza quello che dice, come evidenzia il 1° capitolo della Genesi, dove per 10 volte Dio parla «facendo» la creazione: «E disse Dio: “Sia la luce”. E la luce fu» (Gen 1,3; cf vv. 6.9.11.14.20. 24.26.28.29). Dio parla agendo e agisce parlando, perché in lui la parola è fatto, fino all’incarnazione inaspettata del Figlio: «Il Lògos (Parola) carne fu fatto» (Gv 1,14).
È ciò che sperimentiamo nell’eucaristia, dove la Parola che ascoltiamo diventa il pane del nutrimento e il sangue della vita. In ebraico c’è un termine «dabar» che è verbo e sostantivo: significa contemporaneamente sia «parlare/parola» che «fatto/avvenimento». Parola efficace: «Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza avere compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11; cf Dt 32,2; Zc 1,6).
Per gli uomini spesso le parole sono suoni vacui e anche muti: si pronunciano quantità enormi di parole senza dire nulla. Si parla e si resta muti. Si parla, si parla e crolla la comunicazione: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio» (Tagore). La chiacchiera ha preso il sopravvento. Tutti parlano al telefonino, sempre, e ognuno è sempre più solo e isolato.
La parola nasce se qualcuno ascolta. «E disse», posto all’inizio assoluto della parabola, esige un atteggiamento di ascolto profondo, perché la parabola non è un racconto edificante per suscitare pii desideri, ma è la proclamazione della volontà di Dio, che con una parabola annuncia «il vangelo del vangelo», definendo la sua natura di Dio e descrivendo la natura della sua nuova alleanza. Nel momento in cui Dio «dice» la parabola è Lui che sta davanti a noi e ci supplica, ci prega di essere presenti con l’ascolto delle orecchie del cuore.
«E disse» provoca in noi l’eco di Dt 6,4: «Ascolta, Israele!», dove è Dio stesso che «prega» il suo popolo. Ascoltare la Parola è vedere Dio che prega noi perché lo ascoltiamo. Dio che parla la parabola significa lasciarsi sedurre dalla sua «voce», come l’amante del cantico dei cantici, che cerca la «voce» dell’amato e non ha pace finché non si unisce a lui: «Una voce! Il mio diletto! Ora parla il mio diletto e mi dice… fammi sentire la tua voce perché la tua voce è soave…» (Ct 2,8.10.14). Il Targum del Cantico (2,14) mette in bocca a Dio queste parole: «Tu, assemblea d’Israele, che sei come una colomba pura… fammi vedere il tuo volto e le tue opere rette, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, è bello il tuo volto nelle opere buone».
La parabola che Gesù annuncia è un «vangelo», cioè la giorniosa notizia che Dio viene a salvare quello che poteva andare perduto. Quando Dio parla, e Dio parla in Gesù, non è per giudicare e condannare, ma sempre per salvare. Per questo ascoltare Dio è pregare lo stesso Dio che prega noi di fargli «udire» la nostra voce.
vv. 11b-12a: Un uomo aveva due figli.
Il più giovane disse al padre
Questi due brevi vv. hanno una struttura circolare, a chiasmo, cioè a incrocio, perché la prima parola richiama l’ultima, la seconda la penultima, ecc.
Protagonisti anonimi. «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Il quadro è immediatamente definito dai protagonisti. Sappiamo che c’è «un uomo» anonimo, come è abituale nel vangelo, dove tutti i personaggi delle parabole o dei miracoli sono anonimi, tranne il mendicante Lazzaro (in ebr. Dio aiuta; cf Lc 16,20) e il cieco Bartimeo (in aramaico Figlio di Timeo; cf Mc 10,46). L’unica volta in cui nel vangelo di Lc si nomina qualcuno, questi è un povero, un mendicante a cui «Dio viene in aiuto» per rendergli quella «beatitudine» che gli spetta di diritto: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Tutti gli altri personaggi sono anonimi, come il pastore che trova la pecora o la donna che ritrova la moneta. È veramente significativo che il vangelo riporti solo il nome di poveri esclusi e ne perpetui la memoria.
L’uomo anonimo della parabola ha due figli e dunque è padre. Un altro padre e due figli troviamo in Mt 21,38, dove s’invertono apparenza e realtà: quello che dice no fa la volontà del padre, mentre quello che dice sì, non la fa. La relazione non è solo contatto, ma condivisione di volontà, di progetti, di sogni, di vita.
Quando si è padri e madri non si è più anonimi, perché i figli sono il nome della nuova identità. Presso gli ebrei quando nasce un figlio, padre e madre perdono il loro nome proprio e vengono indicati e chiamati in riferimento al figlio: «Padre e madre di…» (cf Mc 6,3). Qui è assente la madre, di cui non si fa cenno; ma forse è dietro la tenda che la nasconde come è uso in oriente.
Nella «parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso» l’anonimato s’incarna immediatamente in una relazione: «Il più giovane disse al padre». Nulla di straordinario se un figlio parla col padre e il padre col figlio, se non fosse per ciò che sappiamo sta per succedere. L’accenno al «più giovane», infatti, è un campanello d’allarme, quasi un anticipo che stiamo entrando in un abisso d’iniquità che cercherà la morte della pateità e distruzione della relazione.
La salvezza si fa storia. Chi è questo uomo che è anche «padre»? L’uomo innominato, come avviene in quasi tutte le parabole (Lc 10,30; 13,6; 14,16; 16,1; 19,12; 20,9), è l’immagine di Dio. Qui ha due figli come rappresentanti di tutta l’umanità: gli ebrei, simboleggiati dal figlio più grande, per ora assente, e tutti gli altri popoli, qui rappresentati dal «più giovane». La parabola ha un respiro universale perché riguarda tutta l’umanità.
Prima che scoppi il dramma e si giunga alla conclusione di salvezza, l’evangelista tiene a dirci che siamo «figli» perché quello che sta per succedere riguarda ciascuno di noi. La parabola è per noi e forse è il momento che iniziamo a prendere coscienza di cosa significhi per noi essere figli, prima di immergerci nel mistero che sta davanti a noi. L’anonimato del padre non è casuale, ma induce chiunque legga o ascolti a riempire il vuoto del nome mancante con il proprio nome e identificarsi con uno dei protagonisti, costringendoci a prendere coscienza del nostro cammino di fede: in ciascuno di noi vi sono due figli… il minore… e il maggiore.
Leggiamo nella Mishna giudaica: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore: con le due tendenze, il bene e il male» (Berakot [Benedizioni] 9,5)6.
La parabola del Padre giusto perché misericordioso è la parabola della pateità e della figliolanza che è dentro ciascuno di noi: la parabola infatti narra la storia della salvezza, o meglio annuncia il vangelo della salvezza che si fa storia nella vita di ciascuno di noi e nella storia di tutti i popoli. (continua – 7)
Paolo Farinella