La missione nello spirito di Cristo

16 febbraio: festa del beato Allamano, fondatore dei missionri e missionarie della Consolata

Una lettura del pensiero spirituale del fondatore dei
missionari e delle missionarie della Consolata alla luce della teologia
di San Paolo. Anche oggi l’inviato alla missione è colui capace di
lasciarsi «rivestire» da Cristo e orientare le proprie scelte
di vita apostolica sull’esempio del Maestro.

Chi gode di una certa familiarità con l’insegnamento spirituale di
Giuseppe Allamano sa quanto questi insista sull’importanza della
santità nella vita missionaria. Non tutti, però, si rendono conto di
quanta importanza egli attribuisca alla centralità della persona di
Cristo in questo cammino di santità.
Un altro fattore che balza agli occhi quando ci si avvicina allo studio
della spiritualità che l’Allamano desidera comunicare ai suoi
missionari e missionarie è il fatto che egli non trasmette altra cosa
se non quanto lo spirito ha concesso a lui stesso di sperimentare; in
altre parole, l’insegnamento che l’Allamano offre nasce dalla propria
esperienza spirituale.
Come Gottardo Pasqualetti ebbe modo di rilevare nel breve studio
dedicato alla persona di Gesù Cristo nella vita dell’Allamano, uno
degli elementi fondamentali nel cammino spirituale del fondatore fu,
fin dalla sua gioventù, il costante sforzo di «rivestirsi» di Cristo.
Nella teologia paolina il «rivestirsi» di Cristo si presenta in una
duplice prospettiva. Da un lato, nel battesimo noi siamo rivestiti di
Cristo, cioè, siamo uniti in tal modo alla persona di Cristo che,
usando un linguaggio figurato, potremmo dire che la sua vita invade
tutto il nostro essere: questo lo riceviamo come dono gratuito di Dio.
D’altro lato, chi fu rivestito di Cristo nel battesimo è chiamato
costantemente a rinnovare continuamente questa «vestizione» nella sua
vita, realizzando ciò che per grazia ricevette nel battesimo. Il dono
si fa pertanto impegno esistenziale; l’azione di Dio esige la
cooperazione dell’uomo. Esiste, pertanto, qualcosa che è dato, nel
senso che è già una realtà presente, realtà che però, nello stesso
tempo, è anche aperta al suo divenire.
Davanti alla nuova realtà ontologica, data dalla nuova unione con Dio
in Cristo, diventa quindi pressante l’invito che Paolo fa a
«rivestitirsi» del Signore Gesù. È un caldo invito a impegnarsi
costantemente a imparare da Cristo, ad assimilare il suo modo di
essere, di pensare e di fare, perché ciò che il battesimo realizzò
nella nostra vita possa trasformarsi in una scelta esistenziale. Questa
coscienza appare nitidamente negli insegnamenti dell’Allamano: essere
cristiano significa soprattutto rivestirsi di Cristo. Ogni cristiano
vive una chiamata alla santità, che consiste essenzialmente nel farsi
simile a Lui.
Il 6 di gennaio del 1917, festa dell’Epifania, l’Allamano commenta ai
suoi missionari l’omelia del cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino,
tenuta per l’occasione in cattedrale. Le parole del cardinale lasciano
trasparire preoccupazione di fronte all’indifferenza religiosa la quale
fa sì che molti cristiani vivano la loro fede al minimo, senza
dimostrare entusiasmo e convinzione. L’Allamano completa la riflessione
dell’arcivescovo sostenendo che non basta essere battezzati e
frequentare le celebrazioni domenicali per essere realmente cristiani.
La vita di fede è un’altra cosa. Per potersi dire cristiano è
necessario che l’«uomo intero» sia trasformato a immagine di Cristo.

Questo aspetto della vita di fede, comune a tutti i cristiani, egli lo
applica, con alcune sfumature particolari ai suoi missionari. Il 28
settembre 1920, nella riflessione fatta in occasione della vestizione
clericale di un gruppo dei suoi seminaristi, prende come punto di
partenza un elemento concreto della vita dei missionari della
Consolata. L’istituto da lui fondato ha ormai quasi 20 anni di
esistenza e conosce già una certa espansione: oltre alle missioni del
Kenya, la congregazione di Propaganda Fide ha conferito anche la
missione del Kaffa (in Etiopia) e di Iringa (in Tanzania). I missionari
devono ora confrontarsi con un immenso campo di lavoro e, mossi da zelo
apostolico, sentono la necessità di aumentare significativamente il
personale per rispondere alle rinnovate esigenze della missione. Nello
stesso tempo, le urgenze della missione non devono far rinunziare ad
uno dei principi fondamentali del fondatore: quello della qualità. Non
è tanto il numero che conta, ma l’essere santi, sacerdoti e missionari.

Prendendo come spunto il significato della vestizione clericale, spiega
come questa indichi una certa separazione dal mondo, ma, soprattutto,
l’esigenza di «rivestirsi» dello spirito di Cristo.
In altre occasioni, l’Allamano applica le stesse riflessioni alla vita
missionaria: «Non mi basta essere cristiano, ma missionario; e devo
avere questa intenzione, e non basta volerlo, ma devo avee lo spirito
– e aggiunge – se non abbiamo questo spirito di farci santi a questo
modo, hic non est eius. Saremo ombre, ma non veri missionari» (CS
II,16).
A varie riprese, l’Allamano riprende questa insistenza sopra
l’importanza di conformarsi a Cristo per essere missionario secondo il
modello che lui vuole per i suoi: «Così pure voi, non solo dovete avere
lo spirito di nostro Signore; ma dovete avere i pensieri, le parole, le
azioni di nostro Signore. Voi dovete essere missionari nella testa,
nella bocca e nel cuore». (CS III, 16). E ancora, motivando i giovani a
prepararsi bene per la vita sacerdotale e missionaria, dice: «È questo,
d’ora in poi, tutto il vostro dovere: rivestirsi del Signore Gesù
Cristo» (CS I, 443).
Certamente, l’Allamano vede in Paolo quello che gli piacerebbe vedere
in ciascuno dei suoi missionari. Perciò ricorda loro una frase
dell’apostolo particolarmente significativa in questo contesto: «Siate
miei imitatori, come io stesso lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1 in CS
III, 31).

Negli insegnamenti dei maestri di spiritualità di tutti i tempi
incontriamo un uso abbondante del linguaggio simbolico o allegorico. Lo
stesso succede con l’Allamano. Nella conferenza tenuta alle missionarie
il 21 febbraio 1920, traccia una bozza del suo cammino formativo.
L’ideale che propone è la santità, attraverso l’assimilazione dello
spirito di Cristo; che questo spirito: «Subito s’impossessi di tutta
l’anima nostra. Pervada: vuol dire che entri nelle nostre vene; faccia
come il pane, che si mangia, si digerisce, poi passa nel sangue e
questo va nelle vene (…). In modo che siamo noi, ma non siamo più noi,
come disse S. Paolo: “Vivo io, non più io, vive in me Gesù Cristo”»
(CSS III, 39). L’Allamano legge questa frase di S. Paolo ai Galati (Gl
2, 20) come espressione di un’unione esistenziale con Cristo tale che
l’apostolo sente la sua vita permeata dal Signore. Grazie alla sua
presenza nella vita di Paolo, Cristo è per l’apostolo un nuovo
principio di azione, parte intrinseca della sua identità e parte
costitutiva del dinamismo della sua personalità. Realtà, questa, che
l’Allamano esprime con la frase: «Farsi una sola cosa – con Cristo»
(CSS II, 304).

Altra frase di particolare interesse fu pronunciata dall’Allamano nella
conferenza alle suore del 1 dicembre 1918: «Affetti. È lì il punto…
Il nostro cuore se vive di fede fa le cose diversamente. S. Paolo era
tutto di Gesù, viveva di Gesù… Vivo, ma non sono io che vivo, è
Cristo che vive in me… Io vivo solamente nel Signore» (CSS II, 432).
In primo luogo, la frase ci mostra che per il fondatore gli affetti
hanno una dimensione particolarmente importante nella vita spirituale.
L’espressione: «Ecco il punto» richiama l’attenzione su un elemento
centrale, di particolare importanza. In secondo luogo, ed è quello che
più ci interessa, con questa frase l’Allamano continua a spiegare la
relazione di Paolo con Cristo. Dato che l’apostolo è visto per Allamano
come un modello speciale che egli invita i suoi discepoli a imitare,
possiamo dire che, in verità, egli si serva di Paolo per parlare della
relazione di ogni cristiano con il Signore. A livello di contenuto, la
frase fa riferimento a una relazione molto intima al punto da poter far
dire a Paolo: «Il Signore vive in me». Così come il cristiano partecipa
di tal forma della vita di Cristo, al punto da poter dire: «Io vivo nel
Signore».

Considerando entrambi questi elementi, così come li cogliamo nei testi
dell’Allamano, potremmo dire che l’esperienza di fede coinvolge la
persona nella sua totalità.  «La nostra fede se non si dimostra
nelle opere è fede morta (…) La fede dev’essere il principio e la
regola dei nostri sentimenti, delle azioni e di tutta la nostra vita»
(CS III, 264). Il che consiste, in primo luogo, in una esperienza di
amore alla persona di Cristo e nell’unione esistenziale con lui; questo
è l’elemento fondamentale dal quale nascono gli altri. Tale elemento
appare di forma particolarmente chiara nella sua conferenza alle suore
del 29 giugno 1917. Punto di riferimento è nuovamente Paolo, l’apostolo
delle nazioni, nel quale individua particolarmente accentuate due
virtù: «Insomma tutte le virtù le aveva, ma le due principali furono:
l’amore verso Gesù Cristo e le anime. Tutti i momenti nelle epistole
nomina Nostro Signore. Lo nominava con gusto, si vedeva che per lui era
tutto… Diceva: “Non sono mica io che vivo, io sono un fantasma, è
Gesù Cristo che vive in me”» (CSS II, 104).
L’Allamano, pertanto, riconosce in Paolo un cuore che vibra per il suo
Signore e questo amore costituisce un motivo fondamentale della sua
adesione a lui. Il suo è un amore totale e viscerale, per Cristo e per
l’umanità (CS III, 115). L’Allamano coglie la centralità di Cristo
nella vita di Paolo, il fondamento, a partire dal quale l’apostolo
organizza tutta la sua esistenza. Da questa relazione, come normale
conseguenza, nascono le opere. Quando Cristo vive in noi in forma
permanente, la sua presenza viene automaticamente resa esplicita dal
nostro agire (CSS II, 105). Ciò significa che, vivendo in noi, Cristo
agisce in noi e attraverso di noi (CSS I, 420).
Dentro questa prospettiva del «rivestirsi di Cristo», ci sono alcuni
elementi verso i quali Allamano orienta in modo particolare
l’attenzione dei suoi missionari.
Innanzitutto, nota come Cristo viveva in forma armoniosa un’intensa
attività apostolica e un’intensa intimità con il Padre, manifestata in
modo particolare nel silenzio e nella orazione (CSS I, 265).
In secondo luogo ricorda che lo stesso Gesù chiese di essere imitato
nell’umiltà e nella mansuetudine: «Imparate da me che sono mite e umile
di cuore». Sottolinea come  la mansuetudine abbia caratterizzato
costantemente tutto il ministero apostolico di Cristo e vuole che
diventi un’attitudine che marchi vita e attività dei suoi missionari:
sa, l’Allamano, che qualsiasi tipo di violenza costituisce un ostacolo
per l’evangelizzazione.
Terzo, il fondatore si associa alla meraviglia delle tante persone che
presenziando quanto Gesù realizzava nelle sue opere, pieni di
ammirazione esclamavano: «Ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37).
Nell’esegesi attuale si identifica questa frase dell’evangelista Marco
come un’allusione al libro della Genesi (Gen 1,31), attraverso la quale
l’autore vuole presentare l’opera di Gesù come una nuova creazione. Le
parole dell’Allamano non puntano verso questa interpretazione. Al
contrario, mettono in evidenza il fatto che, dall’incarnazione al
Calvario, Gesù vede tutta la sua vita in perfetta sintonia con la
volontà del Padre. Per questa ragione, il fondatore insiste che «non
basta fare il bene, ma farlo bene; cioè che ogni nostra cosa anche
buona sia fatta nel retto fine e con tutte le circostanze volute da
Dio» (CS II, 669).
Questa frase fa riferimento a due elementi fondamentali: la retta
intenzione e la sintonia con la volontà di Dio. Fare il bene ben fatto
implica un’attitudine spirituale eucaristica: tutte le nostre azioni se
vogliamo farle bene dobbiamo farle per lui, con lui e in lui (CSS II,
305).
«Far bene il bene» si riferisce anche alla dimensione materiale delle
opere. Un accumulo eccessivo di lavoro, per esempio, può impedire di
fare questo lavoro bene. A questo riguardo, l’Allamano si mostra
contrario ad assumere territori di missione sproporzionatamente estesi.
Vuole, invece, che i suoi si limitino a prendersi cura di territori a
cui possano poi offrire adeguata assistenza. Non gli importa che siano
fatte molte cose, ma che quello che si fa sia fatto bene.
Quando l’Allamano parla di «imitazione di Cristo», non intende una
copia materiale del suo comportamento o una mera ripetizione delle sue
azioni. Questa espressione indica, al contrario, un’intima
partecipazione del cristiano alla vita di Cristo e, nello stesso tempo,
di Cristo nella vita del cristiano.
Molte volte, suggerisce ai suoi che si chiedano: «Che cosa farebbe
Cristo se si trovasse al mio posto?». Questa domanda, nella sua estrema
semplicità, riconosce che la vita cristiana esige un costante
discernimento. Spinge a conoscere il cuore di Cristo, il suo modo di
sentire e di relazionarsi con la vita, con gli altri e con il Padre,
facendo proprie le sue attitudini fondamentali. Saranno poi esse a
determinare il nostro comportamento nel contesto in cui viviamo,
inevitabilmente diverso da quello in cui visse Gesù e, quindi,
bisognoso di un approccio differente.
In altre parole potremmo dire che vivere di forma adeguata
all’esperienza di rivestirsi di Cristo comporta, in primo luogo,
l’assumere pienamente la dimensione storica della propria esistenza.
Ciò vuol dire che il cristiano vive inserito nel suo tempo, nel suo
mondo ma, nello stesso tempo, in costante riferimento alla persona di
Gesù. Questo lo porta a vivere come lui, ma nel proprio contesto
socio-culturale e storico. Un continuo discernimento diventa, quindi,
condizione essenziale per la realizzazione di una vita cristiana.
Questa infatti, per potersi considerare tale, deve essere vissuta non
al margine, ma inserita nelle tensioni e difficoltà caratteristiche
della storia: «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo» (Mt
5,13).
Gesù, Dio e uomo, non rifiutò nulla di quello che è pienamente umano.
L’incarnazione mostra che non esiste opposizione fra il mondo di Dio e
il mondo degli uomini e qualsiasi tipo di dualismo che tenda ad opporsi
a queste due realtà non è autenticamente cristiano. Senza perdere di
vista che il tempo ancora deve raggiungere la sua pienezza e solo
allora la configurazione con Cristo risuscitato sarà pienamente
raggiunta. 

Luiz Balsan

Luiz Balsan è un missionario della Consolata brasiliano; dottore
in teologia, professore di spiritualità, attualmente è rettore del
seminario filosofico della Consolata di Curitiba. Collabora alla
rivista Missoes.

Abbreviazioni:
CS: Conferenze Spirituali
CSS: Conferenze Spirituali alle Suore

Luiz Balsan

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