L’assassinio di Anna nella Russia di Putin

Riflessioni di un osservatore privilegiato

Perché l’opinione pubblica russa accetta con indifferenza gli abusi del presidente-padrone? Quando il nazionalismo paga più della democrazia…

Non è un caso, forse, che un personaggio come Anna Politkovskaja, la giornalista assassinata il 7 ottobre 2006, avesse finito per svolgere un ruolo da attivista, salvando molte vite con le denunce contenute nei propri articoli. Attenta alla violazione dei diritti civili e umani, era una delle poche voci libere nella Russia di Vladimir Putin, dove i media che contano sono controllati dagli oligarchi dell’economia, strettamente legati al Cremlino. L’omicidio di questa coraggiosa giornalista ha segnato una svolta nella storia della Russia dei nostri giorni, il punto di arrivo di un processo di involuzione che ha avuto nel presidente Vladimir Putin e nella sua corte di personaggi provenienti dai servizi segreti, il Kgb, i principali artefici. Tuttavia neppure la morte di Anna, ha fatto traboccare il vaso dell’opinione pubblica russa. Perché?

Per cercare di capire occorre risalire alla «seconda rivoluzione russa», quella che il paese tuttora vive, dopo che – Natale 1991 – fu ammainata la bandiera rossa dalla cupola del Cremlino che sovrasta il mausoleo dove ancora è ospitato il corpo di Lenin. Cominciò con quella  liberalizzazione dei prezzi che subito diventò l’immagine più eloquente dell’implosione dell’Urss. Per primo era rincarato il pane di 6 volte, smuovendo riflessi automatici e primordiali in una cultura contadina come quella russa. Il suo prezzo era fermo dal 1954, così come quello dello zucchero e dell’olio, in un blocco artificiale che aveva impedito ogni rincaro anche per il latte e la carne.
L’impennata del costo del pane aveva funzionato come simbolo, scatenando l’allarme in quella Russia in cui l’ospite riceve ancora oggi il sale e il pane come segno di rispetto delle famiglie che lo accolgono, così come in Asia Centrale nessuno taglia mai la focaccia con il coltello, ma tutti aspettano che il più anziano la spezzi con le mani. Cae e latte che costavano il triplo erano diventati il segnale concreto e terribilmente eloquente in un paese in cui il cibo è ancora oggi politica, i capi vengono ricordati in base ai sapori perduti e l’approvvigionamento rimane ancora oggi la misura di un’epoca.
La transizione all’economia di mercato faceva fatica a decollare, sicché il deficit alimentare che aveva già raggiunto la soglia della tollerabilità sociale rischiava di appesantirsi mentre i giornali, ricordo, tentavano di diffondere le idee del libero capitalismo, di stimolare l’iniziativa privata. Lo slogan «rivoluzione economica» era ripetuto nelle università, nei giornali, alla televisione, come se fosse dietro l’angolo la fine dell’economia nata col bolscevismo, stravolta dai piani quinquennali, affondata dalla gestione burocratica. Una speranza ossessiva collegava tuttavia intimamente i governanti di allora ai nuovi economisti, e cioè che prima o poi sarebbe naturalmente scattata quella legge dello sviluppo ineguale e combinato, secondo la quale l’arretratezza può essere uno stimolo che spinge un paese sottosviluppato a saltare con tenacia le tappe intermedie. Legge che era stata teorizzata da Lev Trockij (1879-1940) negli anni della rivoluzione bolscevica: «i selvaggi rinunciano all’arco e alle frecce per prendere immediatamente il fucile, senza percorrere la distanza che nel passato aveva separato queste armi». E che Che Guevara aveva cercato di applicare in America Latina, con risultati disastrosi. I governanti russi di allora puntavano sul miracolo del risanamento per esportarlo nelle altre Repubbliche ex sovietiche. Così, la Russia che aveva perduto di colpo la sua supremazia, poteva riprendere la sua missione storica davanti ai popoli dell’ex Impero, offrendo sé stessa come esempio di emancipazione dopo essere stata per quasi due secoli esempio d’oppressione.
A rassicurarli c’era un ben altro precedente storico che con l’evidenza dei fatti aveva anticipato, due secoli prima quella teoria: la rivoluzione di Pietro il Grande che con un colpo storico di cesoie strappò la barba orientale dal mento della Russia ortodossa e contadina costringendola ad aprirsi all’Occidente; che fece emergere dal vuoto la prima città europea dell’impero, San Pietroburgo; che già nel 1718 riuscì a far fondere 30mila tonnellate di ghisa, mentre l’Inghilterra, matrice della rivoluzione industriale, arriverà alle 20mila tonnellate appena nel 1740. Sicché Pietro il Grande aveva potuto offrire all’Europa esterrefatta la visione di un improvviso quanto gigantesco balzo in avanti. Sebbene, come scrisse lo storico Karamzin, San Pietroburgo fosse stata costruita «sulle lagrime e sui cadaveri».
Dunque due secoli dopo, la grande sfida capitalista appariva come l’unico modo per liberare nella società quelle energie che il regime sovietico aveva devitalizzato attraverso i decenni, trasformando i vecchi sudditi zaristi in bolscevichi senza mai farli diventare cittadini. La cosa più paradossale era che il tutto si era svolto nel giro di pochi mesi, in un paese in cui il rapporto tra politica e velocità era qualcosa di totalmente sconosciuto poiché il problema del tempo era stato, per 70 anni, irrisolto, stratificato dai «piani quinquennali» e scandito dagli anniversari che ogni volta lo riportavano al punto di partenza.

Anna Politkovskaja, il testimone scomodo del guasto profondo prodotto dalla guerra cecena e dalla spirale di terrore con la conseguente limitazione delle libertà democratiche che questa ha alimentato, spiegava che la popolarità di Putin era la stessa dei leader sovietici di una volta: le ue piene di voti, ma nessun vero consenso. Succede, poiché all’origine c’è un paese che si sente umiliato dall’aver perso il suo ruolo di superpotenza e che si salda giorno dopo giorno con dosi massicce di un nazionalismo che è più tenace del desiderio di democrazia. Ha delegato a Putin il compito del proprio riscatto assieme al sogno della conquista di un benessere che mai ha conosciuto prima. Anche perché non c’è nessun altro che lo sostituisca: l’opposizione non ha risorse, non ha il sostegno dei network televisivi, e fuori da Mosca è praticamente invisibile. E così, sebbene la libertà di espressione sia calpestata e ben 13 giornalisti siano stati assassinati a Putin  il sostegno popolare non  è venuto meno. Sicuramente lo conserverà ancora per molto.
Anche dopo il cruento assassinio (avvelenamento con il Polonio 210, avvenuto a Londra il 24 novembre 2006) di Alexander Litvinenko, ex agente del Kgb, che – come Anna Politkovskaja – sapeva e parlava troppo.  •

Vincenzo Maddaloni

Vincenzo Maddaloni




Nel ghetto della cronaca

L’immigrazione sui mass media italiani

Quale immagine dell’immigrato viene data dai media italiani? Che linguaggio si utilizza?
Quali situazioni vengono descritte? In Italia i professionisti dell’informazione
sono generalmente succubi degli stereotipi e lontani da quella funzione civile ed educativa
a cui il giornalismo dovrebbe mirare.

Sui mass media italiani l’immigrazione – e con essa la diversità religiosa e culturale – è vista come un problema. La si associa a illegalità, devianza, criminalità o comunque a disagio sociale sia per i protagonisti dei fatti raccontati (i soggetti immigrati, trattati come autori di atti o, meno spesso, come vittime), sia per i cittadini italiani (costretti a «subire» le conseguenze dell’immigrazione). Le fonti che trattano dell’immigrazione, che producono quindi fatti «notiziabili» (neologismo giornalistico, ndr), sono soprattutto quelle istituzionali: forze dell’ordine, magistratura e, quando si tratta di esprimere commenti, classe politica. Gli elementi, le occasioni che rendono gli immigrati soggetti meritevoli di essere rappresentati sulle pagine dei giornali, nei notiziari radiofonici, in Tv o sui siti Web informativi sono gli «sbarchi dei clandestini», le azioni delittuose, i problemi sociali (inserimento sociale difficoltoso, abitazione, credenze religiose), talvolta il lavoro; quasi sempre situazioni, fatti, eventi e casi che creano problemi alla collettività. Se il soggetto immigrato non è un problema – possiamo affermare sulla base delle ricerche – non è «notiziabile», ovvero non interessa ai media.

Il giornalista seduto
L’immagine del singolo soggetto immigrato tratteggiata dai mass media è quella dell’irregolare, del «clandestino», del criminale, di colui/colei che causa insicurezza, ansia, tensione e conflitto. Molto spesso è di sesso maschile; e talvolta è una vittima, ma comunque una vittima che dà problemi. Il taglio giornalistico dato all’informazione sui cittadini stranieri che vivono in Italia è soprattutto quello delle brevi notizie e degli articoli di cronaca. I cittadini immigrati sono «confinati dentro il ghetto della cronaca», per usare un’espressione della ricerca del Censis del 2002 Tuning into diversità, sull’immagine dell’immigrazione nella stampa italiana. I media offrono notizie e articoli senza scavo, senza approfondimento, senza problematizzazione, senza inchiesta, senza indagine, insomma senza ciò che fa del giornalismo una delle professioni più nobili e affascinanti. Le notizie e gli articoli sull’immigrazione nascono, si alimentano di particolari e sono scritti soprattutto al «desk», alla scrivania del giornalista, nel chiuso della redazione, alla stretta dipendenza delle fonti (carabinieri e polizia soprattutto); fonti dalle quali i giornali mutuano il linguaggio.
Il linguaggio con cui sono rappresentati l’immigrazione e i suoi protagonisti impiega il «lessico dell’estraneità»: extracomunitario, straniero, immigrato; oppure albanese, romeno, marocchino, nomade. Si tratta di un linguaggio il quale definisce la persona che «viene da fuori» e continua a restare fuori della comunità. All’estraneità viene associata l’aggressività, la criminalità, l’illegalità, l’irregolarità, caratteristiche – anche queste – che sono fuori di qualche cosa (della calma, dell’ordinario, della legge, delle regole). Quando l’estraneo è una vittima, entra in campo il linguaggio della compassione, della lacrima, dell’intenerimento temporaneo.

Che giornalismo vogliamo?
Lo «straniero» rappresentato dai giornali è afono, senza voce o (quando va bene) con una voce flebile. Non viene mai intervistato, ascoltato; non ha quasi mai diritto di parola o di scrittura, pur in presenza di un giornalismo che ricorre sempre più alla narrazione e alle dichiarazioni – messe fra virgolette – dei protagonisti dei fatti. Senza voce e senza diritto di parola, l’immigrazione sembra non avere neppure una cultura meritevole di essere narrata, se si escludono i casi considerati «curiosi» o le occasioni in cui pratiche diverse (ad esempio, la macellazione degli animali fatta da persone di religione musulmana) sono viste con sospetto o denunciate come fuori della norma.
Quanto sia importante comprendere a fondo – in un quadro pedagogico-interculturale – la produzione giornalistica italiana sull’immigrazione, è Luigi Secco a sottolinearlo. In un suo fondamentale testo sulla pedagogia interculturale, il pedagogista scrive: «La situazione interculturale, in cui si trovano soggetti di diversa provenienza, non può essere risolta dalla scuola da sola. La scuola è sempre un istituto entro la collettività. Lo scolaro passa a scuola un certo numero di ore della giornata; il resto del tempo lo passa in famiglia, nei club di vario genere, sulla strada, ecc. Entra allora urgente e cogente il tema della società educante nel senso più ampio del termine».
La trasformazione sociale della nostra società – con 3 milioni di cittadini stranieri che sono parte attiva del tessuto economico-produttivo ma anche della convivenza civile – richiede un giornalismo all’altezza; capace di leggere, interpretare e offrire ai lettori la «nuova Italia» multiculturale che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, nelle città più grandi e nei piccoli paesi di provincia. Un giornalismo che sia consapevole del proprio ruolo civile ed educativo.

Raccontare le diversità
oltre stereotipi e pregiudizi
Un cambio delle routines redazionali, una diversa organizzazione del lavoro giornalistico con il superamento del fenomeno della «deskizzazione» (lavoro giornalistico svolto stando alla scrivania, ndr), l’impiego di un nuovo linguaggio, la formazione e l’aggioamento dei giornalisti: sono queste alcune delle azioni da compiersi per arrivare ad una stampa «diversa» che sia in grado di raccontare la diversità e l’Italia multiculturale; per un giornalismo che sia «interculturale». Sono gli «uomini macchina» – i giornalisti che lavorano alla scrivania – ad avere una visione meno sensibile, più stereotipata dell’immigrazione.  La routine uccide la professionalità: il ricorso al «formato breve» della notizia, il lavoro al desk che costringe il giornalista a guardare il mondo con una specie di cannocchiale rovesciato che allontana gli eventi, il distacco dalla realtà aggravato dall’abuso di stereotipi linguistici, la perdita di spessore dell’identità giornalistica, portano ad una perdita di credibilità della professione. D’altra parte, il compito primario dei media è di restituire ai lettori una realtà che soddisfi la loro richiesta di comprensione dei fatti che accadono nel mondo e che formi la loro coscienza critica.
Il giornalismo interculturale raccoglie la sfida educativa e – anziché presentare il fenomeno immigrazione con toni negativi, caratterizzandolo come invasione, emergenza, minaccia – cerca di cogliere, di comprendere e di presentare le opportunità, i vantaggi, gli arricchimenti che derivano dalla situazione multiculturale.
Il giornalismo interculturale è quindi disponibilità alla ricerca e al cambiamento, per offrire a lettori assetati di conoscenza le basi per capire la nuova realtà e per interagire con essa. Esso punta all’approfondimento, alla ricerca, all’indagine, al dibattito civile, alla promozione culturale per offrire una rappresentazione del fenomeno immigrazione e dei suoi protagonisti libera da generalizzazioni, stereotipi, pregiudizi e che eviti così ogni forma di discriminazione. Il giornalista interculturale deve dare prova di preparazione professionale e di responsabilità civile, sviluppando attenzione e consapevolezza per il contesto multiculturale in cui si trova a lavorare; considerando la differenza come un bene da tutelare e mettendo in atto un’autentica comprensione di fenomeni, problemi, persone, popoli appartenenti a culture diverse dalla propria.
Si tratta di una professionalità consapevole e rispettosa della diversità etnica; di una professionalità che comprende sia competenze tecniche, sia conoscenze specifiche e inoltre una particolare impostazione mentale aperta al dialogo, al confronto, allo scambio. È così che i mass media possono indirizzare in modo positivo, costruttivo e creativo, opinioni e sentimenti dei lettori verso l’«Altro», il «diverso» e favorire un processo di conoscenza, integrazione e arricchimento reciproco fra persone portatrici di usi, costumi, lingue, tradizioni, religioni e valori differenti.
L’informazione è invece la risorsa basilare per assicurare a ciascuno una prima forma di inclusione sociale. Essa può essere considerata il primo elemento di cittadinanza. I mezzi di comunicazione di massa, grazie alla loro pervasiva presenza nella odiea società globalizzata e al loro ruolo di «scuola parallela», assumono un’importanza fondamentale nell’attuale contesto pluriculturale e multietnico, in quanto possono sia favorire l’inserimento dei cittadini immigrati, sia educare i cittadini autoctoni a dialogare e a comprendere le culture «altre». Ecco che il giornalismo interculturale si impegna a valorizzare la presenza immigrata come risorsa per la società di accoglienza, favorendo la conoscenza, l’accettazione reciproca, l’integrazione e lo scambio fra culture diverse: obiettivi raggiungibili se si seguono i principi fondanti e le indicazioni della Pedagogia interculturale, ben espressi dai testi del pedagogista Agostino Portera; se si acquisisce un nuovo atteggiamento  culturale basato sul rispetto, sull’accoglienza, sul dialogo. Non dobbiamo dimenticare, poi, che nei mass media aperti all’intercultura i cittadini di origine straniera possono trovare una forma positiva di rispecchiamento; una ragione in più per amare la nuova patria dove vivono, per sentirsene parte attiva e costruttiva.

Un nuovo giornalismo
per una società più giusta
Vi è, inoltre, un aspetto di «giustizia sociale» nell’azione del giornalismo interculturale. Come sottolinea Nobre Correia (in Problemi dell’informazione n. 4,  anno 2005), ci avviamo verso una società duale anche in campo mass-mediale: da una parte la grande maggioranza della popolazione che fruirà di mass media gratuiti, fornitori di emozione e intrattenimento senza informazione aggiornata e di spessore su quanto accade nel mondo; dall’altra parte un’élite in grado di pagare per avere un’informazione che foisca gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita e per conservare una posizione di privilegio nella società. Solo un giornalismo «diverso», che non si rassegni alla profezia della sua «morte annunciata», può lavorare per una società che non sia così ingiusta; e può affermare di non volersi arrendere alla discriminazione, allo sfruttamento, all’imbonimento ai danni di chi non ha potere economico e politico per alzare la voce e pretendere condizioni di vita e di comunicazione democratici ed eguali per tutti.
Visione critica del mestiere di giornalista (ma anche del mestiere di autore di fiction e prodotti multimediali), rigore professionale, uso riflessivo della tecnica giornalistica, rispetto dei codici deontologici e sensibilità umana: sono questi i pilastri del giornalismo interculturale. Su questo fronte si gioca la battaglia per avere professionisti dell’informazione – già in servizio o in procinto di entrarvi – capaci di cogliere le sfide di una società pluralistica, complessa, multiculturale e multireligiosa. In questo ambito si pone l’aver avviato, due anni fa,  all’Università degli studi di Verona – grazie al Centro studi interculturali (vedere riquadro) – un insegnamento di giornalismo interculturale che è una novità nel panorama della formazione universitaria. Perché la sfida è quella di avere giornalisti e comunicatori in grado di rispondere in modo adeguato alla sfida – affascinante e inquietante – che la società multietnica ci pone di fronte. 

Maurizio Corte*

(*) Maurizio Corte è professore a contratto all’Università degli studi di Verona, dove insegna comunicazione interculturale e giornalismo interculturale. Collabora da anni al Centro studi interculturali dell’ateneo veronese. Gioalista professionista, lavora al quotidiano L’Arena di Verona. Ha pubblicato «Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale» (Cedam, Padova 2002) e «Comunicazione e giornalismo interculturale. Pedagogia e ruolo dei mass media in una società pluralistica» (Cedam, Padova 2006).

ll’Università di Verona
Un altro giornalismo è possible

La ricerca sulla rappresentazione dell’immigrazione nei media – affidata a Maurizio Corte – è solo una delle attività svolte dal Centro studi interculturali (Csi) dell’Università degli Studi di Verona, diretto da Agostino Portera, direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione della Facoltà di scienze della formazione e professore ordinario di pedagogia e di pedagogia Interculturale. Il Csi, infatti, promuove e realizza supporti scientifici, culturali e strumenti metodologico-didattici nel campo dell’educazione e dell’istruzione in una società pluralistica e multiculturale. Fra i suoi obiettivi vi sono quelli dell’educazione, dell’istruzione, della consulenza, della ricerca e dell’alta formazione interculturale, in ambito scolastico e dell’extrascuola.
Il Csi collabora con enti, istituzioni, associazioni (pubbliche e private, nazionali e inteazionali), con singoli professionisti accreditati e con istituzioni universitarie italiane e straniere. Il direttore del Centro studi interculturali, Agostino Portera, è membro dell’esecutivo dell’Iaie (Intercultural association for intercultural education) ed è il direttore di due Master promossi e organizzati dal Csi: il Master, con formazione a distanza in «Comunicazione interculturale e gestione dei conflitti» e il Master Fse, con didattica in presenza, in «Comunicazione interculturale nelle organizzazioni e nelle relazioni inteazionali». Entrambi i Master sono proposti anche nell’anno accademico 2006-2007 e si inizieranno a primavera di quest’anno: le informazioni sono reperibili sul sito del Csi. Fra i membri del comitato scientifico dei Master tre studiosi di livello internazionale: Donata Gottardi, professore ordinario di diritto del lavoro, Nicola Sartor, professore ordinario di scienza delle finanze, e Luigi Secco, pedagogista e professore emerito di pedagogia.
«Miriamo allo studio e alla ricerca, nonché alla qualificazione dei percorsi scolastici ed extrascolastici, agli interventi educativi, di consulenza psicopedagogica, di formazione e di specializzazione professionale, così come delle politiche di intervento nel settore interculturale», spiega Portera. «In questo modo, il Csi si propone a livello locale, nazionale ed internazionale, come una struttura che svolge servizi ed attività rivolti a ricercatori e studiosi nel settore della pedagogia interculturale; a educatori ed operatori impegnati nel settore; agli insegnanti; ai giovani laureandi e ai laureati; a professionisti».
Ogni anno il Centro studi interculturali organizza convegni di livello internazionale. Sia l’attività convegnistica che quella di ricerca trovano poi espressione nella pubblicazione di testi scientifici a disposizione della comunità degli studiosi e introdotti nei corsi di pedagogia, di pedagogia interculturale, di comunicazione interculturale e di giornalismo interculturale proposti dall’Università degli studi di Verona. L’ateneo veronese è il primo in Italia ad avere un insegnamento pedagogico di giornalismo interculturale nell’ambito dei due Master organizzati dal Csi e del corso di laurea specialistica in giornalismo della Facoltà di lettere e filosofia.

Centro studi interculturali
Dipartimento di Scienze dell’educazione
Facoltà di Scienze della formazione
Università degli studi di Verona
via Vipacco 22
37129 Verona

Telefono / E-mail / Sito Web:
045.8028147 (dal martedì al giovedì, ore 9.30-13.00)
csi.intercultura@univr.it
http://fermi.univr.it/csint.

Testi di riferimento:
Maurizio Corte
Comunicazione e giornalismo interculturale. Pedagogia e ruolo dei mass media in una società pluralistica
Cedam, Padova 2006

Maurizio Corte
Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale
Cedam, Padova 2002

Agostino Portera
Globalizzazione e pedagogia interculturale
Edizioni Erickson, Trento 2006

L’annuale dossie della Caritas
Avanza l’Italia multietnica

Con 300.000 nuovi immigrati (regolari) all’anno  il nostro paese si sta trasformando. Anche se 4 italiani su 10 li considerano dei criminali.

Qual è la situazione «reale» dell’immigrazione in Italia? La grande stampa italiana – sempre puntuale nel denunciare reati e crimini commessi da persone di origine straniera – ne ha parlato poco e male quando, lo scorso ottobre, si è trattato di presentare i dati del Dossier Caritas-Migrantes sui migranti in Italia, giunto alla sedicesima edizione («Al di là dell’alternanza»). Eppure si tratta di numeri che interessano cittadini, educatori, operatori sociali, imprenditori e professionisti dell’informazione e della comunicazione. Infatti, senza cittadini immigrati la situazione economica e sociale italiana sarebbe destinata al disastro: fra 15 anni, i lavoratori italiani giovani (entro i 44 anni) saranno diminuiti di 4.500.000. E senza persone di origine straniera, nel 2050 l’Europa, vedrebbe diminuire di 7 milioni la popolazione nel suo complesso e di 52 milioni la parte di popolazione in età da lavoro. 
Con un ritmo di 300 mila nuovi ingressi regolari l’anno, rivela lo studio della Caritas, l’Italia è sempre più multietnica. Il nostro paese supera, in percentuale, gli ingressi di immigrati regolari negli Stati Uniti. Gli attuali 3.035.000 regolari (l’incidenza con la popolazione italiana è del 5,2%) – stimati a fine 2005 – sono destinati a diventare entro 10 anni il doppio, oltre 6 milioni (10%). È lo scenario che emerge dal Dossier 2006.

Quanti sono? – Nel nostro paese c’è un immigrato ogni 20 italiani. L’Italia, che a fine 2005 conta così tanti immigrati quanti più o meno sono gli emigrati nazionali all’estero (3.150.000) si colloca al terzo posto in Europa per numero di immigrati regolari, dopo la Germania (7.287.980) e la Spagna (3.371.394).
Ogni 10 stranieri, 5 sono europei, 2 africani, 2 asiatici e 1 americano. Dall’Europa, spiccano in primo luogo i cittadini albanesi e gli ucraini mentre dall’Africa, i cittadini marocchini.
Nel 2005 sono nati 52 mila bambini da genitori stranieri ed hanno inciso per il 9,4% sulle nuove nascite. Le donne straniere hanno una percentuale di divorzio superiore alle italiane: 2,5% contro l’1,7%. Il 50,1% dei migranti che vivono in Italia è uomo, il 49,9% è donna. Per il 70% (contro il 47,5% degli italiani) si concentrano nella fascia di età 15-44 anni.
La Lombardia conta la maggior presenza di persone di origine straniera: ospita quasi un quarto del numero complessivo di cittadini immigrati. Roma e Milano detengono, rispettivamente l’11,4% e il 10,9% della popolazione straniera. Al Nord si trova il 59,2% degli stranieri, al centro il 27% e nel meridione il 13,5%.
Un occupato ogni 10 è straniero. Ogni anno si inseriscono nel mondo del lavoro quasi 200 mila immigrati. Lo scorso anno sono stati 727.582 i nuovi assunti su complessivi 4.559.952. I settori maggiormente coinvolti: collaborazione familiare, servizi di pulizia, edilizia e agricoltura. Sono 130.969 i cittadini stranieri titolari d’azienda, con un aumento del 38%.

A quale religione appartengono? – Il 49,1% dei cittadini immigrati sono cristiani (circa un milione e mezzo), il 33,2% sono musulmani (circa un milione), il 4,4% è legato a religioni orientali. In 5 anni sono raddoppiati i minori di nazionalità straniera: sono 586 mila, pari ad 1/5 della popolazione straniera, un’incidenza superiore a quella degli italiani. Il 56% è nato in Italia.

Quanti delinquenti? – Quattro italiani su 10 pensano che i migranti siano criminali. Non è vero, dice il Dossier della Caritas. Dati del ministero dell’interno dicono che i denunciati per qualche reato coinvolgono gli immigrati solo nel 10% dei casi, la metà di quella degli italiani.
Otto cittadini immigrati su dieci dicono di aver migliorato la loro vita in Italia. Il 91% ha il cellulare, l’80% possiede il televisore, il 75% invia rimesse in patria, il 60% possiede un conto in banca, il 55% ha un’auto, il 22% un computer. Circa il 20% è proprietario della casa.
Nel 2005 l’efficacia degli allontanamenti dalle frontiere italiane è stata una delle «più basse degli ultimi anni». Le persone effettivamente rimpatriate sono state il 45,3% di quelle che hanno ottenuto il provvedimento di allontanamento, contro il 56,8% dell’anno precedente.

Maurizio Corte

Sfogliando s’impara

Dal quotidiano «Libero»:

«Dialogo a senso unico
Sui banchi di scuola si studia l’islam. Grazie alla Cattolica»

«Per promuovere il dialogo tra le culture, all’Università cattolica del Sacro Cuore si sono convinti che, nelle scuole italiane, non si debba più insegnare la lingua di Dante, ma l’arabo. Lo strano metodo pedagogico per facilitare l’integrazione degli exracomunitari è stato  ideato dal Laboratorio interculturale e promosso, oltre che dalla Cattolica, dall’Ufficio Scolastico Regionale e sostenuto finanziariamente con il contributo della Fondazione Cariplo. (…)
In Largo Gemelli, a due passi dalla Basilica di Sant’Ambrogio, in effetti, di sostanza ce n’è in abbondanza da suggerire di mutare il nome dell’istituzione in Ateneo islamico della Mezzaluna. In attesa che un mullah rimpiazzi il Magnifico Rettore».
Andrea Morigi
(Libero, martedì 21 novembre 2006, pag. 48)

Dal quotidiano «la Stampa»:

«Una coppia di tossici terrorizza una famiglia
I domestici romeni la liberano e bloccano i rapinatori»

«Ancora violenza. Stavolta in una brutale rapina consumatasi in una palazzina fra i prati di Pino Torinese. Autori una coppia di italiani che hanno colpito e immobilizzato una ragazzina di 15 anni, prima di essere bloccati dal generoso intervento dei custodi, una coppia di romeni. (…)
Carlotta s’è messa ad urlare e l’hanno sentita i custodi romeni, che vivono in un alloggio adiacente, Elena e Vasile Zaharia, 45 e 48 anni, entrambi originari di Bacau, sono subito intervenuti.  (…) Il malvivente ha fracassato alcune suppellettili e con la gamba di un tavolo ha colpito Vasile al collo e in faccia, poi ha sferrato un calcio alla moglie, Elena. La lotta è durata alcuni minuti: alla fine, la coppia romena è riuscita ad immobilizzare l’energumeno (…)».
Angelo Conti
(la Stampa, domenica 26 novembre 2006, pag. 65)

Maurizio Corte




Il futuro siamo noi

Situazione giovanile: tratti distintivi di una generazione

In una società diversificata e complessa come quella europea, in un’epoca in cui trionfa il pensiero debole, senza le certezze e punti di riferimento del passato, i giovani sembrano spaesati e a disagio, senza valori né ideali forti, in balia delle mode e dell’effimero. Eppure sono molti gli esempi di giovani impegnati per un mondo di pace e giustizia per tutti. Nella costruzione dell’Europa vogliono solo essere ascoltati e incoraggiati.

Non è facile definire in modo univoco la situazione dei giovani in Europa: elementi di discontinuità e ambivalenza sembrano prevalere sui tratti comuni in molti aspetti della vita. Nonostante la varietà e contraddittorietà delle situazioni, si riscontrano tratti culturali di fondo ed elementi distintivi della generazione attuale, che rispecchiano il momento storico in cui è chiamata a vivere e la differenziano dalle generazioni e modelli del passato.
Analizzando le attese dei giovani, si può tracciare un quadro dei loro valori etici e culturali, del modo di percepirsi all’interno della società, degli orientamenti con cui mirano a realizzarsi, dei problemi che devono affrontare nella modeità avanzata o post-modeità: un tempo denso di opportunità, ma anche carico di tensioni e condizionamenti.
Il progresso della scienza e della tecnica, infatti, offre enormi vantaggi anche ai giovani, ponendoli al centro di molti stimoli e sollecitazioni, ampliando il loro livello di coscienza, costringendoli alla riflessione e al confronto con rapidi cambiamenti di situazioni. Al tempo stesso, questi aspetti positivi sono accompagnati da costi personali e sociali: sono scomparse le certezze, i punti di riferimento e il consenso comunitario del passato; la crisi delle grandi ideologie ha provocato la frammentazione del pensiero e l’affermarsi di modelli individualistici di realizzazione e il rischio di un «effetto spaesamento».
Il rapido cambio di scenari a livello economico e finanziario, lavorativo, culturale e politico, rende sempre più difficile fare previsioni realistiche in tanti aspetti della vita; precarietà, insicurezza esistenziale, incertezza del futuro accompagnano l’esistenza della maggioranza degli individui. In uno scenario poco chiaro, denso di sollecitazioni e imprevisti, non è facile orientarsi su problemi e scelte, siano esse di grande o minore importanza.

Europa diversificata e complessa

Attraversata dai fenomeni della globalizzazione, oggi l’Europa appare diversificata e complessa, sia per il retaggio delle diverse vicende storico-politiche (come quelle tra Est e Ovest), sia per la pluralità di tradizioni e culture: greco-latina, anglosassone, slava. Tali diversità, tuttavia, costituiscono anche la ricchezza del vecchio continente e ne rendono significative, in contesti diversi, espressioni e scelte, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e la fine della guerra fredda. Se nei paesi orientali si avverte il problema di come gestire la ritrovata libertà, in quelli occidentali ci si interroga su come vivere l’autentica libertà.
L’attualità socio-culturale europea mostra un’eccedenza di possibilità, occasioni, sollecitazioni, in contrasto con la carenza di focalizzazioni, propositività, progettualità; ciò aumenta il grado di complessità di questa stagione storica, con ricaduta negativa sul piano vocazionale.
L’Europa post-modea assomiglia a un «pantheon», un grande «tempio» in cui sono presenti tutte le «divinità» e ogni «valore» trova la sua nicchia. «Valori» diversi e contrastanti sono presenti e coesistenti, senza una gerarchia precisa: codici di lettura e valutazione, di orientamento e comportamento del tutto dissimili tra loro.
Quando una cultura non definisce più i valori capaci di dare senso alla vita o non riesce a creare convergenze e priorità attorno ad essi, ma pone tutto sullo stesso piano, risulta difficile avere una visione unitaria del mondo e si indebolisce la capacità progettuale della vita.

Giovani e l’Europa

Questa cultura pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, si ripercuote nella vita di tanti giovani: da un lato essi cercano appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza d’orizzonti; dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere, delusi dalle ideologie e dalle istituzioni politiche, confusi dal disorientamento etico.
Per questo, in un tempo avaro di certezze e sicurezze, essi ricercano nelle esperienze più disparate una conferma di sé stessi. I vari ambiti di vita rappresentano luoghi in cui misurare se stessi e le proprie capacità, per maturare conferme alla propria identità, comprendere chi si è e cosa si è in grado di fare. Per una condizione giovanile, che vive un processo di socializzazione molto aperto, ha continuamente bisogno di ridefinire se stessa e ottenere rassicurazioni e certezze.
Il pendolo della loro vita oscilla tra rivendicazione della soggettività e desiderio di libertà; in una cultura debole e complessa come la nostra, la soggettività spesso diventa soggettivismo, mentre la libertà degenera in arbitrio.
La capacità dei giovani di progettare il futuro è vista in un’ottica limitata alle proprie vedute, in funzione di interessi strettamente personali, di autorealizzazione, in una logica che riduce il futuro alla scelta di una professione, alla sistemazione economica o all’appagamento sentimentale-emotivo: orizzonti che di fatto riducono la voglia di libertà e le possibilità del soggetto a progetti limitati, con l’illusione di essere liberi.
Per lo più sono scelte spesso senza apertura al mistero e al trascendente, con scarsa responsabilità nei confronti della vita propria e altrui, della vita ricevuta in dono e da trasmettere ad altri. Tali sensibilità e mentalità rischiano di delineare una sorta di «cultura antivocazionale». Nell’Europa culturalmente complessa e priva di punti di riferimento, il modello antropologico prevalente sembra essere quello dell’«uomo senza vocazione».

Frammenti di un ritratto

Una cultura pluralista e complessa tende a generare nei giovani un’identità incompiuta e debole, con la conseguente indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale. Precarietà della vita e futuro occupazionale incerto inculcano nei giovani paura per il loro avvenire e ansia davanti a impegni definitivi.
Se da una parte cercano autonomia e indipendenza ad ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente socioculturale. Vivono una «rassegnazione contenuta», descritta come «tipologia dell’abbastanza»: si va abbastanza d’accordo con i loro genitori che concedono loro abbastanza libertà; si ha abbastanza voglia di diventare adulti, ma non troppo in fretta.
Qualcuno ha definito i giovani una «generazione mongolfiera», che galleggia nel tempo senza fretta di atterrare: si assiste a un’estensione smisurata dell’età adolescenziale, al punto che si parla di «società adolescentrica».
Altra caratteristica della condizione giovanile attuale è la frammentarietà: l’esperienza di vissuto personale è divisa in tanti frammenti isolati, come pezzi di un puzzle senza coice, scollegati da una logica «vocazionale» di senso e di valori. Così, la vita è composta di gesti che non diventano mai stili di vita, azioni che si esauriscono nei gesti, progetti che si dileguano tra i sogni, passioni di un giorno cancellate da una notte, incertezza di un corpo che si fa e si disfa a seconda delle ore del giorno.
Circolano come nomadi senza fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso; infedeli ai modelli che assumono, «tentano» di darsi contegno con trasgressioni che si rinnovano come tappe inconcluse di un eterno disordine.
Gradualmente si è imposto un modello di giovane proteiforme, che fa lo «zapping» della propria vita, passando da un’esperienza all’altra. Punto di fusione tra le varie esperienze è la gratificazione emotiva,  che deve essere immediata, da vivere nell’istante; nella successione d’istanti, un’esperienza estingue l’altra.
Rilevante tratto culturale nei giovani è l’importanza assunta dai sentimenti: ciò che si sente e si percepisce, lo stato d’animo e il piacere che si prova. Tale criterio-guida riguarda non solo la sfera privata, in particolare il campo dell’affettività e sessualità, ma anche l’orientamento della vita reale e delle scelte decisive. Le esperienze istantanee, senza durata né valore, producono appartenenze deboli e plurime nello stesso tempo a mondi vitali diversi, mai definitivi: si sceglie oggi, senza rinunciare però ad altre opzioni possibili, rinviandole solamente a tentativi futuri.
Lo sviluppo tecnologico ha invaso la nostra vita con modelli comunicativi inediti. I giovani post-modei, sommersi da una grande quantità di informazione, ma con scarsità di formazione, esistono perché «connessi», navigano in internet, parlano con gli sms, chat-lines, blogs o diari telematici: una comunicazione anonima, in tempo reale, ma «senza contatto» reale.
Essi abitano un universo simulato, invece dei luoghi tradizionali dell’incontro; anche se frequentano i luoghi ordinari, con la testa sono altrove; sono vivi e partecipi nei «non-luoghi» di evasione e trasgressione, del fascino della notte, dove è possibile sentirsi diversi; ma anche il prossimo diventa mondi virtuali, dove ci si può costruire una «seconda vita», interagendo con gli altri. Tutti espedienti  che fungono da sedativo del «vuoto» che tanti giovani sperimentano a riguardo del senso della vita e dei valori; un vuoto spesso assordato dalla musica a tutto volume.
Al vuoto lasciato dalla crisi dei sistemi di valori tradizionali è subentrato il consumismo come unico rivelatore simbolico della propria identità. In realtà a guadagnarci è solo il «mercato». Lo sanno bene i cornolhunters o trendsetters (cacciatori di tendenze, ricercatori di stili), emissari delle nuove aree di profitto, che fanno proprie le istanze stilistiche, di comportamento ed espressive dei giovani, tipiche della società dell’immagine e del mercato dell’intimità dei reality show. Pubblicità, produzione dell’abbigliamento, agenzie di viaggio, industrie del divertimento hanno decodificato la condizione di smarrimento dei giovani molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto le statistiche sociologiche.
Fa tenerezza incontrare giovani, pur intelligenti e dotati, in cui sembra spenta la voglia di vivere, di credere in qualcosa, di tendere verso obiettivi grandi, di sperare in un mondo che può diventare migliore grazie anche ai loro sforzi.
Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o nel dramma della vita, smarriti lungo sentirneri interrotti e appiattiti ai livelli minimi della tensione vitale, parcheggiati in quella terra di nessuno, dove la famiglia non svolge più alcuna funzione, la società alcun richiamo e le agenzie educative alcuna attrazione. Sono senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che sarà una fotocopia del presente.
I giovani sono sospettati di voler conquistare visibilità nei grandi raduni, nella violenza gratuita della guerriglia urbana, nel malcontento della estraneità culturale (squatters, autonomi dei centri sociali). Di loro si elencano i «vizi capitali»:  boom dell’esoterismo e satanismo, fede «leggera» della New age, smania del rischio, sfida con la morte, delinquenza e uso di droghe… E le condanne fioccano sugli adepti di questo popolo nascosto. Ma gli strali si concentrano sul dito anziché su quello che il dito indica.

Grida di aiuto

Eppure questi fenomeni dell’attuale disagio giovanile, apparentemente slegati tra loro, hanno una correlazione profonda e inosservata: sono grida di aiuto incomprese, che esprimono in modo disarticolato paura del futuro, delusioni di sogni infranti, desiderio di una vita autentica, voglia di solidarietà, silenzio, spiritualità, di una società diversa.
Invece di giudicare, bisognerebbe riconoscere che le loro insoddisfazioni rispecchiano le ambivalenze e contraddizioni della nostra società, di un malessere che è semplicemente sintomo della disgregazione dei legami sociali in stato avanzato.
Quando i telegiornali senza scrupolo mettono in scena i giovani protagonisti di tragedie familiari, violenze cittadine, stupri collettivi, limitandosi a sollevare una carica emotiva e di indignazione, senza indicare l’urgenza di una profonda riflessione anche su una responsabilità sociale, acconsentono la latitanza delle istituzioni e degli adulti, che rende possibile la ripetizione e l’aumento di certe tragedie.
In questo contesto, che dovrebbe suscitare qualche riflessione, nascono spontanee alcune domande: che ne è di una società che fa a meno dei suoi giovani? È solo una questione di spreco di energie o il primo sintomo della sua dissoluzione?
Che ne è dei milioni di giovani scesi in piazza per manifestare contro la guerra nel marzo 2003? O delle centinaia di migliaia di partecipanti alle radunate oceaniche delle Gioate mondiali della gioventù o ai concerti dei loro idoli? O quelli che hanno bruciato le periferie delle città francesi e sono rientrati temporaneamente nei ranghi della legalità?
Perché non guardare anche alla galassia dei piccoli gruppi e associazioni, che vivono le microstorie di volontariato sociale, trascorrono l’estate in campi di servizio ai poveri, impegnati nell’associazionismo, fanno pellegrinaggi a Santiago de Compostela o si isolano in monasteri alla ricerca di momenti di silenzio e solitudine?
Perché dubitare se questi giovani saranno capaci di assumere una responsabilità nel processo di costruzione dell’Europa, di superare vecchi odi e rancori, di costruire ponti di accoglienza e rispetto della diversità, di lottare per la pace e la giustizia?
Come raccogliere il grido disarmante dei tantissimi giovani anonimi, disorientati dai «vizi capitali», che soffocano la voglia di vivere nelle diverse forme di disagio sociale?

Ascoltare, comprendere, sostenere, incoraggiare

Al di là del disorientato e della mancanza di precisi punti di riferimento, bisogna guardare alla condizione giovanile con ottimismo: il cammino di costruzione dell’Europa potrebbe diventare un traguardo e offrire un adeguato stimolo ai giovani europei. In realtà essi hanno nostalgia di libertà e cercano verità, spiritualità, autenticità, originalità personale e trasparenza; hanno desiderio di amicizia e reciprocità; vogliono costruire una nuova società, fondata sui valori della pace, giustizia, rispetto per l’ambiente, attenzione alle diversità, solidarietà, volontariato e pari dignità tra i generi. 
Le più recenti ricerche descrivono i giovani europei come smarriti, ma non disorientati, impregnati di relativismo etico, ma anche desiderosi di vivere una «vita buona», coscienti del loro bisogno di salvezza, sia pure senza sapere dove cercarla. Ne fanno fede i tanti giovani animati da sincera ricerca di spiritualità e coraggiosamente impegnati nel sociale, fiduciosi in se stessi e negli altri e distributori di speranza e ottimismo.
Per questo hanno bisogno di essere incontrati e ascoltati, non solamente nelle occasioni ufficiali, ma personalmente, nella quotidianità, senza sentirsi giudicati. A partire dalla famiglia, primo nucleo dell’affettività, fino a tutte le agenzie educative (scuola, associazioni di vario tipo) i giovani chiedono attenzione significativa e interessata, indispensabile per sentirsi considerati e per costruire dentro di sé un’identità riconosciuta.
In tempi di omologazione, conformismo, ripetitività, la via d’uscita dal «pantheon» delle idolatrie esige uno sforzo di costruzione di una «cultura dell’interiorità», per abituare i giovani a uno spirito critico, ai tempi lunghi delle trasformazioni, a pagare il pedaggio del sacrificio per ottenere risultati duraturi.
Linguaggio e forma dei mezzi di comunicazione concorrono a trasformare tempo e spazio in contenitori da riempire e svuotare con  «immediatezza» e «simultaneità». Tale cultura del «tempo reale» impedisce di pensare e riflettere, frappone una «distanza» tra se stessi e un fatto o situazione e la sua interpretazione, necessaria per metabolizzare eventi e cambiamenti.
Senza le capacità di pensare e interpretare, vien meno la memoria, cioè quelle tracce dell’esperienza già vissuta che permettono di creare relazioni con gli eventi presenti e progettare il futuro. Diviene fondamentale aiutare i giovani a rileggere la propria vita e sentirsi parte e protagonisti di una storia personale, nazionale, europea e mondiale, per rintracciae gli insegnamenti e responsabilità.
La voglia dei giovani di diventare protagonisti nella vita pubblica non deve essere delusa. Essi devono essere coinvolti nel dibattito in corso sulla costruzione dell’Unione europea. I giovani rappresentano un enorme capitale per l’Europa d’oggi e del futuro. Su di essi si fanno notevoli investimenti, anche se non sempre le loro aspettative sono concretamente accolte dal mondo degli adulti o dei responsabili della società civile.
Al termine della Convenzione europea dei giovani, tenuta a Bruxelles il 9-12 luglio 2002, con la partecipazione di 210 rappresentanti di 28 paesi, i giovani hanno lanciato un appello in cui guardano fiduciosi al comune futuro europeo;  meritano di essere ascoltati.
«Vogliamo una riforma ambiziosa dell’Unione, che la attrezzi per rispondere alle sfide di oggi e cogliere le opportunità di domani. Un’Europa unita nella diversità è realizzabile. Noi vi chiediamo di più di quello che siamo disposti a fare e in grado di fare per noi stessi… Vogliamo un’Europa della tolleranza, dell’apertura e dell’integrazione; edificata sui valori fondamentali di pace, libertà, dialogo, uguaglianza, solidarietà e rispetto dei diritti umani e basata sul principio di uguaglianza degli stati membri. Al centro della nostra visione c’è un’Europa responsabile dei e verso i suoi cittadini. È giunto il momento di creare una vera cittadinanza europea…
La cooperazione internazionale è anche un antidoto contro il nazionalismo, conflitti etnici e dittature. L’Unione europea deve operare per la pace, democrazia, diritti dell’uomo,  disarmo e sviluppo in tutto il mondo. Perché ci sia un’Europa forte in futuro è indispensabile che la UE ponga un maggior accento sull’ascolto dei giovani, agevolando la comunicazione interculturale e transfrontaliera…
Noi, membri della Convenzione dei giovani dell’Europa, siamo pronti a forgiare il futuro della nostra generazione, del nostro continente». 

Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




La parabola del «figliol prodigo» (6)

La Legge dell’impossibilità
«Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27)

Il confronto presentato il mese scorso tra la parabola del «figliol prodigo» e quella del pubblicano e fariseo al tempio insegna che i vangeli devono essere letti non a pezzetti o brani separati, ma nel loro contesto e visione globale. Tale confronto mette in luce che Lc 15 e Lc 18 (così pure il confronto tra il fariseo Simone e l’anonima prostituta in Lc 7,36-50) sono due modi per spiegare ai cristiani la teologia paolina della giustificazione: cuore di tutto il NT e  nodo cruciale per i cristiani della prima e seconda generazione. I primi cristiani, in quanto ebrei, si consideravano depositari esclusivi della salvezza, ma entrarono in crisi quando videro che Dio accoglieva i pagani e su di essi effondeva lo Spirito senza differenza alcuna (cf At 10).
È un momento drammatico. L’accettazione nella comunità giudaico-cristiana dei pagani provenienti in massima parte dal mondo greco non fu pacifica né semplice. Ne fece le spese Paolo, che per tutta la vita si portò conficcata nel fianco «la spina» (cf 2Cor 12,7) del sospetto e del rifiuto da parte della comunità cristiana di Gerusalemme.
Fu uno scontro durissimo tra due correnti teologiche:  da una parte Paolo, aperto al futuro e alla libertà; dall’altra Giacomo (all’inizio anche Pietro), che pretendeva che i pagani, prima di diventare cristiani, si convertissero al giudaismo, praticando la circoncisione e sottomettendosi ai precetti della Toràh. Vinse la linea di Paolo, assunta ben presto anche da Pietro (cf At 10; Gal 2).

Quando il «no» diventa «sì»
Vi sono nella scrittura vari esempi riguardanti coppie di fratelli o gemelli con i quali può essere confrontata la parabola del «figliol prodigo» per assaporae una profondità maggiore. La prima coppia riguarda due fratelli che il padre manda a lavorare nella vigna: essi si comportano in modo opposto alle parole che dicono: uno dice di sì e poi non ubbidisce, l’altro dice di no e poi, «pentito», ubbidisce.

«28Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. 29Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. 30Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Dicono: “L’ultimo”. E Gesù disse loro: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”» (Mt 21, 28-31).
Anche qui abbiamo due figli e due comportamenti: quello apparentemente obbediente, alla fine è disobbediente; quello esteamente appare ribelle, alla fine ubbidisce al padre. Il figlio che dice di sì e non va è il figlio maggiore di Lc 15 e il fariseo di Lc 18 e Lc 7; mentre il figlio che dice di no e poi esegue la volontà del padre è il figlio minore di Lc 15 e il pubblicano di Lc 18 e la prostituta di Lc 7.
Gesù commenta tale comportamento come schizofrenico: «Perché mi chiamate: Signore, Signore, e poi non fate ciò che dico?» (Lc 6,46). Mt dice che le parole non bastano per fare di noi i figli di Dio; solo l’identità con la sua volontà ci introduce nel mistero del suo cielo: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

Stare «in» casa o essere «nella» casa
La specularità tra la coppia dei fratelli di Mt e quella dei fratelli di Lc è ancora più profonda perché svela la vera natura di ciascuno, al di là delle apparenze. Il maggiore afferma di avere detto sempre di sì nella sua vita: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando» (Lc 15,29), mentre in realtà ha sempre onorato il padre «con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mt 15,8; cf Is 29,13). Egli è sempre stato materialmente «in» casa di suo padre, ma non è mai stato «nella» casa del padre e con il padre, perché chiuso nel suo egoismo e vigliaccheria. Non si è neppure accorto che ogni giorno se ne andava molto più lontano del fratello minore, andato via da casa a vivere «da dissoluto» (v. 14). L’ossessione dalla «roba» ancora oggi gli preclude ogni possibilità di conversione.
Al contrario, il figlio minore ha abbandonato il padre e la casa materialmente, ma in fondo al cuore il padre è rimasto sempre presente; la decisione del ritorno gli viene dalla «memoria» del padre, della cui accoglienza egli non dubita: «Rientrò in se stesso e disse… Mi leverò e andrò da mio padre» (vv.15,17.18). Il minore non è «in casa», ma è sempre rimasto «nella» casa con suo padre e, trovandosi in «un paese lontano» (v. 13) ne sente nostalgia e mancanza (v. 17).

Peccato per difetto o per eccesso
Ancora una volta si capovolgono le situazioni: il «lontano» diventa «vicino»; chi crede di stare dentro la casa si trova fuori, estraneo. Tutti e due i figli peccano nei confronti del padre; ma mentre il minore, assillato da un bisogno errato di libertà, pecca per eccesso e per esuberanza, il fratello maggiore, accecato dall’egoismo, pecca per difetto, cioè per grettezza, perché dominato dalla paura e dalla religione del dovere, cioè da una religiosità basata sul tornaconto.
Chi pecca per eccesso, spesso lo fa per amore, mentre chi pecca per grettezza, lo fa sempre per interesse. La parabola dei due figli «incoerenti» in Mt precede immediatamente quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46) e anche la versione lucana dei vignaioli (Lc 20, 9-29) segue il racconto del «figliol prodigo». La conclusione sia di Mt che di Lc è inevitabile: quando il Figlio dell’uomo verrà, «affiderà ad altri la vigna» (Lc 20,16) perché i vignaioli che si era scelti sono risultati indegni. Scribi e sommi sacerdoti «avevano capito che quella parabola l’aveva detta per loro» (Lc 20,19). La parabola dei due fratelli di Mt si conclude con lo stesso insegnamento di Lc: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).
La conclusione a cui arriva Mt è dura per gli orecchi pudichi dei benpensanti che hanno passato la vita a fare calcoli e confronti tra quanto hanno dato a Dio e quanto hanno ricevuto in cambio, tra la loro integerrima facciata di perbenismo e la pretesa di essere annoverati tra i giusti: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). I pubblicani li abbiamo incontrati nel versetto iniziale della parabola: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo», che corrisponde nel contenuto a «pubblicani e prostitute» di Mt. Gli uni e gli altri sono impuri e Gesù, se vuole essere fedele osservante della Toràh e della morale religiosa, deve allontanarli da sé perché diventerebbe impuro anche lui. Gesù invece mangia con loro (Mt 9,11).

La persona prima della norma
Al tempo di Gesù, il giudeo era ossessionato dall’osservanza della Toràh che la tradizione aveva codificato in 613 precetti: era il primato della norma sulla persona. Gesù con le sue parabole (pastore/donna e padre con i due figli; i due figli incoerenti, i vignaioli, ecc.) opera un radicale cambiamento di prospettiva e annuncia la novità del suo messaggio, che si può sintetizzare nel principio nuovo che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,2). Gesù non esita a disubbidire alla norma e trasgredire i precetti, pur di salvare coloro che erano esclusi dalla convivenza civile e religiosa. Gli specialisti del sacro e della religione non si sporcano le mani, come il sacerdote e lo scriba che, incontrando un povero mezzo morto, pur di non toccarlo cambiano marciapiede (Lc 10,31-32).
«Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?» (Lc 5,30). Non sono più i comportamenti esteriori che contano, ma la disponibilità del cuore e la coerenza nella verità. Ora nessuno può più dire che per lui non c’è salvezza: gli affamati sono invitati alla mensa e gli esclusi entrano a fare parte del Regno. In Lc 15,1 abbiamo già commentato il verbo «si avvicinavano», riferito ai pubblicani e ai peccatori. Ora però possiamo immaginae la scena più concretamente, terribile per quel tempo e affascinante nella sua prospettiva: reprobi e condannati dalla società religiosa, pieni di paura e circospezione, consapevoli di essere disprezzati per la loro innata impurità, passo dopo passo «si avvicinano» all’Uomo che pronuncia parole nuove e dense di una speranza mai udita: «Un uomo aveva due figli…» (Lc 15,11).

Il vangelo del grembo
Egli parla per loro, parla solo a loro, è venuto esclusivamente a cercare i peccatori, pubblicani e prostitute, per i quali era  «come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Os 11,4) e ai quali ha portato il «vangelo del grembo»:  voi siete generati e amati da Dio; voi peccatori ed esclusi siete prediletti da Dio; voi disprezzati e reietti dalla società dei finti religiosi siete i beniamini di Dio; voi che siete scappati dalla casa del Padre per paura o per pudore, tornate nel grembo di Dio, che non vi ha mai abbandonato, perché «mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore (Lc 4,18-19).
Il padre della parabola lucana accoglie il figlio minore che, secondo la giustizia umana, non ne aveva diritto e invece è di nuovo reintegrato nell’«anno di grazia» e per lui ricomincia la vita e l’avventura dell’amore: «Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”» (Lc 5,31-32). Ora è compiuto per sempre l’anelito del salmista che desiderava partecipare all’incontro della misericordia con la fedeltà e vedere la giustizia mentre bacia la pace (cf Sal 85/84,11).

La voglia di andarsene lontano
Un Midrash ebraico descrive la storia della salvezza come un costante e progressivo allontanamento dell’uomo da Dio: «Più li chiamavo, più si allontanavano da me» (Os 11,2). Da Adamo il ribelle a Caino l’assassino, da Lamech l’immorale agli uomini di Sodoma e Gomorra, alla generazione della torre di Babele e lungo tutta la storia, l’uomo ha camminato in direzione opposta a quella del giardino di Eden. Per ogni generazione che pecca e provoca l’allontanamento della Dimora/Shekinàh  di Dio dalla terra, sorge una generazione giusta che avvicina la Presenza alla terra:

«Quando peccò il primo uomo, la Dimora salì al primo cielo; peccò Caino e salì al secondo cielo; con la generazione di Enoch al terzo; con la generazione del Diluvio al quarto; con la generazione della torre di Babele al quinto; con i sodomiti al sesto e con gli egiziani ai giorni di Abramo al settimo. Al contrario, vi furono sette giusti: Abramo, Isacco, Giacobbe, Levi, Keat, Amram, Mosè con il quale la Dimora discese di nuovo sulla terra, al Sinai, come era sulla terra, all’Eden, prima del peccato (di Adam)» (cf Midrash Numeri Rabbà XIII,4; Genesi Rabbà XIX, 13 =Cantico Rabbà, V,1).
Questi insegnamenti Gesù respirò fin da bambino: coloro che si ritenevano giusti o pii erano soddisfatti di se stessi perché contribuivano a portare la Dimora di Dio sulla terra. Allontanare empi e impuri dalla loro vista e dalla vita era opera meritoria, un atto di culto.
Gesù sconvolge ogni prospettiva e modo di pensare, perché ora è Dio stesso che stabilisce definitivamente la sua dimora in mezzo agli uomini: «Il Lògos (Verbo, Parola) carne (fragilità, debolezza) fu fatto e si attendò (piantò la sua tenda) in mezzo a noi» (Gv 1,14). Veramente strano questo Dio di Gesù Cristo, che non si diverte affatto a condannare le persone, ma non si dà pace finché non li salva, specialmente se sono incapaci anche di meritarlo.
Il perdono di Dio, che è il suo unico modo di essere giusto, non si limita a cancellare il male, ma rigenera la persona a nuova vita come se rinascesse nuovamente (cf Gv 3,3-8). «Donna… nessuno ti ha condannata? Nessuno, Signore… Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,10-11). Lc nella parabola descrive il padre che «commosso, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (15,20) con una serie di quattro azioni in un rapporto di crescendo musicale, dal piano al fortissimo che  travolge il lettore in una dimensione di puro amore.

Il perdono fonte di gioia
La parabola lucana, abbiamo detto, potrebbe essere catalogata come il «vangelo del grembo», perché in ebraico il termine misericordia deriva dalla parola rahamìm che richiama l’utero materno nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3). Il termine «commosso» usato dalla traduzione italiana è troppo povero per esprimere la densità e intensità del greco «esplanchnìsthê», che traduce a sua volta l’ebraico «rachàm», che significa «grembo/utero» materno, sottolineando che la misericordia non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia.
Questo è il cristianesimo nel suo ideale supremo. Questo dovrebbe essere il cattolicesimo. Questa dovrebbe essere la vita e testimonianza dei credenti. Da quando Gesù è morto sulla croce, giudizio, condanne, moralismo, perbenismo, tutto è morto con lui, perché da quella croce, nuovo monte Sinai della Nuova Alleanza, scendono non più due tavole di pietra, ma il grembo e la tenerezza che hanno il volto umano e divino dell’Uomo Gesù.

Una costante: lo schema «maggiore/minore»
Nella puntata n. 3 (MC 6-7, 2006, p. 63) abbiamo accennato allo schema del fratello minore che subentra al fratello maggiore nella linea della discendenza o dell’eredità, o semplicemente nella linea della storia della salvezza, perché il minore che ha sperperato la sua parte di eredità viene riammesso di nuovo nel diritto di ereditare alla morte del padre (v. simbolismo dell’anello al v. 22).
Questo schema costituisce una «legge», una costante invariabile di tutta la rivelazione e che noi codifichiamo così: Dio sceglie ciò che agli occhi della logica umana è impossibile per realizzare il suo progetto di salvezza.
Questa norma, descritta attraverso i comportamenti nell’AT, giunge a diventare espressamente «parola rivelata» nel NT con Paolo: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-29). Ne rileviamo alcuni esempi, tra i più rilevanti.

a) Fratelli insanguinati. In Gen 4,1-20 si narra del fratricidio del fratello maggiore, Caino, che uccide il fratello minore Abele. Anche qui un conflitto tra due mondi: un contadino (sedentario) e un pastore (seminomade) vivono in perenne conflitto e reciproca gelosia. L’insegnamento del racconto è semplice: chi non accetta la dipendenza da Dio e non ne riconosce la pateità, non può riconoscere la frateità, che invece vede come impedimento e ostacolo da eliminare. Il figlio maggiore di Lc 15 non accoglie il fratello perché è lontano dal loro padre.

b) L’inganno: Esaù/Giacobbe. In Gen 25,19-34 si narra che Dio si ricordò di Rebecca, sposa sterile di Isacco, ed ella rimase incinta di due gemelli che sarebbero stati capi di due popoli. Dio disse a Rebecca: «Un popolo prevarrà sull’altro, il maggiore servirà il minore» (Gen 25,23c). Il maggiore, partorito per primo, è Esaù; il minore, partorito per secondo, è Giacobbe (Gen 25,26). Secondo il diritto Esaù avrebbe dovuto continuare la discendenza di Isacco e invece egli vende la sua primogenitura al fratello minore Giacobbe che con uno stratagemma imbroglia il padre e il fratello (Gen 27,146).

c) L’incesto: Rerach/Perez. In Gen 38 si narra la storia dell’incesto di Tamar, che pur di ottenere giustizia secondo la Toràh (Dt 25,5), non esita a travestirsi da prostituta per concepire da suo suocero che, senza saperlo, la lascia incinta di due gemelli: Perez e Zerach (Gen 38,30). Zerach avrebbe dovuto essere il primogenito; invece al momento della nascita è soppiantato dal gemello Perez che ritroveremo nella genealogia di Mt come antenato di Gesù con il nome di Fares (Mt 1,3; Lc 3,33). Un altro fratello minore che soppianta il maggiore.

d) Lo scambio: Manasse/Efraim. In Gen 48, si narra di Giacobbe che, ospite di suo figlio Giuseppe, vice re d’Egitto, ormai vecchio e cieco, vuole benedire i due figli che Giuseppe ebbe dalla moglie egiziana Asenèt: Manasse il primogenito ed Efraim il secondogenito. Giuseppe colloca il figlio maggiore davanti alla mano destra di Giacobbe e il minore davanti alla mano sinistra, affinché il vecchio padre possa compiere il rito della trasmissione secondo la legge. Ma al momento di benedire Giacobbe incrocia le braccia e inverte la benedizione: «Israele stese la sua mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito… Così pose Efraim prima di Manasse» (Gen 48,14.20c). Dio guida la storia secondo suoi criteri per noi inverosimili.

e) L’ultimo sarà il primo: Davide e i 7 fratelli. In 1Sam 16,1-13 si narra che Dio manda il profeta Samuele a cercare il successore del re Saul tra i figli di Iesse. Il profeta fa venire i primi sette uno ad uno; vorrebbe consacrare Eliab, il primogenito. Dio lo scarta, come gli altri sei. Rimane l’ultimo, «il più piccolo che ora sta pascolando il gregge» e a cui nessuno presta attenzione, tanto che non è stato nemmeno invitato. Dio, invece, sceglie lui, il più piccolo e dimenticato che diventerà il re Davide, il consacrato dal cui casato discenderà il Messia d’Israele.
Tutti questi avvenimenti hanno in comune la legge dell’impossibilità: coloro che non hanno diritto sono scelti per proseguire la discendenza di Abramo fino al Messia, mentre coloro che ne hanno il diritto naturale lo perdono. Nella logica di Dio tutto si capovolge, perché in lui non c’è la giustizia come misura tra eguali, ma l’amore senza confini, la cui misura è l’accoglienza come premessa per un amore più grande e senza condizioni.

A scuola di Maria di Nazareth
È la stessa logica che domina e dirige il comportamento del padre della parabola lucana: egli ama il figlio minore non meno del figlio maggiore, ma tra i due non fa le parti uguali: ama secondo il bisogno e la necessità di ciascuno, senza togliere con questo nulla all’altro.
La logica del padre misericordioso che accoglie il figlio minore, nonostante l’opposizione del maggiore l’ha bene capita Maria di Nazareth, l’ultima degli ‘anawin/poveri di Yhwh di cui si fa portavoce e garanzia: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53).
È la stessa logica che Lc illustra nelle beatitudini della pianura, quando il Figlio di Maria di Nazareth darà agli altri lo stesso nutrimento che egli ha ricevuto da sua madre: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6, 21-25). [continua – 6]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Haiti / Il paese «suicida»

Senza legge: come nel Far West

Storia di ingerenze straniere e falsi messia. Il paese più povero delle Americhe è tornato nell’oblio. Un
governo che tarda ad affermarsi e lo strapotere delle bande armate
rendono la vita impossibile. Riforme radicali di polizia, sistema
giudiziario e rinnovo della classe politica sono necessari. Così come
veri programmi di sviluppo. Mentre un popolo tradito da tutti continua
la sua lenta discesa nel baratro.

Haiti:
un paese «suicida». Così gli esperti di cooperazione internazionale
classificano il piccolo stato caraibico. «Quello che si può tentare,
con gli aiuti, è frenae la lenta inesorabile discesa» confida un
esperto. Uno «stato in fallimento» secondo altri osservatori stranieri,
forse perché mancano alcuni degli elementi stessi costitutivi di uno
stato. Piccolo (poco più grande del Piemonte), ma sovraffollato (quasi
300 abitanti al km quadrato) e con una storia particolarmente
stravagante.
È qui che Cristoforo Colombo approda nel suo primo viaggio verso le
Indie e vi crea l’avamposto europeo nelle Americhe. L’intera isola
diventa spagnola  e i conquistatori ne massacrano gli indigeni
nativi. Nel 1697 la parte occidentale è ceduta alla Francia, che vi
instaura il suo sistema coloniale di sfruttamento. Vi importa centinaia
di migliaia di africani, in catene. Haiti diventa il più importante
produttore di zucchero per il mondo «civilizzato» di allora.
In una notte di agosto del 1791, con una cerimonia segreta sulle
montagne, il sacerdote vudù Boukman scatena l’impressionante rivolta
degli schiavi, che sarà guidata dal capo carismatico Toussaint
Louverture. Con la vittoria sulle truppe napoleoniche del generale
Leclerc, Haiti diventa il primo stato indipendente con popolazione nera
del mondo. È il gennaio 1804.

Ricorsi storici

Duecento anni dopo il popolo haitiano non festeggia: è di nuovo in
rivolta. Questa volta con la delusione e l’amarezza. Contro l’ex
salesiano Jean-Bertrand Aristide, che le comunità di base, soprattutto
della chiesa cattolica legata alla teologia della liberazione, avevano
portato alla presidenza con le prime elezioni democratiche (fine 1990).
Cacciato Duvalier, quattro anni prima, dopo tre decadi di feroce
dittatura, il movimento della società civile è forte e organizzato.
Haiti diventa un simbolo, anche per gli altri paesi latino americani.
Troppo per gli Usa di George Bush padre, che tramite la Cia,
organizzano il colpo di stato del generale Cédras. Altro sangue, ancora
violenza. La parola d’ordine è reprimere il movimento. Oltre 3.000 sono
i morti, molti i leader popolari. A fine ‘94 gli stessi Stati Uniti,
con Clinton, riportano Aristide al potere. L’ex prete è diventato molto
ricco, ha amici influenti tra i democratici Usa, incamera senza rendere
conto ingenti somme di aiuti inteazionali. Milioni di dollari. Quello
che resta degli intellettuali legati alla società civile haitiana
prende le distanze. Il suo entourage diventa composto da ex
duvalieristi, ex putchisti e personaggi di dubbia fama. Il paese
intanto va alla deriva, i poveri sono sempre più poveri. Le bidonville
della capitale Port-au-Prince si ingrossano di disperati. La gente,
soprattutto i contadini (oltre il 70%) sono disorientati. Si dice che
gli haitiani siano un popolo «messianico»: hanno bisogno di un leader
carismatico, un «messia». Aristide, il populista, l’imbonitore, ha
sempre incarnato questo ruolo. Riesce ancora ad alimentare un certo
sostegno con i discorsi. Ma quando questi non bastano più inizia a
distribuire armi e a organizzare bande armate a lui fedeli: nascono le
chiméres (chimere). Intanto si avvicina al narcotraffico: l’isola è
diventata uno dei corridoi preferenziali per la cocaina colombiana.

la «morte» dei diritti

È un periodo oscuro di brogli elettorali, minacce e omicidi politici.
Il 3 aprile del 2000 è assassinato Jean Dominique, decano dei
giornalisti haitiani e combattente per la democrazia. Aveva nel suo
cassetto alcuni dossier scottanti sull’ex salesiano. Il principale
indagato è il senatore Dany Toussaint, del partito di Aristide, suo ex
capo della polizia e sospettato di vari crimini. Quel che resta della
società civile ha un sussulto. La classe politica è all’impasse.
L’opposizione non ha figure di rilievo, ma chiede le dimissioni di
Aristide indicandolo come il responsabile del caos in cui versa il
paese. La comunità internazionale condiziona gli aiuti allo sblocco
della questione elettorale (le elezioni del ‘97 e del 2000 furono
contestate dall’opposizione e dagli osservatori): i rubinetti restano
chiusi.
E arriva il 2004: l’anno del bicentenario dell’indipendenza. All’inizio
di febbraio il malcontento crescente prende la forma dell’insurrezione
armata. Noti personaggi del passato, ex militari, ex golpisti e
squadristi, ma anche ex sostenitori di Aristide, tutti professionisti
della violenza non tardano a prendere la guida dei rivoltosi. Esiste
anche l’opposizione non violenta, delle organizzazioni politiche e
della società civile (riuniti nel Gruppo 184) che manifesta sotto i
tiri dei fucili mitragliatori in mano alle gang di Aristide. Gli Usa di
George W. Bush e la Francia tentano una mediazione: per evitare il
bagno di sangue fanno pressioni sul controverso presidente, affinché
lasci il paese. 
Aristide fugge il 29 febbraio e si instaura un governo di transizione
che porterà alle elezioni (rinviate ben cinque volte) a febbraio 2006.
La comunità internazionale invia un contingente di caschi blu, la
Minustah (Missione per la stabilizzazione di Haiti), inizialmente di
composizione Usa, Canada e Francia e poi sostituita da sudamericani,
sotto il comando brasiliano (circa 7.500 militari e 2.000 poliziotti
del Unpol).
Oggi il presidente è l’agronomo Réné Préval, già primo ministro di Aristide nel 1991, poi presidente dal 1996 al 2001.

Difficile guardare al domani

Secondo Gotson Pierre, giornalista haitiano del sito Alterpresse,
Préval di oggi è diverso dal fantoccio pilotato da Aristide di ieri:
«lo slancio autoritario del primo mandato sembra aver lasciato il posto
a un maggiore spirito di apertura e di consenso. A livello della sua
politica economica, però non sembra ci siano troppi cambiamenti: domina
la visione neoliberale. Il presidente ha già annunciato la
privatizzazione della compagnia telefonica». E i suoi legami con
Aristide? «Durante la campagna elettorale ha mostrato una certa
autonomia, e avrebbe manifestato in privato la sua distanza. In
pubblico, avvalendosi della costituzione che non prevede l’esilio, non
si oppone al ritorno di Aristide, ma neanche a un suo processo.
Nonostante questo, la denuncia contro l’ex presidente depositata presso
il tribunale di Miami dal governo di transizione è stata ora ritirata».

Préval è stato eletto con più del 50% dei voti, il che dimostra che ha
un certo sostegno popolare, «tuttavia la situazione potrebbe degenerare
rapidamente se il governo non otterrà dei risultati concreti nel medio
periodo a livello della sicurezza e a quello socio-economico» continua
il giornalista.
«La situazione è molto complicata – racconta un intellettuale haitiano
che vuole mantenere l’anonimato – c’è innanzitutto l’insicurezza. Ci
sono ancora molte armi in circolazione, quelle che furono distribuite
da Aristide alle bande da lui finanziate. Anche ai bambini. Il paese è
in mano alle gang armate. Alcune sono di origine politica, altre di
delinquenti comuni. Gli Usa hanno rispedito ad Haiti decine di banditi
che erano nelle loro prigioni e che avevano imparato i metodi della
gang da loro». La violenza, che da sempre caratterizza la storia del
popolo haitiano, è oggi ai suoi apici, in un teatro particolarmente
confuso.
Racconta un missionario italiano, da anni nel paese: «La gente vive
nella paura, nonostante lo spiegamento delle forze dell’ordine locali
ed inteazionali (Minustah e Unpol, ndr), anche se ci sono momenti di
tregua. Le bande di ogni tipo, rivali tra loro, hanno armi sofisticate»
.

Tra realtà e leggenda

Le gang armate sono conosciute, hanno capi storici, figure quasi
mitologiche, con storie di vendette, assassini e successioni violente.
Operano in quartieri il cui nome fa tremare. Come Amaral Duclona,
potente capo di una delle bande di Cité Soleil (enorme bidonville della
capitale Port-au-Prince): molto vicino ad Aristide, ha anche supportato
la campagna di Préval. È il successore di Tupac (soprannome ispirato da
un celebre rapper statunitense), ucciso da una banda rivale. La storia
di Tupac è già diventata un film.
Amaral, teoricamente ricercato dalla polizia, guida anche le
manifestazioni di piazza che invocano il ritorno di Aristide, e la
partenza della Minisutah, come nel 9 novembre scorso.
L’«esercito del piccolo macete», della zona Martissant – Carrefour ha
partecipato a due recenti sanguinosi massacri in agosto 2005 e luglio
2006, in scontri con la polizia o altre gang. O ancora l’«esercito
cannibale» che domina la città di Gonaives.
«C’è stata una tregua solo durante le votazioni, imposta da Préval, ma
ora le cose ritornano confuse, anche se i media non ne parlano. I morti
tra le diverse fazioni, forze dell’ordine, cittadini comuni, compresi i
bambini, davvero non si contano. Disordini e blocchi stradali, scioperi
a ripetizione, magazzini chiusi, ambulanti e dettaglianti che si danno
alla fuga, la gente nel panico». Continua il missionario. «Bel Air, nei
pressi della Cattedrale, rue Pavé, Poste-Marchand, (tutte zone centrali
della capitale, ndr) sono covi di banditi, che sparano all’impazzata e
lanciano sassi contro le macchine che si avventurano nei paraggi. Senza
parlare dei cumuli di spazzatura in decomposizione, che tappezzano le
strade di Port-au-Prince, dandone un’immagine deturpata e ributtante».

Quando non sai cosa fare …

Uno dei sistemi utilizzati dalle gang di ogni tipo per finanziarsi è il
rapimento a scopo di estorsione. Fenomeno comparso a fine 2004, conta
decine di vittime tutti i mesi, soprattutto nella capitale. Da un
minimo di 14 persone rapite al mese al picco di 115 dello scorso
agosto, secondo solo alle 241 del dicembre 2005. «Sono comprensibili i
disagi di chi è obbligato a spostarsi in città per acquisti, per
consultazioni o ricoveri in ospedale», dice il missionario.
La paura dei rapimenti, in molti casi anche per motivi politici, sta
causando la fuga di cervelli e la chiusura di esercizi commerciali.
«Molti professionisti (ingegneri, medici, bancari) sono fuggiti in Usa,
Canada, ma anche a Cuba. Molte ditte, imprese hanno chiuso i battenti».
Mentre continua la triste storia dei boat people: «A migliaia i poveri
varcano le frontiere di Haiti per la Repubblica Dominicana e spesso
sono malamente rimpatriati. Mentre altri in battelli di fortuna tentano
di raggiungere la Florida, ma solo pochi sono stati fortunati… ».
Questi fatti hanno un impatto negativo anche sull’economia, come
ricorda l’intellettuale haitiano: «Le casse sono completamente vuote.
Occorrono investimenti per rimettere il paese in piedi. Gli investitori
vedono interessante la possibilità dei bassi salari, ma senza sicurezza
e senza infrastrutture è impossibile lavorare. I rapimenti scoraggiano
ulteriormente. Occorre quindi il disarmo per poter sperare di
sviluppare il paese».
Ad Haiti la maggior parte delle strade sono disastrate (l’Unione
europea ne sta riasfaltando alcune), non ci sono i ponti e manca
l’elettricità perfinonella capitale.

Primi in corruzione

La violenza è alimentata dall’impunità, che è la regola ad Haiti. E
questa è figlia della corruzione. L’Ong Transparency Inteational,
tutti gli anni pubblica la classifica dei paesi del mondo in base alla
corruzione. La classifica del 2006, resa nota a novembre, ha visto
Haiti ultimo classificato su 163 paesi valutati (l’Italia è 45sima),
subito preceduto da Guinea, Iraq e Myanmar a pari merito.
«La corruzione ha impregnato ogni settore socio, politico ed economico
del paese. Il sistema della giustizia è totalmente corrotto. Ecco
perché c’è un ritorno delle esecuzioni sommarie: se un ladro viene
scoperto, è immediatamente ucciso. In caso contrario, se arrestato se
la caverebbe pagando la polizia o il giudice e poi toerebbe a
vendicarsi su chi lo aveva fatto catturare» racconta il nostro
interlocutore.
In un recente rapporto l’Inteational Crisis Group (Icg, ottobre 2006)
esamina la situazione della sicurezza e mette in evidenza le debolezze
dello stato, come la mancanza di autorità e controllo. Raccomanda
nell’immediato una profonda riforma della polizia, con sostituzione di
ufficiali e uomini ai diversi livelli e del sistema giudiziario, per il
quale occorre formare una nuova classe di giudici. Fondamentale è lo
smantellamento delle bande armate e anche il controllo di frontiere e
porti, precisa il rapporto. «Haiti farà un passo avanti solo quando i
cittadini sentiranno una restaurazione dell’autorità dello stato e del
regno della legge nella vita quotidiana» ha dichiarato Mark Schneider,
vice presidente dell’Icg. «Questo esige un repulisti nella polizia,
l’eliminazione della percezione dello stato come sorgente
d’arricchimento personale e la creazione di prospettive per i poveri».
Il rapporto richiama, inoltre, la comunità internazionale a impegnarsi
nel medio e lungo termine ad appoggiare Haiti con investimenti su
educazione, sviluppo rurale e infrastrutture urbane. Ma anche
riforestazione e recupero ambientale sono essenziali.

Armi, rapimenti e … coca

Il tutto si intreccia con il crimine internazionale legato ai traffici.
«C’è la questione della droga. L’entourage di Aristide ne era
largamente coinvolto. Ad esempio il capo della sua guardia
presidenziale, Oriel Jean è oggi in prigione negli Usa per
narcotraffico» ricorda l’intellettuale anonimo. «Gli ingenti proventi
di questo commercio sono il veleno per Haiti. Il paese è un importante
crocevia per la cocaina proveniente dalla Colombia in direzione di Usa
e Canada». È stato stimato che un terzo della cocaina colombiana
destinata agli Usa passi da Haiti, mentre i tre quarti di quella
sequestrata negli aeroporti di Montreal tra il 2000 e il 2004 aveva la
stessa provenienza.
Il traffico divenne importante fin dai tempi del colpo di stato di
Cédras (1991) per continuare a crescere, protetto dall’instabilità
politica, e agevolato dalla «porosità» delle frontiere. I narcos usano
piccoli aerei che dalla Colombia atterrano su piste rudimentali, con la
connivenza di autorità locali e polizia. Anche nei pressi della
capitale c’è una di queste piste. La droga non è consumata in loco,
perché gli haitiani sono troppo poveri, ma il denaro del traffico
alimenta tutto il sistema della corruzione.

«Disarmare o morire»

Il governo di Préval e del primo ministro Jaques-Edouard Alexis tenta
di intervenire, con apparente fermezza, ma troppo timidamente nella
realtà. «Il governo attuale non è in fase con le attese della
popolazione – sostiene Gotson Pierre – riscontriamo piuttosto un certo
lassismo e lentezza. Il perdurare dell’insicurezza e della violenza,
soprattutto a Port-au-Prince, e la gestione esitante, non trasmettono
un segnale positivo». Un programma di disarmo, smobilitazione e
reinserzione (sul modello di quelli attuati nei paesi in guerra) per
gli uomini delle gang è stato lanciato e una commissione nazionale
recentemente istituita. Gli ennesimi piani di ristrutturazione della
polizia e del sistema giudiziario sono in elaborazione, ma devono
essere attuate riforme radicali.
«Usano il bastone e la carota: si danno un’aria di fermezza ma poi
invitano i capi gang al palazzo presidenziale» osserva l’intellettuale.
«Disarmare o morire» aveva lanciato Préval lo scorso agosto sulle onde
radio. In effetti questo è il punto su cui il presidente si è più
investito, coadiuvato da Minsutah e Unpol (polizia internazionale) ma,
finora, senza troppo successo.
E il movimento popolare che era riuscito a liberarsi di Duvalier?
«La società civile ha poca influenza in questo momento. I contadini
sono stati delusi profondamente da Aristide, e non osano dirlo. Allo
stesso tempo la miseria li costringe a impiegare le loro energie più
per sopravvivere, trovare da mangiare, piuttosto che per organizzarsi a
partire da zero. Qualche segnale positivo c’è» continua
l’intellettuale.
«Spero che la società civile possa rimettersi in piedi, adesso è in “ibeazione”».
«Esiste ancora qualche rete, ma gli interventi sociali si manifestano
oggi più sotto la forma di lobbing e non di mobilitazione popolare»
osserva Gotson Pierre.
La chiesa, soprattutto alla base, è rimasta «bruciata» da una scelta,
quella dell’ex sacerdote salesiano, che la storia ha rivelato
fallimentare. «La chiesa haitiana tace. La Conferenza episcopale è
divisa, ancora oggi, tra pro e contro Aristide. Non c’è stato un
pronunciamento a favore delle vittime di sequestri, violenze carnali
alle donne, torture» racconta il missionario. «Nessuna presa di
posizione ufficiale per denunciare le ingiustizie che si perpetrano
continuamente. Un intervento, isolato, da parte del vescovo della
capitale, Mons. Sérge Miot, dopo il sequestro del missionario italiano
Gianfranco Lovera (agosto 2005, ndr), che invitava le autorità a
operare per debellare la violenza, diventata sistema, e la polizia a
intervenire con decisione per fermare i banditi».

Il grande manovratore

La debolezza, o talvolta la connivenza, delle istituzioni statali,
hanno lasciato spazio alle bande armate e alla loro violenza. Molte di
queste sono legate all’ex presidente Aristide, e c’è chi sostiene che
questi riesca a controllarle dal suo esilio dorato in Sud Africa. Molti
temono un suo ritorno, altri, soprattutto le chimères lo 
invocano. L’intellettuale: «Aristide sta cercando di prepararsi il
terreno per tornare. Agisce di nascosto, sotto, sotto. Questo è molto
pericoloso». Gotson Pierre: «Nelle strutture politiche e nello stato ci
sono ancora uomini di Aristide. Il suo partito Fanmi Lavalas pur
minoritario, è rappresentato in parlamento. Penso che non possa avere
un futuro politico ad Haiti, almeno non ufficiale, ma potrebbe
manovrare nelle retrovie».
«Haiti non è uno stato in fallimento, ma uno stato in grande
difficoltà» ha recentemente dichiarato Préval. Potrebbe apparire tale
ai tecnocrati perché è obbligato «a smantellarsi per finire di essere
uno strumento d’esclusione e oppressione». 

Marco Bello

Il volontario racconta …

Ritoo ad Haiti

Dajabon, frontiera nord tra la Repubblica Dominicana e Haïti. Un
placido rivolo separa i due paesi, qualche bambino sgambetta nell’acqua
per riempire le taniche, alcune donne si bagnano, altre fanno il
bucato, e non diresti mai che quel rigagnolo si chiama «Rivière du
Massacre». Il ricordo delle aspre battaglie con cui nel XVII secolo
spagnoli e francesi si contendevano la colonia, è stato sostituito
dalle più recenti centinaia di morti ammazzati o annegati, nella triste
guerra tra poveri tra dominicani e haitiani, in cerca di un posto
migliore in cui vivere.
Carichiamo le valigie su un carretto, unico mezzo per attraversare il
piccolo ponte presidiato dai militari dominicani. Il colore della mia
pelle e il mio passaporto ci salvano da strattoni, schiaffi e pugni che
poliziotti in borghese dispensano a chiunque sia in transito, perché
oltre che pagare il visto bisogna pagare il pizzo o comunque lasciare
qualcosa.
È questa la nostra porta d’ingresso in Haiti, essendo chiuso l’altro
principale passo frontaliero del sud, Malpasse. Ostaggio di una gang
armata che vuole controllare i traffici di chi, doganiere,
contrabbandiere, piccolo commerciante, camionista o conducente di
autobus, con la frontiera sopravvive.

Rieccoci in Haiti, dove le poche ore previste per il viaggio si sono
già trasformate in una settimana di vana attesa alla frontiera chiusa,
e poi in tre giorni di autobus e jeep per percorrere trecento
chilometri. Questo peregrinare è reso meno faticoso dall’ospitalità
straordinaria di chi si fida di te, non perché ti conosce, ma perché
gli fai il nome di un amico comune. Allora ti dà da mangiare, ti mette
una camera a disposizione o ti procura un passaggio in auto.
Dopo colline a perdita d’occhio, finalmente il mare, con la sagoma
soiona della leggendaria isola della Tortuga: è l’inconfondibile baia
di Port-de-Paix. La lontananza anche fisica dalla capitale ha permesso
a questa città di essere un vero «porto di pace», senza i disordini e
le violenze dovuti alle varie crisi politiche. Tranquillità pagata
tuttavia con una totale dimenticanza e abbandono da parte delle
istituzioni centrali e dai vari programmi di sviluppo.
Fondata dai bucanieri, la città non ha perso la tradizionale vocazione
«piratesca» ed è sopravvissuta grazie al contrabbando, alla tratta dei
disperati in partenza verso le Bahamas come boat-people, e ora al
traffico della droga.
Capita così che dove c’erano soltanto vecchie case o baracche troviamo
ora villette. Un po’ ovunque: per costruire hanno mangiato la spiaggia,
scavato le colline. Hanno edificato perfino su uno stretto istmo di
sabbia che divide il mare da una palude, bonificata con
approssimazione. Ogni volta che piove un po’ di più, si intuisce quella
che sarà una strage annunciata.
La popolazione è cresciuta. Molti sono quelli che hanno preferito
ritornare a casa, abbandonando il lavoro o gli studi che avevano
trovato nella capitale Port-au-Prince, divenuta invivibile a causa
delle violenze.
Altri ancora arrivano da Gonaives, altra città del paese politicamente
molto calda e funestata due anni fa da un’inondazione che causò più di
4 mila vittime.

Il quartiere di Myriam sembra essere sempre lo stesso. Soffocata dalle
case, la stessa strada impossibile da percorrere si abbarbica su per la
collina. Dalla terra affiorano i tubi dell’acqua, vecchie scarpe,
rifiuti, copertoni. Sembrano gli stessi di due, quattro, quindici anni
fa.
Le traballanti bancarelle del mercatino, i banchetti per giocare al
lotto, le casette di legno dei piccoli spacci alimentari. La vecchia
carcassa del pullman di Sonson, ancora lì, parcheggiata sul ciglio nel
punto di pendenza massima, sempre ciondolante di bambini giocosi.
I cortili delle case, gli stessi consunti tavoli da domino all’ombra
delle piante, i galli da combattimento legati, i panni stesi sulle
aiuole di piante spinose. La stessa risata fragorosa di Emilién è il
benvenuto del quartiere, e anticipa l’abbraccio di parenti e amici.
Anche i nipotini mi sembrano sempre gli stessi, mi chiedo per un
attimo: non crescono mai? Poi mi rendo conto che non sono più venti, ma
ventiquattro, e quella che pensavo fosse Charlanda in realtà è la
sorellina più piccola… mi ci vuole qualche giorno, e recupero la
dignità di un buon zio che sa riconoscere tutti.

Gli stessi aquiloni ingarbugliati ai fiacchi fili della luce, spesso
inutili. Le serate a raccontarsela tra vicini, dopo l’eterno miracolo
di arrivare alla fine della giornata con poco. Perché se molto è
rimasto uguale, quello che continua a cambiare sono i prezzi,
soprattutto degli alimenti di base: riso e prodotti orticoli stanno
diventando un lusso senza alternativa, e il commercio è limitato dai
costi enormi e dalle difficoltà degli spostamenti.
Passa un funerale: la sfilata di ottoni della banda, uniformi pesanti
sotto il sole, ombrelli, vestiti a balze di organza. Anche questo non è
cambiato. Si muore, tanto, per nulla. O, meglio, non esistono diagnosi
e chi di «guaritore» ha solo il nome è ancora considerato meglio che un
medico.
Per questo molti non ci sono più. Rimane il coraggio e la forza di chi
resiste in un paese dove nulla al momento può far presagire un domani
migliore, se non il fatto di esserci, comunque.

Alessandro Demarchi*

*Volontario ad Haiti dal ‘93 al ‘96 dopo un primo viaggio nel 1991, non
ha mai cessato di seguie le vicende, anche con frequenti visite. Vive
con la moglie, originaria di Port-de-Paix, e due figli a Torino, dove
lavora per una Ong piemontese come esperto di fund raising.

Cronologia essenziale

1492 Cristoforo Colombo sbarca
nel nord ovest dell’isola, vi installa il primo insediamento europeo
del nuovo mondo. Inizia la decimazione della popolazione autoctona, i
Taino. La colonia si chiama Hispaniola.
1697 Con il trattato di Ryswick la Spagna cede alla Francia la parte occidentale dell’isola che prende il nome di Saint Domingue.
1791 Inizia la rivoluzione degli schiavi guidata da Toussaint Louverture.
1804 Proclamazione
d’indipendenza, e sconfitta dell’armata napoleonica. Durante la guerra
muoiono 100 mila ex schiavi e 20 mila francesi. Il Paese prende il nome
di Haiti. La popolazione bianca fugge all’estero.
1915-1934 Occupazione Usa.
1957-1986 Dittatura dei Duvalier: François «Papa Doc» e Jean Claude «Baby Doc» che fuggirà dal paese, a causa del sollevamento popolare.
1986-1990 Periodo di giunte militari e presidenti de facto. Tentativi, falliti, di elezioni.
1990 16 dicembre: elezioni con
osservatori Onu. Vittoria popolare del movimento Lavalas: Jean-Bertrand
Aristide presidente con il 67% dei voti.
1991 30 settembre: dopo soli 7
mesi colpo di stato militare. Il generale Cédras si autonomina
presidente. Aristide in esilio. Oltre 1.500 assassii in una settimana.
Smantellamento del movimento popolare. I militanti di Lavalas sono
costretti alla resistenza passiva e alla clandestinità.
1991-1994 Dittatura militare
capeggiata da Raul Cedras. L’Onu decreta l’embargo verso Haiti.
Aristide è riportato dai marines Usa (20 mila unità) nell’ottobre del
’94.
1995 dicembre: nuove elezioni
e vittoria del candidato del partito Lavalas, Renè Préval. Aristide non
può candidarsi  perché la costituzione non prevede due mandati
consecutivi. Préval resta in carica fino a febbraio 2002.
2001 Aristide diventa, per la seconda volta, presidente della Repubblica.
2004 29 febbraio il presidente
Aristide, a causa delle forti  pressioni intee ed inteazionali
(Francia, Usa, Canada), lascia il potere e parte in esilio, prima in
Centrafrica e poi in Sudafrica.
2004 1 marzo: il Consiglio di
Sicurezza dell’Onu approva l’invio di una forza internazionale (Usa,
Francia e Canada) che verrà rimpiazzata nei mesi successivi dai caschi
blu delle Nazioni Unite (Minustah). 
2004 17 marzo: G. Latortue (ex
ministro degli Affari esteri, 1988) diviene il Primo ministro di un
governo di transizione incaricato di organizzare le elezioni generali.
2004 30 settembre: alcuni
sostenitori dell’ex presidente Aristide reclamano il suo ritorno e
lanciano una serie d’attacchi violenti, sono più di 400 i morti fino al
gennaio 2005.
2005 31 maggio: un attacco nel
centro della capitale, attribuito a partigiani dell’ex presidente
Aristide, fa almeno 10 morti tra la popolazione civile.
2005 ottobre-dicembre: nella capitale drammatica escalation della violenza e dei rapimenti a scopo d’estorsione.
2006 7 febbraio: dopo essere
state rimandate per cinque volte, si svolge il primo tuo delle
elezioni presidenziali e parlamentari. Préval dichiarato vincitore, si
insedia il 14 maggio. A dicembre amministrative e legislative parziali.

Marco Bello




AFRICA, la mia terra

Incontrare le culture: imperativo per la convivenza e urgenza pastorale

Danze, canti, poesie e conferenze in un convegno «a tutta Africa». Incontro – confronto con il mondo africano attraverso il racconto fatto dagli immigrati presenti in mezzo a noi; per iniziare a conoscee cultura, mondo spirituale e stile di vita.

Viene da sorridere con un po’ di amarezza leggendo questi versi. Dove si nasconde quest’Africa così bella? Africa, dalla natura contaminata per i troppi scempi provocati dall’uomo: ambientali, sociali, politici. Contaminatissima Africa, donna che tutti vogliono e tanti, troppi possiedono, gente che fa  di tutto, ma proprio tutto, per poterla conquistare.
Questi versi, però, li ha scritti Osmund, un nigeriano grande e grosso, immigrato in Italia come tanti suoi connazionali e con, probabilmente, una lunga storia alle spalle da raccontare; questi versi li ha scritti per un’occasione speciale: non per parlare della nuova terra che lo ospita o del viaggio fatto per raggiungerla, bensì per raccontare qualcosa del mondo da cui viene, dell’Africa che ha lasciato, dell’amore per il suo continente.
«L’Africa si racconta» è il titolo di una giornata speciale di musica, immagini e parole dedicate al continente africano, che si è tenuta a Torino il 18 novembre scorso, presso i missionari della Consolata. Promosso dall’«Ufficio di pastorale migranti» della diocesi torinese, l’incontro è stato un’occasione di ascolto e confronto su vari aspetti del mondo africano e della sua cultura vissuti nell’esperienza di immigrati presenti in mezzo a noi. Oltre a Osmund hanno partecipato Kenneth, Marie Noelle, Restituta, Peter, Jean Nöel ed Erasto, provenienti da parti diverse del continente, ciascuno con la propria esperienza di vita e la voglia di condividerla. Tutta africana è anche stata l’organizzazione dell’evento, che ha avuto come motore trainante la comunità ecumenica nigeriana (con l’accompagnamento dei missionari e delle missionarie della Consolata) e la collaborazione di altre comunità africane presenti a Torino.  L’idea di fondo è stata quella di lasciare che, per una volta, l’Africa potesse raccontarsi facendo emergere la propria storia dalle storie  personali dei suoi protagonisti, senza servirsi, come sovente accade, delle mediazioni. Il rischio che si voleva evitare era duplice: da un lato lasciare che l’Africa venisse raccontata, come spesso accade, da non africani. Dall’altro, l’appiattirsi in attività, anche pastorali, concepite senza tener conto di una diversità che reclama attenzioni particolari alle varie identità culturali. Si è voluto evitare anche l’apporto di specialisti, privilegiando la freschezza e la spontaneità dell’approccio all’approfondimento. Quattro chiacchiere tra amici o, meglio, tra gente che vuole essere amica, su temi importanti su cui si gioca la sfida del vivere insieme. Si è voluto che l’Africa raccontasse se stessa grazie alla voce di chi, nel cuore, nella mente e sulla pelle, fa leggere agli altri con chiarezza, orgoglio e semplicità il suo essere africano.
Osmund si è imbarcato in un tema difficile: la religiosità africana nel mondo del bene e del male. Ne ha parlato con entusiasmo, non da specialista, ma da persona impegnata per anni in un gruppo ecumenico che a Torino riunisce cristiani di varie confessioni, tutti di origine africana e di lingua inglese. Il suo è stato un viaggio all’interno della religiosità tradizionale, per cercare di spiegare con parole semplici il mondo dei simboli, dei riti, del mistero che influenza la visione del cosmo e l’etica dell’uomo africano. Osmund ha fatto accenno al carattere pervasivo della religiosità africana, che coinvolge la totalità della vita della persona e della comunità: nascita, matrimonio, famiglia, posterità e morte. Ha fatto accenno al difficile rapporto fra religione ed etica, con il ruolo centrale giocato dal sacerdote tradizionale, capace di influenzare la comunità attraverso il potere che gli viene attribuito dalla sua speciale relazione con il mondo degli spiriti. Un accenno importante è stato anche fatto in merito ai cambiamenti che la modeità ha apportato e continua ad apportare nel modo in cui gli africani si relazionano oggi con il trascendente.
Il carattere fortemente impregnato di religiosità della vita africana coinvolge, come si è detto, altri aspetti dell’esistenza. Kenneth, ad esempio, anch’egli nigeriano e impegnato nel gruppo cristiano-ecumenico, ha dedicato la sua riflessione al tema «famiglia e comunità». Analizzando gli stereotipi che più frequentemente deve ascoltare su questo argomento, Kenneth ha toccato temi come la famiglia tra tradizione e modeità, la poligamia, il clan, riassumendo il forte vincolo che si viene a creare fra membri della stessa famiglia con il detto africano: «Io esisto perché gli altri esistano». Il senso della comunità è così forte che la persona finisce con il non contare in quanto singolo, ma soltanto come membro della comunità. Nella sua relazione ha evidenziato come il tentativo di affermare la propria individualità venga considerato dagli altri membri della comunità come vero e proprio desiderio di prevaricazione. Ciò che si deve perseguire non è il vantaggio personale, ma l’interesse della famiglia, sia nucleare che allargata.

Il tema della famiglia ha trovato il suo sbocco naturale nella riflessione offerta da don Jean Nöel, sacerdote del Madagascar attualmente in servizio presso la diocesi di Torino. Attraverso la virtù dell’ospitalità, la forte unione familiare africana si apre verso l’esterno, verso l’accoglienza dello «straniero». L’ospitalità è rispetto, dono, dialogo. Come il relatore ha ricordato, l’ospitalità africana tradizionale trascende il confine segnato dal focolare domestico, ma si apre a tutti gli ambienti di socializzazione. La scuola, gli ospedali, gli uffici, ma soprattutto la strada, sono ambienti dove l’ospitalità viene riconosciuta come una virtù tra le più importanti, come un vero e proprio segno di accoglienza.
Suor Restituta, missionaria della Consolata tanzaniana, ha ricordato come tutti i valori in discussione (famiglia, comunità, ospitalità, religiosità) passino attraverso il ruolo della donna.  «Una donna è un fiore in un giardino – recita un proverbio del Ghana con cui suor Restituta ha voluto iniziare il suo intervento – suo marito è la recinzione intorno a lei». Vera «pietra angolare» della famiglia, la donna è l’agente propulsore della società africana: «È attraverso la sua fantasia, il suo duro lavoro, il suo elevato senso del rispetto reciproco che, ogni giorno, viene rafforzata la vita della famiglia e della comunità». Partendo dalla figura della donna, sottolineandone gli stravolgenti ritmi di lavoro quotidiano per mantenere la propria famiglia, suor Restituta si è spinta a fare delle considerazioni importanti anche sul senso stesso del lavoro e sull’uso del tempo. Due argomenti fra loro collegati e fonte di frequenti incomprensioni fra l’africano emigrante e noi, gente del Nord. Per l’africano, il senso del tempo differisce enormemente da quello frenetico al quale ci siamo abituati. Il tempo è in funzione della persona, non viceversa. Come conciliare allora la mentalità imperante del «time is money» (il tempo è denaro), con quella alternativa dell’«African time», ovvero del tempo inteso, anche e soprattutto, come occasione per incontrarsi, ascoltarsi, osservare la realtà che ci sta intorno e che rappresenta il terreno comune su cui siamo chiamati a relazionarci? Suor Restituta non ha offerto soluzioni, ma il suo appello a continuare il confronto su questo tema non deve esser lasciato cadere.
La camerunense Marie Noelle ha invece parlato di vita, morte, malattia e antenati. Lo ha fatto con grande entusiasmo e simpatia. Come non crederle, per esempio, quando ha ribadito l’amore che gli africani hanno per la musica e la danza, oppure quando ha affermato che non esiste vita senza musica, festa, stare insieme? Bastava guardarla muoversi sul palco: nel moto perpetuo delle sue gambe e nell’oscillare ritmico delle sue braccia stava la prova vivente di quanto veniva dicendo. Marie Noelle ha parlato di «vita», presente anche nella sofferenza; vita riscoperta nella malattia, nel dolore, nel lutto grazie alla forza dello stare insieme, della famiglia, della comunità.
Peter, tanzaniano e missionario dello Spirito Santo, invitato in veste di cappellano della comunità africana anglofona di Torino, ha invece messo l’accento sulla realtà delle divisioni etniche in Africa. Nel suo intervento ha ricordato che parlare di Africa vuol dire riferirsi a un universo molto complesso e variegato (alcuni relatori hanno di fatto riconosciuto che, pur parlando di tratti specificatamente africani della cultura, stavano in realtà presentando il volto nigeriano, tanzaniano o malgascio del continente) e che il forte carattere familiare e tribale, indubbio valore della società africana, può diventare causa di divisione e conflitto quando viene esageratamente esaltato.
Erasto, missionario della Consolata tanzaniano, ha fatto gli onori di casa, introducendo e cornordinando i vari interventi e aggiungendo qui e là qualche perla di saggezza e buonumore. Il resto della serata si è perso nei colori e nei suoni del continente africano. Balli, canti e una sfilata di costumi tradizionali africani hanno movimentato il pomeriggio al di là delle parole.
«Adesso viene il bello», verrebbe da dire a conclusione di questo convegno che ha riunito insieme una platea di circa 300 persone, tra cui diversi rappresentanti delle istituzioni. Il primo passo importante è stato fatto e ha coinciso con l’affermazione di un «esserci». Ora, però, rimane il tragitto più lungo, quello dell’interculturalità. Come far sì che, dall’affermazione di un’identità –  «Siamo fatti così, prendeteci come siamo» – si possa passare ad un dialogo più profondo fra le varie comunità? Questo è il nocciolo della questione e la meta alla quale questo incontro voleva puntare.
Forse si potrebbe ipotizzare un passo successivo affinché questo bellissimo ritrovarsi non si perda nell’elenco delle occasioni mancate e venga ricordato per i suoi tratti più folcloristici: quello di privilegiare una dinamica basata sul racconto delle esperienze di vita. Il migrante africano che si racconta in quanto tale, con il bagaglio della sua esperienza e della sua cultura messa questa volta a contatto con un mondo «altro» che ha incontrato. Accenni sono stati fatti, c’è buona strada per continuare il cammino e per far sì che l’incontro culturale porti frutti abbondanti in tutti i campi del nostro vivere sociale, incluso quello pastorale ed ecclesiale.  

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Raccontare in Asia la storia di Gesù

Primo Congresso missionario asiatico

Il primo Congresso missionario asiatico, già suggerito dall’esortazione apostolica Ecclesia in Asia, è stato un evento importante per la chiesa del continente. «Raccontare la storia di Gesù in Asia: una celebrazione di vita e di fede» è stato il tema generale, suddiviso in temi specifici per  ognuno dei quattro giorni (19-22 ottobre): la storia di Gesù nei popoli, religioni, culture, vita della chiesa.
Erano presenti anche due missionari della Consolata: i padri Giorgio Marengo dalla Mongolia e Alvaro Pacheco dalla Corea del Sud.

Sì, ho partecipato al primo Congresso missionario dell’Asia, svoltosi dal 18 al 22 ottobre 2006 a Chiang Mai, una città nel nord della Thailandia, che è anche sede della diocesi.  Ero integrato nel gruppo della delegazione coreana. Ho ritrovato anche padre Giorgio Marengo, con i delegati della Mongolia.
Vorrei condividere con voi ciò che ho vissuto. Ho deciso di parlarne in forma di diario.

18 ottobre 2006
Sono arrivato nella città di Chiang Mai poco prima delle 6 di sera, insieme al gruppo dei delegati coreani in cui sono inserito. Altri arriveranno domani mattina. Purtroppo, all’appello manca l’unico vescovo coreano che doveva partecipare al Congresso: a pochi giorni dalla partenza ha cancellato la sua partecipazione. Ne rimango un po’ deluso: tale assenza è un segno evidente che lo zelo della chiesa sud-coreana verso la missione ad gentes è ancora debole. 
Per prima cosa mi metto alla ricerca del nostro padre Giorgio Marengo; ma in mezzo a tanta gente, non ci riesco. Sono stanco e affamato, per cui tramando a più tardi la ricerca.
Dopo la cena, il card. Crescenzio Sepe, vescovo di Napoli, designato dal papa Benedetto xvi come suo delegato, apre ufficialmente l’esposizione missionaria nella quale ogni paese è presentato con i propri elementi caratteristici.
Sono 1.047 i delegati al Congresso, inviati da 25 paesi dell’Asia, oltre a intellettuali chiamati a intervenire, ai giornalisti e osservatori di altri continenti, dal Libano al Canada, alle isole del Pacifico, passando per il Brasile e l’Italia, tra gli altri.
Finalmente nel padiglione della Mongolia incontro padre Giorgio e il gruppo di delegati della chiesa mongola. C’è anche tempo per fare le prime conoscenze tra i tanti partecipanti. Alla fine,  condivido la stanza con padre Jaime Palma, un prete messicano dei missionari di Guadalupe, che lavora in una parrocchia nella parte meridionale della Corea e approfitto dell’occasione per scambiarci le nostre esperienze  in terra coreana.

19 Ottobre
Il tema di questa giornata è: «La storia di Gesù nei popoli dell’Asia». Incominciamo i lavori con la celebrazione della messa, presieduta dal cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Dopo i soliti discorsi di benvenuto e presentazione delle delegazioni, mons. Luis Antonio Tagle, giovane vescovo della diocesi di Imus, nelle Filippine,  presenta un’eccellente serie di punti fermi in base ai quali raccontare la storia di Gesù. Chiaro, conciso e incisivo, ci offre alcune linee guida molto pratiche, che faranno del suo discorso uno dei più belli e significativi di tutto il Congresso. Egli sottolinea quanto sia «importante, nella cultura asiatica, il racconto per trasmettere la conoscenza e la fede cristiana, ed esorta i missionari a essere concreti e narrare ai fedeli l’esempio personale del proprio incontro con Gesù».
Nel pomeriggio ascoltiamo le testimonianze di varie persone sul tema del giorno. Questa «condivisione della fede» sono parte integrante del programma. Quindi veniamo divisi in gruppi di 10 persone, di vari paesi e differenti esperienze. Dobbiamo rispondere alla domanda: «Come ho incontrato Dio nella mia vita?».
Purtroppo, dovuto al programma intenso del Congresso, il tempo per tale condivisione rimane molto limitato. Avrei preferito più spazio per gli incontri interpersonali, scambi di idee e di esperienze, e meno per le presentazioni e relazioni tematiche, in cui si parla dell’Asia come se fosse una realtà uniforme. Una rappresentazione che non condivido affatto:  la missione svolta in Corea è molto diversa da quella in Thailandia e in altri paesi. Nei lavori in gruppo questa diversità emerge con molta chiarezza.
Arrivata la sera, ci godiamo un bello spettacolo, presentato da studenti giovanissimi di vari collegi cattolici, praticamente tutti non-cristiani. In una scenografia stupenda viene presentata la storia della chiesa cristiana in Thailandia dagli inizi ai nostri giorni. La presentazione viene goduta immensamente da tutti gli spettatori:  in essa sfila la bellezza e diversità della cultura thailandese, espressa soprattutto in una miriade di fogge e colori dei costumi delle diverse regioni ed etnie del paese.

20 Ottobre
Il tema del giorno è: «La storia di Gesù nelle religioni dell’Asia». Si parla naturalmente di dialogo interreligioso. Il tono generale dei vari interventi riflette quello di ieri: una visione di uniformità per tutta l’Asia, mentre in tanti paesi tale dialogo è ancora al palo di partenza o quasi. La Corea ne è un esempio concreto.
Le testimonianze provengono da persone passate dal buddismo e induismo alla fede cattolica. Ha parlato anche un musulmano del Bangladesh sulla sua positiva esperienza con i cattolici.
Nel pomeriggio riprendono i lavori di gruppo; dobbiamo rispondere alla domana: «Che cosa apprezzo nei seguaci delle altre religioni?».  Al termine, prima di cena, viene presentata una sintesi teologica sul tema del giorno, in cui viene ribadito quanto è stato detto nel mattino.
Dopo cena, concludiamo la giornata con un momento di preghiera: recita del rosario missionario e adorazione.
Finalmente andiamo a riposare, dopo una giornata caratterizzata da un orario stringatissimo e un programma molto impegnativo, che non ha lasciato tempo per riposare o scambiare qualche chiacchiera. E cerchiamo di addormentarci in fretta, perché anche domani sarà una levataccia, dura anche per me: si ricomincerà alle 6 del mattino con la celebrazione della messa.

21 Ottobre
Il tema della giornata è: «La storia di Gesù nelle culture dell’Asia». Il mattino segue lo schema dei giorni precedenti: relazioni tematiche e testimonianze. Gli argomenti sono vari e numerosi:  società dei consumi, mass media, migranti, gioventù, rapporti tra le religioni… La domanda proposta per i lavori in gruppo del pomeriggio è: «Quali pratiche o tradizioni nella mia cultura esprimono meglio il vangelo di Gesù?».
Dopo cena ci godiamo un altro dei momenti più significativi del Congresso: è tempo di socializzazione, con la presentazione di canti, balli e  proiezioni power-points da parte di alcune delegazioni presenti. La Mongolia strappa l’applauso più entusiasta e fragoroso: il nostro padre Giorgio si è cimentato nel suonare il violino mongolo, accompagnato dal flauto di un giovane della stessa nazione; perfino il vescovo di Ulaanbaatar, mons. Wenceslaus Padilla, si è esibito, cantando una canzone in lingua mongola. Un vero successo!
Ad accrescere l’interesse e il godimento delle varie rappresentazioni contribuisce pure lo sfoggio di vestimenti e costumi tradizionali indossati per l’occasione, espressioni della varietà e ricchezza culturale dei paesi da cui provengono i partecipanti al Congresso.
A proposito di canti e balli, un gruppo di indiani, specializzato in danze tradizionali, formato da cattolici e un ballerino hindu, durante i giorni del Congresso ha eseguito alcune rappresentazioni del vangelo e altri temi religiosi. Tale gruppo è stato creato da un prete con lo scopo di evangelizzare mediante la danza, la musica e il canto: una forma suggestiva di trasmissione e inculturazione della fede. L’originale iniziativa è stata citata a più riprese durante  gli interventi ufficiali del Congresso, per sottolineare come le varie forme di proclamazione del vangelo devono essere creative e adatte al contesto in cui i missionari sono chiamati ad operare.
Prima di andare a dormire, mi fermo per quasi due ore a parlare con un vescovo indiano: egli mi parlava con entusiasmo della sua esperienza missionaria nel suo paese; da parte mia gli racconto ciò che sto facendo in Corea. La prolungata condivisione delle nostre esperienze mi convince sempre più sulla necessità, in congressi come questo, di dare più spazio e tempo perché la gente abbia l’opportunità di incontrarsi, scambiare idee ed esperienze, che rimarranno nella memoria più delle teorie presentate nelle relazioni ufficiali.

22 Ottobre
È l’ultimo giorno del Congresso. È pure la domenica in cui si celebra la Giornata missionaria mondiale. Abbiamo ancora una relazione: questa volta sulla chiesa in Thailandia. Ascoltiamo la testimonianza di un cristiano locale, da poco convertito e appartenente a una minoranza etnica.
Seguono la lettura del documento finale e i vari ringraziamenti. Culmine della conclusione è la celebrazione dell’eucaristia, presieduta dal card. Sepe. Per esprimere la comunione con la chiesa della Thailandia in generale e con la diocesi di Chiang Mai che ci ha ospitati, vi prendono parte molti cattolici locali, appartenenti soprattutto ai vari gruppi tribali, dando così un colore tutto speciale alla celebrazione.
Nonostante ciò, rimango un po’ deluso: il livello liturgico di questa messa, come pure nelle celebrazioni dei giorni passati, mi sembra alquanto freddo: accentuato ritualismo, mancanza di musica viva, di gioia…  mancanza di «Asia». Mi sembra di essere… in piazza San Pietro, più che in Thailandia.
Tuttavia siamo tutti soddisfatti delle esperienze vissute in questo primo Congresso missionario in Asia. Proprio perché è il primo, c’è spazio per ulteriori miglioramenti. Il Congresso è stato e rimane un evento importante per la storia della chiesa in Asia: tanta gente ha potuto prendere maggiore coscienza dell’urgenza della missione in questo continente; soprattutto ha avuto un’occasione irrepetibile, per almeno altri sette anni, di conoscerci e incoraggiarci a vicenda. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Cari missionari

Alla scoperta del…
Tanzania

Cari missionari,
in questi giorni ho avuto occasione di mostrare a degli amici e conoscenti alcune fotografie del Tanzania e di parlare del viaggio… con entusiasmo.
Voglio ringraziarvi di cuore per averlo organizzato e averci accompagnati, direi quasi per mano, alla scoperta di un paese, una cultura diversa, una natura bellissima, un mondo che ci ha stupito, spesso commosso e incantato.
Come avremmo potuto diversamente venire a conoscenza, vedere con i nostri occhi, le meraviglie di Baba Camillo, la tenerezza dell’orfanotrofio di Tosamaganga, «la Svizzera» di Ikonda, con il suo complesso ospedaliero, scuola per infermieri e tecnici di laboratorio, supporto e ospitalità per le famiglie dei malati? E poi, nelle varie missioni, scuole  matee e ancora orfanotrofi, dispensari, allevamenti, laboratori per trasformare caffè, olio, mais; elettricità e acqua potabile per decine e decine di villaggi; sostegno agli anziani soli nelle loro capanne… Laboratori di falegnameria, fabbricazione artigianale di stufe, calzolerie, scuole tecniche… e quanto altro occorre per tenere in vita e far prosperare missioni con dispensari e case per bambini… Come avremmo potuto scoprire un mondo di generosità, di entusiasmo, di altruismo, vedere con i nostri occhi tanta bellezza sia naturale che spirituale?
Grazie anche da parte dei compagni di viaggio, che certamente sono pieni di gratitudine per quanto ci è stato dato di vivere in quei giorni. Un conto è leggere Missioni Consolata e altro conto è constatare di persona.
Grazie  anche a tutti i missionari che ci hanno accolto con disponibilità e gioia. Che nostalgia della messa domenicale, vissuta davvero come «la festa», così ricca di canti, danze e allegria…
Il Tanzania è un paese bellissimo, a cui ci si deve avvicinare in punta di piedi, con estremo rispetto, con cuore e occhi di bimbo, capaci di meravigliarsi e apprezzare quanto il Signore continua a disseminarvi.
Agnese Lorenzini Valleri
Torino

Iniziativa
da continuare

Cara Redazione,
a nome del gruppo missionario della parrocchia di San Giuseppe di Vicenza, ringrazio per le riviste missionarie inviateci, che ci hanno permesso di realizzare una iniziativa missionaria, che ha raggiunto tutte le famiglie credenti e non del quartiere. La distribuzione della stampa ha permesso ai componenti il gruppo missionario di contattare molte persone, orientandole a seconda della loro sensibilità e interesse. Ci auguriamo di continuare l’esperienza, per sviluppare e approfondire la coscienza missionaria nel piccolo contesto del nostro quartiere.
Annamaria Colombaro
Vicenza

Anche noi vi auguriamo di continuare e saremo felici di aiutarvi.

Il 2007 con la
Populorum Progressio

Caro Direttore,
grazie come sempre per il numero di Missioni Consolata di ottobre-novembre dedicato all’Europa.
Ma grazie soprattutto per il calendario: mi ha commosso la scelta della Populorum Progressio e il ricordo di quel grande profeta di pace che fu Paolo vi: «Voce che grida nel deserto», anticipando l’aspirazione di giustizia degli uomini e dei popoli d’oggi.
Andrea Fedeli
Roma

Che l’anno del Signore 2007 porti la pace vera a tutti i popoli e aiuti tutti noi ad essere costruttori di pace!

Un lettore… confuso

Egregio Direttore,
a seguito di un’offerta inviata per una vostra missione, avete fatto invio del n. 10-11 della rivista Missioni Consolata. Vi ringrazio, ma vi pregherei di sospendee l’invio, perché sono invaso da stampa cattolica-missionaria.
Ma l’altro motivo per cui vi scrivo la presente è l’articolo «Europa: terra di speranza millenaria» a firma di un certo Paolo Farinella. Questi è riuscito, per ben 11 pagine, a disquisire dai regimi atei alle orde di immigranti, dalla difesa della civiltà occidentale ai «riformatori» cattolici Don Milani, don Mazzolari e altri. E non poteva certo mancare il richiamo a Marx, Engels e Darwin e via dicendo, raccontando con affastellamento di argomenti, opinioni che hanno finito per creare nel lettore una confusione incredibile.
Tant’è che il lettore, infine, si è chiesto cosa volesse raccontare l’insigne biblista, dove intendeva parare, quale è stata la filosofia di vita suggerita e le conclusioni. Poiché la sua sintesi in 9 punti è, per alcuni, quantomeno discutibile, è ferma restando la via maestra dettata dal vangelo.
Luciano Girardi
S. Vito al Tagliamento (PN)

Concordo con il sig. Girardi sulla lunghezza dell’articolo in questione. Ma non penso che gli altri lettori di M.C. siano rimasti confusi: da due anni essi conoscono e apprezzano gli scritti di don Farinella; soprattutto, sanno che, per comprenderli bene e gustarli, bisogna leggerli con calma e più di una volta.
Sono anche d’accordo che la strada maestra è quella del vangelo, seguita anche da don Milani, Mazzolari e altri «riformisti». Il loro messaggio, oggi, è valido più che mai; è soprattutto scomodo; per questo i loro nomi, solo al pronunciarli, causano una specie di urticaria in certi settori della società e della stampa che si ritengono «cattolici».


Acqua sprecata… nei campi da golf

Cari missionari. Nel bel dossier sull’acqua (cfr. M.C. n. 6/2006) si parla, tra l’altro, dell’incidenza che certe nostre cattive abitudini hanno sul bilancio idrico globale. In particolare M. De Paoli stigmatizza gli eccessivi consumi domestici degli italiani (250 litri d’acqua potabile al giorno, contro 159 degli svizzeri e 119 degli svedesi…) e il fatto che appena l’1% di quest’acqua viene bevuta, mentre «il 39% se ne va in igiene personale, il 20% per il wc, il 12% per la lavatrice…».
È un tipo di approccio sul quale anche le amministrazioni locali puntano molto. Chi non ha mai sentito il proprio sindaco e gli assessori competenti raccomandare un uso più limitato, più sano e  responsabile dell’acqua? Chi non ha mai partecipato ad assemblee e dibattiti organizzati dal comune, provincia o regione, in cui il relatore di tuo supplicava di fare la doccia piuttosto che il bagno in vasca, chiudere il rubinetto mentre spalmiamo il dentifricio sullo spazzolino, dare alle piante del giardino solo l’acqua realmente necessaria, non usare il tubo quando laviamo l’auto o la moto e persino di ridurre al minimo l’uso dello sciacquone della tornilette?
Sono esortazioni e consigli ineccepibili, che però una parte considerevole della popolazione mostra di tenere in bene misera considerazione. E mi domando: se tanta gente continua a sprecare acqua, non è anche perché è venuto meno il senso di appartenenza alla comunità civile, al territorio, allo stato? Stato e amministratori locali non potrebbero essere più coerenti? Come si può pensare di incentivare il risparmio idrico, se si rinuncia a dare il buon esempio e si cede alla suggestione di un business come quello del golf? Che testimonianza di serietà e rigore danno quelle giunte che rilasciano permessi per la realizzazione di campi da golf di dimensioni enormi, pur sapendo che enorme sarà anche la quantità d’acqua che se ne andrà per mantenere queste superfici in buone condizioni?

«Nel mondo – scriveva nel 1993 Renzo Garrone, fondatore di RAM, associazione di turismo responsabile – esistono circa 24 mila campi da golf e altre migliaia in costruzione o già pianificati. In media uno di essi misura circa 100 ettari di superficie. La loro proliferazione implica severi contraccolpi per le comunità locali: perdita forestale, sottrazione dei terreni agricoli, spoliazione delle risorse idriche, contaminazione dei suoli con pesticidi e diserbanti.
Per mantenere l’erba florida e verde, un campo da golf necessita di 4-5 mila metri cubi d’acqua al giorno: l’equivalente di quanto viene usato in un villaggio thailandese di 1.200 persone per bere e lavare, eccettuando gli scopi agricoli. Un’estensione a golf consuma, per mantenersi verde, tanta acqua quanto un uguale campo di riso. È ammissibile che terre buone, spesso le migliori terre agricole, e acqua in quantità enormi debbano essere destinate così massicciamente all’industria dello svago, specie in paesi dove i problemi di sussistenza quotidiana sono lungi dall’essere risolti?
Sotto il manto erboso va scavato un complesso e ramificatissimo intrico di canaletti, che servono all’irrigazione: il territorio da trasformare in campo da golf va quindi rivoltato come un guanto e poi continuamente curato. Massiccio è l’impiego di erbicidi e pesticidi, poi dilavati nelle acque della zona.
Altri risvolti sociali vengono messi sotto accusa. Nelle aree destinate a campi da golf, esplodono i prezzi della proprietà fondiaria, mentre una  modalità aliena al vivere locale (col golf arriva il resto dello sviluppo legato al turismo d’evasione) portano sempre con sé corruzione, ulteriore disuguaglianza economica, violazione dei diritti umani, criminalità. Se autorità e governi accolgono generalmente con favore questa ondata di investimenti, solo le élites ne beneficiano davvero, mentre la gente comune viene privata della terra».

Tra il 1993 e il 2005 il numero dei campi da golf nel mondo è passato da 24 mila a 30 mila con un aumento del 25%. Il numero complessivo dei golfisti ha superato quota 50 milioni: di questi, 5 milioni sono europei e 70 mila italiani. Di questi italiani, secondo Fulvio Golob, direttore di Golf  turismo, almeno 10 mila periodicamente «migrano» in cerca «di sole e nuovi scenari con cui confrontarsi…».
«I nuovi scenari» sono proprio quelli denunciati da Garrone: paesi africani, del sud-est asiatico, dell’America Latina. Paesi poveri e indebitati, dove l’elevato Pil è un indicatore di degrado, frutto di sciagurate politiche economiche, che hanno calpestato i diritti umani più elementari (a cominciare dal diritto alla vita…) e portato gli ecosistemi al collasso.
Non mi risulta sia stata trovata una formula magica in grado di rendere i campi da golf meno esigenti in fatto di acqua. Quando  qualcuno l’avrà trovata… forse potremo cominciare a parlare di «golf etico», come parliamo di caffè etico, cacao etico, banane etiche… Per ora, se ci teniamo davvero a essere etici, equi e solidali anche su questo versante, se desideriamo che la risorsa acqua sia ovunque gestita in maniera responsabile e rispettosa dei diritti di ognuno, l’unica cosa che possiamo fare è opporci con decisione al golf, senza demoralizzarci quando ci accorgiamo di essere in minoranza e senza farci spaventare dalle solite accuse di «oscurantismo», «estremismo», «comunismo», «ecoterrorismo»…, lanciate da uomini e donne che, pur militando in partiti che sembrano acerrimi nemici, quando di mezzo ci sono certi business, riescono a raggiungere un’identità di vedute praticamente perfetta e a costruire alleanze inaffondabili.

Luciano Montenigri, Fano (PU)




La persona umana: cuore della pace

Primo gennaio 2007: 40ma Giornata mondiale della pace

F u Paolo VI, 40 anni fa, a «lanciare l’idea» di una «Giornata della
pace», da «celebrarsi alle calende di ogni nuovo anno» (1° gennaio).
Con un messaggio chiamava cristiani e «mondo civile» a riflettere e
impegnarsi nella costruzione di una «pace vera, giusta ed equilibrata,
nel riconoscimento sincero dei diritti della persona umana»; una pace
che «non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della
vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità,
la giustizia, la libertà, l’amore».
Anno dopo anno, siamo giunti alla 40a Giornata Mondiale della Pace, che
ha come tema: Persona umana, cuore della pace. «Sono convinto – afferma
papa Benedetto xvi nel suo messaggio per tale celebrazione – che
rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si
pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si
prepara un futuro sereno per le nuove generazioni».
Tale dignità, continua il papa, è dono di Dio, che ha creato
l’uomo  a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27), ed è compito
al tempo stesso, che chiama «l’essere umano a maturare se stesso nella
capacità d’amore e far progredire il mondo, rinnovandolo nella
giustizia e nella pace. Con un’efficace sintesi sant’Agostino insegna:
“Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di
noi”». Dalla consapevolezza di tale trascendenza deriva che «anche la
pace è insieme un dono e un compito. La pace, infatti, è una
caratteristica dell’agire divino, che si manifesta sia nella creazione
di un universo ordinato e armonioso come pure nella redenzione
dell’umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del
peccato… La pace è anche un compito che impegna ciascuno a una
risposta personale coerente col piano divino», poiché nella coscienza
della persona umana sono scritte «l’insieme di regole dell’agire
individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia
e solidarietà».
Molti i temi toccati nel documento, in cui si evidenzia la stretta
relazione tra la persona umana e la promozione della pace; temi seguiti
da relativi richiami e denunce. Prima di tutto il diritto alla vita, in
cui viene denunciato «lo scempio che di essa si fa nella nostra
società: accanto alle vittime dei conflitti armati, terrorismo e
svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate da
fame, aborto, sperimentazione sugli embrioni ed eutanasia». A riguardo
della libertà religiosa viene lamentato come in molte parti del mondo i
cristiani siano perseguitati o dileggiati.
Un seconto tema riguarda l’affermazione «dell’uguaglianza di natura di
tutte le persone», denunciando «da una parte le disuguaglianze
nell’accesso a beni essenziali, come cibo, acqua,  casa, salute;
dall’altra, le persistenti disuguaglianze tra uomo e donna
nell’esercizio dei diritti umani fondamentali».
La seconda parte introduce un concetto innovativo:  l’«ecologia
della pace». «Chi ha a cuore la pace deve tenere sempre più presenti le
connessioni tra l’ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e
l’ecologia umana su cui organizzare la società», afferma il papa,
facendo riferimento anche al problema dell’energia e dei rifoimenti
energetici, con uno sguardo speciale ai paesi in via di sviluppo o
sottosviluppo. 
Nel 2007 ricorre pure il 40° anniversario dell’enciclica Populorum
progressio, un documento di Paolo vi più attuale che mai. Per questo,
lo abbiamo scelto come guida del nostro calendario: «365 giorni con
l’enciclica Populorum progressio». Ogni mese troveremo una delle
affermazioni più significative, che ci stimolano a camminare sulla via
della promozione dello «sviluppo integrale di ogni persona, di tutta la
persona e di tutti i popoli», poiché, come afferma un’espressione
finale della stessa enciclica, con un motto che ha valore: «Lo sviluppo
è il nuovo nome della pace».
«Se in questi 40 anni l’insegnamento della Populorum progressio, tanto
profetico, fosse stato ascoltato, non saremmo nella situazione attuale
del mondo» afferma il cardinal Poupard.
Non perdiamo altro tempo.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi