CATTOLICESIMO

 

La pace: riposo di dio nell’uomo

Nelle parole di Gesù raccolte dai vangeli, la pace assume un significato particolare: esprime un’integrità dell’uomo, effetto della grazia di Dio.
È la sua forma intatta, così come il Signore la concede: per questo «pace» non appare tanto come antitesi di «guerra» (in senso militare), quanto di «peccato» (lo stato di inimicizia interiore dell’uomo).
Del resto, «in pace» è l’espressione ebraica tipica di chi esce incolume da un incidente che avrebbe potuto causargli seri danni fisici.
Anche nel Primo Testamento era assente il riferimento alla pace come interruzione di un conflitto armato: Dio è anche il «Dio degli eserciti» del popolo di Israele.
Anche nella massima «vita militia est», che sintetizza l’impegno del cristiano nel mondo, il combattimento è certo spirituale, ma non per questo perde le sue caratteristiche di battaglia.
Il cristianesimo delle origini non sceglie la pace come opzione culturale o esistenziale, piuttosto la chiede come dono ricevuto gratuitamente da Dio. Le parole di Gesù erano chiare al proposito: «Vi do la mia pace… non come la dà il mondo».
La pace cristiana non è dunque la classica eirené, il rilassamento del saggio, bensì una tensione dell’inquieto cuore alla meta, poiché essa sola è pacifica. Consiste nella carità, cioè nell’amore di Dio: nel doppio senso di amore che il credente prova per Dio e che Dio manifesta al credente.
La storia della spiritualità cattolica successiva è anche la storia delle forme che la pace assume nella vita degli uomini e delle società, dopo che le comunità si sono espanse nell’ecumene romana.
In pieno medioevo, il padre della chiesa san Beardo di Chiaravalle era «doctor mellifluus», cantore estasiato di Maria Vergine e delle dolcezze della vita contemplativa, ciò non gli impediva di farsi anche predicatore della crociata.
Prima di lui, da sant’Agostino («il mio cuore è inquieto finché non riposa in te») a sant’Ambrogio («Dio trova riposo nell’uomo»), la pace è stata vista e vissuta come dono di Dio all’uomo, che vive nelle vicissitudini terrene, ma rientra nell’alveo della fiducia (preghiera, lode, sacrificio…).
Sempre in tempi medievali, la pace è pace dell’anima e appartiene all’altra vita: qui gli esempi maggiori, e più noti, sono il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi e la sua preghiera «O Signore, fa’ di me un istrumento della tua pace». Se ne ricorderà Dante, raffigurando l’inferno come assenza di pace, in quanto assenza di Dio dall’anima dell’uomo (dannato), e il paradiso come luogo di coloro che hanno fatto già in vita spazio al Creatore: «e ‘n la sua volontade è nostra pace» (Piccarda, Par. III,85).
Petrarca è invece il prototipo dell’ambivalenza umanistica e poi modea, nel suo sonetto «Pace non trovo et non ò da far guerra».
Nel Cinquecento spagnolo, il grande mistico carmelitano san Giovanni della Croce, nel Cantico Spirituale, pone il quesito all’anima modea: si va al Dio della pace attraverso la «notte oscura» della tribolazione.
La pace cattolica dopo le rivoluzioni scientifica e illuminista è rappresentata dal Manzoni nella «notte dell’Innominato» e anche nel viaggio di Renzo verso l’Adda, in fuga dalla Milano appestata: è una pace temporanea, ma radicata nel mistero della vita dopo la morte.
Un romanziere contemporaneo, Eugenio Corti, rappresenta la condizione dell’uomo in guerra ne «Gli ultimi soldati del re»: la pace è l’amore per Dio e i fratelli, anche in circostanze estreme, anche in guerra, non odiare mai! La pace cattolica si condensa nell’amore verso il prossimo, che è specchio e sostanza purissima dell’amore per Dio; dicono i padri: «Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio».

Andrea Sciffo


Il papa: risorsa formidabile per la pace

Oggi sono invitato a parlare come «testimone». Ruolo inedito per un prete, che sempre rischia di scadere a fare il predicatore! Ma noi cristiani siamo chiamati «a rendere ragione della speranza che è in noi», a essere proprio e solo questo: testimoni! Anch’io, «prima di essere prete per voi, sono cristiano con voi» (s. Agostino). E ho accettato, prima come cristiano e poi come cattolico! Non per tradire la mia identità, ma per valorizzarla!
La chiesa cattolica (nel senso di universale) nasce con la controriforma nel xvi secolo, in contrapposizione a Lutero: quindi per differenza, per guerra!
Gesù l’aveva detto: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada, a mettere figli contro padri, uomo contro donna…». La pace non è quieto vivere e non è cristiana, se confusa con il buonismo.
Il cattolicesimo immediatamente richiama papato e Vaticano: formidabili risorse. Disporre di un’unica autorità ci conferisce, all’interno, unitarietà nella fede, garanzia di messaggio e di verità, perché il pericolo della dispersione è tremendo. All’esterno ci rafforza «politicamente» (in senso alto, non partitico) nella società internazionale, e ci libera dai poteri forti, economici e politici.
I veri padroni del mondo, 200 famiglie ricche quanto 2 miliardi di uomini, fanno molta paura agli Usa e agli arabi, ma non intimoriscono la chiesa cattolica!
Il rappresentante vaticano all’Onu subisce le stesse pressioni di tutte le altre religioni, eppure è libero di parlare nell’interesse di tutta l’umanità senza timori reverenziali verso alcuno. Giovanni Paolo ii, pur inascoltato, ha detto chiaro a Bush: «Non fare questa guerra». La pace che la chiesa cattolica porta si fonda sulla forza della pulizia e della libertà… non sulle armi.
Potere esprimere questa autorevolezza col volto del papa è una fortuna mediatica, che le altre religioni non hanno.
Osama Bin Laden è il volto degli islamici, ma non ne rappresenta che il 2%. Il buddismo ha il Dalai Lama, ma non tutti quelli del passato avevano la stessa comunicativa dell’attuale.
Il papato ha anche evitato ai cattolici di avere chiese nazionali come, purtroppo, hanno gli ortodossi. Le loro chiese: greca, russa, rumena… sono distinte fra loro e tutte rischiano pericolose identificazioni politiche ed etniche con i propri stati.
Quanto a quelle protestanti, alcune (specie le più americane: battisti, mormoni e altri) spesso si piegano agli interessi delle multinazionali. Nessuno ha l’autorevolezza del papato nel porsi come primo ostacolo alle guerre «per la democrazia» o «del sottosviluppo».

Passando dalla diplomazia alla nostra realtà quotidiana, io ringrazio gli immigrati! Venendo da noi e portando con sé le proprie convinzioni, stanno sconquassando la nostra società svuotata di valori e passioni. Risvegliano nei cattolici incolori l’esigenza di una più consapevole e sana identità, di scelte coerenti, e la capacità di argomentare le ragioni della propria fede: la pace non va confusa con l’inerzia! E favoriscono il dialogo interreligioso che definisco come: confronto e arricchimento reciproco. È bello quando mi parla di Dio, col secchio in mano, il muratore musulmano che lavora nella mia chiesa!
Quanto alla reciprocità dobbiamo rivendicare la nostra libertà di non averla. È giusto che la chiedano i politici e governanti… Ma i cristiani no! Gesù ci ha insegnato a porgere l’altra guancia ed è morto per tutti, lui solo!
Nella chiesa i laici devono contare di più, ma essere più sanamente laici, consapevoli delle proprie ricchezze culturali, orgogliosi di un maestro come Cristo, ma non «più papisti del papa» e integralisti, ovvero pericolosamente ignoranti…

 Don Armando Cattaneo


DOMANDA

Pace come riposo in Dio, bello… ma se uno non crede? E non chiedere reciprocità non è vergognarsi di Dio?
Il riposo del cuore non deve arrivare troppo presto: la fede è ricerca e fatica; spesso è difficile da trovare. La pace cristiana è una ricerca esistenziale, non intellettuale, ma non è mai disperata. Ad Auschwitz si chiedeva: «Dov’è Dio adesso?». «È là, impiccato con le altre vittime» fu la risposta. Nelle difficoltà il mio prete di paese mi raccontava sempre questa storia: «Quanto è alta la burrasca? Anche la burrasca più alta non supera i 40-50 metri; ma il mare è profondo migliaia di metri… e sotto la burrasca c’è la pace».
Vergogna? No, solo chi accetta il dialogo ha forza e la dimostra; più si è insicuri e più ci si irrigidisce. L’incontro interreligioso di Assisi nel 1986 è stato un segno di grande forza di papa Wojtyla.
Don Cattaneo

Andrea Sciffo, insegnante di lettere, giornalista e scrittore, studioso di letteratura e costume, ha frequentato la scuola di teologia per laici del decanato di Monza e la facoltà di teologia al Pontificio ateneo della Santa Croce in Roma. Collaboratore del centro culturale Talamoni di Monza, ha pubblicato saggi e prose e scrive per vari mensili (Studi cattolici, Fogli, Il Testimone).
Armando Cattaneo, parroco a Cinisello Balsamo (MI), giornalista e scrittore, fondatore e direttore per vari anni del Circuito Marconi (network radiofonico di 25 radio private cattoliche in tutta Italia), ha di recente fondato il sito www.jesus1.it, di cui è direttore. Collabora con la rivista Famiglia Cristiana.

Andrea Sciffo e Armando Cattaneo




PROTESTANTI E ORTODOSSI

Troppa religione  crea conflitti

Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.
La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.
La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.
Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.
Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.
La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.
Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: foiscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.
Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.
In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.

Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.
Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.
Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione intea), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.
In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti.

Giampiero Comolli

La fede…non è mai troppa

Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.
Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.
Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti… Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.
La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.

Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.
Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.
Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan…) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).
Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.
Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.

 Giovanni Genre

DOMANDA

Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.
Comolli

L’appartenenza alla chiesa aiuta; la chiesa è necessariamente comunitaria. Ho bisogno di confrontarmi con gli altri, di pregare assieme. Non può esistere un mondo a-religioso. D’altra parte è vero che in occasione dei conflitti le religioni sono strumentalizzate, ma sono anche convinto che le chiese hanno un po’ lasciato fare e non hanno denunciato a sufficienza i genocidi.
Genre

Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.
Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.

Giampiero Comolli e Giovanni Genre




EBRAISMO

Il sentirnero di Isaia

Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi aesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani… Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentirnero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.
In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a essee il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.
Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.
Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.
Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.

In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.
Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.
Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d’Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.
La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.

Don Paolo Farinella

Più vicini a dio, più luce ci sarà

L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.
I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.
Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.
A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintornisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.
I l popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»… di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.
Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.
È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.
Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.
Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!
Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!

Rabbino David Sciunnach

DOMANDA

Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».
Rabbino Sciunnach

Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ben noto ai lettori di Missioni Consolata per la rubrica biblica «Così sta scritto» da lui curata e per altri articoli di attualità, ha grande esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.
Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.

Paolo Farinella e David Sciunnach




ISLAM

Il dialogo tra esperti non basta

All’islam fanno riferimento 1 miliardo e 200 milioni di persone: un quinto della popolazione mondiale.
Islam deriva da una radice linguistica araba che indica sottomissione all’unico Dio (in arabo Allah): è il messaggio annunciato da tutti i profeti, da Abramo a Maometto. Al suo tempo (vi sec. d. C.), la penisola arabica era pagana e politeista e la Mecca ne era la capitale.
Il Corano, voce di Dio, raccoglie, non cronologicamente, i 24 anni della predicazione di Maometto. Per toni e contenuti, riferendosi a tempi e realtà diverse, le sure meccane sono decisamente contrapposte rispetto alle sure medinesi.
Nel primo periodo, predicando la giustizia sociale, Maometto forzatamente si scontra con la borghesia della Mecca, che lo perseguita. Quindi cerca alleati fra la «gente del libro», ebrei e cristiani, che lusinga con versetti del Corano pacifici e tolleranti sulla libertà religiosa.
Dopo l’Egira, la migrazione a Medina, città del Profeta, da perseguitato Maometto diventa potente guida politica e militare. Versetti a carattere giuridico e contradditori rispetto ai precedenti rispecchiano la nuova situazione di guerra ed espansione politica.
Poiché per un musulmano è peccato non citarlo alla lettera, qual è dunque il vero Corano? Quello spirituale o quello che è legge, sharia, e codifica tutte le sfere della vita? Problema di rilievo per gli stretti legami fra religione, stato e società nel mondo islamico: realtà ben diversa da quella del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

Politicamente, fino al 1924, quando fu abrogato dal turco Kemal Ataturk, l’islam aveva il califfato (il califfo era il successore di Maometto), istituzione corrispondente al papato per i cattolici. Così oggi, in ogni stato, sono il grande mufti o l’ayatollah a emanare fatwa giuridiche sulle questioni poste dalla modeità: ad esempio, per chiarire se i kamikaze siano martiri o suicidi (l’islam vieta il suicidio). Mancando un’autorità centrale, la loro autorevolezza dipende dal seguito che raccolgono.
Negli ultimi 50 anni, i musulmani in Europa sono cresciuti da 800 mila a 19 milioni e pongono nuovi problemi. Se in Occidente un musulmano vede solo i vizi della società, pretende di imporvi l’islam, nato proprio per riportare l’umanità sulla retta via, dalla quale ebrei e cristiani si erano allontanati. Ecco perché la pace è possibile solo quando le identità sono chiare.
Le differenze dottrinali sembrano sottigliezze, ma non si può sottovalutarle. Teologicamente mai Maometto potrà essere un profeta per i cristiani. Lo è invece Gesù per i musulmani, che però non lo credono Figlio di Dio. Recedere da questa posizione sarebbe un tradimento, un’apostasia.
Poiché un musulmano fa parte della umma, la comunità islamica, il tradimento non riguarda un solo individuo, ma il gruppo e di conseguenza viene contrastato in modo molto forte.
Dunque l’Europa è un campo di addestramento alla convivenza. Il dialogo tra esperti, però, non porta da nessuna parte, se non è esteso a tutti i credenti.
Oggi non esiste un pericolo dell’islam, ma un pericolo nell’islam. La domanda che dobbiamo porci è quale sia la differenza tra religione e fondamentalismo.
Il mondo islamico è suddiviso in un 5% di moderati, un altro 5% di estremisti e un 80% di persone a metà fra queste due posizioni. Purtroppo è più facile si aggreghino al 5% di violenti!
Sono i musulmani che devono risolvere il problema. Possono riuscirci mantenendo distinte religione e politica e introducendo nelle loro società un maggiore rispetto dei diritti umani. È questo che dobbiamo chiedere loro.

Camille Eid

Diffondere l’islam moderato

In Europa i musulmani dovrebbero trovare ciò che l’Europa ha di positivo. Non è solo un problema d’identità e purezza, ma anche di spiritualità e cultura, che mancano sia in Occidente sia dove l’islam è dominante. Un tempo si costruivano con l’anima le cattedrali, ma anche le case. Si metteva l’anima in tutto quel che si faceva. In ogni ambito della vita si era in contatto con la dimensione cosmica, con Dio.
Oggi i musulmani immigrati in Occidente non vi trovano l’anima e allora… anche loro chiedono diritti. È più diffusa la cultura del diritto che quella del dovere.
Negli stati governati dall’islam, come anche in Europa, consideriamo più importante avere il cimitero separato, ma abbiamo perso il significato spirituale della nostra religione. La continua ripetizione: io, noi… è deleteria. Dimentichiamo che anche gli altri hanno gli stessi desideri.
Però quando si parla di scontro fra Oriente ed Occidente, mi chiedo: qual è l’Occidente? Dove comincia? Anche il cristianesimo è arrivato dall’Oriente ed è molto simile all’islam.
Nel Corano Gesù è osannato e definito «segno di Dio». È superiore a Maometto ed agli altri profeti, semplici mortali. L’islam non crede alla sua morte, e quindi neppure alla sua resurrezione, però lo crede asceso al cielo. Nel Corano si parla della seconda venuta di Gesù, che regnerà per 40 anni e guiderà contro l’Anticristo un esercito di musulmani, nel senso di sottomessi a Dio. Poi ci sarà il giudizio.
Gesù faceva miracoli: ridonava la salute, la vita… Maometto no: il suo vero miracolo è il Corano, visto che non sapeva né leggere né scrivere! Il Corano dice: trattatevi bene, non attaccate chiese, monasteri, scuole… Nella vita di Maometto diversi episodi testimoniano l’amicizia con i cristiani. Come il permesso di pregare nella sua moschea accordato dal profeta a ebrei e cristiani. Anche Giovanni Paolo ii vi ha pregato a Damasco.
Nei testi c’è questo; poi nei fatti i comportamenti degli uomini purtroppo sono diversi e non sempre rispettano i precetti delle scritture.
La vera differenza col cattolicesimo è che l’islam non ha nulla di corrispondente al Vaticano. I mufti emettono verdetti giuridici (le fatwa) il cui valore dipende dal consenso che raccolgono e dal gruppo che le sostiene. Alla fine prevale l’opinione più diffusa, ma nessuno può mai dire che la propria è l’interpretazione giusta; e resta solo il Corano. Esistono quindi tanti diversi musulmani: arabi, turchi, marocchini, indonesiani… Anche in Italia ci si chiede: «Di quale moschea sei?».
Ed è vero che abbiamo problemi storico-politici. Le violente manifestazioni nei paesi islamici, in risposta all’offesa delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, sono state evidentemente consentite, e volute, dai governi.
In Nigeria ci sono masse frustrate e ignoranti che non sanno neppure dove sia la Danimarca. In Siria non si può neppure parlare con un taxista senza che il governo lo sappia. È comunque un problema il fatto che i contrasti irrisolti interni agli stati trovino sfogo in questioni interreligiose. Si tratta di strumentalizzazioni politiche, finalizzate alla ricerca del consenso. È stato così anche a Timor Est e in Sudan.
Forse è proprio un vantaggio il fatto che non esista un solo islam, paradossalmente potrebbe essere un nemico pericoloso, soprattutto per la sua renitenza alle riforme!
Per chiudere devo però segnalare anche il disinteresse dei media a diffondere una cultura islamica moderata. Emarginato dall’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia) perché critico sul terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi non fondamentalista, anche ai media non interesso più!

 Ali Schuetz

DOMANDA

Come si pone l’islam nei confronti di atei, agnostici, non praticanti? E cosa accadrebbe se in Europa i musulmani arrivassero al 51% della popolazione?
Il Corano dice che non c’è costrizione nella fede e la libertà deve essere garantita. Kafir, il termine che indica i miscredenti da combattere, ha un significato attivo. Si riferisce a coloro che operano per occultare la fede, mistificandola, e che attivamente contrastano chi la professa. Loro prototipo è l’Anticristo.
Non c’è una maggioranza musulmana che vuole governare in Europa in senso islamico. Una buona percentuale ne parla, ma è una posizione che sta cambiando, e su questi temi è in atto uno scontro durissimo nelle comunità islamiche.
Schuetz

Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da anni in Italia, è un grande conoscitore del mondo arabo e islamico, particolarmente dei rapporti fra cristianesimo e islam. Collabora con varie testate cattoliche; è autore o co-autore di: Osama e i suoi fratelli, atlante mondiale dell’islam politico; Libano e Siria; Cento domande sull’islam; I cristiani venuti dall’islam.
Ali Schuetz, italo-svizzero, da tempo residente in Italia, di padre protestante, educato nel cattolicesimo, nel 1979 si è convertito all’islam. Per anni attivo nei centri islamici di Milano, già vicepresidente Ucoii, è responsabile dei rapporti col mondo cattolico, attivo nel dialogo interreligioso, pubblicista e consulente culturale.

Camille Eid e Ali Schuetz




BUDDISMO

Generosità: primo gradino per la pace

Il buddismo è stato fondato dal Buddha Sakiamuni. Nato in India nel 500 a.C., quindi di religione indù, ebbe l’intuizione della sofferenza, da cui cominciò il suo insegnamento. Uomo qualsiasi, con esperienze comuni a tutti gli individui normali, è quindi una figura storica, nonostante la sua realtà umana sia «condita» di leggenda.
Sakiamuni diffuse le conoscenze dai bramini (indù) al popolo, proponendo una liberazione non solo spirituale ma anche concreta e la rivalutazione della figura femminile (ad esempio, prima non c’erano monache). Comunque resta anche lui un po’ maschilista: nella tradizione tibetana i monaci hanno 253 ordini (voti), le monache 436!
Pur nascendo come una filosofia, a mio avviso, il buddismo può essere considerato una religione. Di essa ha, ad esempio, gli ordini monastici. Il fatto che Buddha non abbia parlato di Dio non è perché non ne ritenesse vera l’esistenza, ma perché la figura di Dio è indicibile e la mente umana non può comprenderlo. Penso questo, nonostante sul suo insegnamento ci sia incertezza: sono infatti trascorsi tantissimi anni e altrettante interpretazioni prima che si cominciasse a trascriverlo.
Storicamente in India il buddismo diventa anche religione di stato, ma ne viene espulso dai bramini dopo 700 anni. Successivamente fece presa nel nord della Cina, Giappone, Corea… e oggi in Occidente.
Cercando di adattarsi all’ambiente sociale in cui viene a trovarsi e innestandosi in tutte le culture dei paesi dove arriva, il buddismo ne ingloba le tradizioni locali. Questo genera tante scuole diverse, che seguono differenti tradizioni, legate a quella originaria e tutte fondate sul concetto base e comune della sofferenza.
In Tibet, ad esempio, avviene il sincretismo con la preesistente tradizione sciamanica, che porta a sviluppare il metodo della visualizzazione. In Giappone, invece, si sviluppa un altro modo di concentrarsi: lo zen. Infatti le differenze nell’ambito del buddismo sono legate alla meditazione, assimilabile in un certo senso alla preghiera, perché esistono tanti modi diversi per praticarla e pacificare la mente e gli animi.
Il buddismo, non proponendo una fede o dogmi ma un obiettivo, è una tradizione trasversale applicabile a tutte le religioni e fondata su quattro nobili realtà, fra cui pacifismo, equilibrio, armonia… L’illuminazione (realizzazione) della persona nasce dalle sue esperienze e qualità, la «buddità» viene dall’interno, impegnandosi e agendo secondo i principi di pace, armonia e positività.
Nessuna preghiera e influenza estea ci può cambiare se non vogliamo cambiare noi. Le scritture (per quanto possano essere attendibili, visto quanto detto in precedenza) e il maestro possono solo indicarci la via.
Desiderio, avversione (discriminazione) e confusione mentale (per desiderio ci creiamo illusioni) sono i tre elementi fondamentali che ci impediscono di redimerci. L’io e il mio condizionano la nostra esistenza. In sostanza il buddismo è una religione facile da descrivere e difficile da attuare.
All’attuale realtà di guerre il buddismo si rapporta considerando alcune parole chiave, fra cui altruismo, compassione, generosità… L’amore è augurare a tutti di essere felici; la compassione è far di tutto per vincere la sofferenza altrui.
Il primo gradino per costruire la pace è la generosità: il saper dare. Molti amici della tradizione buddista sono impegnati per la pace, ma se non la viviamo nel nostro quotidiano, anche praticando il dubbio, dal quale nascono la ricerca e la capacità di migliorarsi, questo genere di impegno è un impegno inutile.

Lama Paljin Tulku Rinpoce

In ogni persona brilla una fiamma

Qualsiasi riflessione sulla pace deve partire dal presupposto che nel cuore di ogni persona brilla sempre una fiamma, una scintilla d’intelligenza. Bisogna poi recuperare la consapevolezza, la forza del «sentire» e del sentirsi parte di un tutto: se io respiro, l’intero universo respira; se raccolgo da terra un mozzicone, è l’intero universo che compie questo gesto; e sbaglia chi, vedendomi, pensasse che sto pulendo il marciapiede: è il mondo che sto pulendo!
È il principio di separazione dal tutto che genera i conflitti. Il buddista rispetta tutti e tutto, perché sa che compongono il «Tutto Universale», al quale appartiene anche lui. Togliendo qualcosa all’universo, lo togliamo anche a noi stessi, e viceversa.
È fondamentale l’azione della persona, il far bene quel che si fa: perché serve al mondo. È la nostra vita che deve essere messa in gioco e costruita sui grandi pilastri dell’Armonia, del Rispetto, della Purezza, e della Pulizia interiore. Non è attraverso il male degli altri che si raggiungono la felicità e la realizzazione di sé. Perciò dobbiamo cambiare partendo da noi stessi e dal nostro ambiente.
Anche la pace non va cercata negli altri, ma dentro di sé. Imparando ad affrontare i problemi quando si presentano, senza vacillare al solo pensiero che «forse arriverà il vento!». Come nulla intacca il diamante, nulla potrà compromettere una coscienza adamantina e pura.
Venendo alla domanda se, ai fini della pace, la religione sia troppa o troppo poca, penso che, se ha radici profonde nella storia dell’uomo, la religione non è mai troppa: i vertici delle organizzazioni e delle religioni predicano sempre bene!
Il mondo però non è migliorato, nel senso che non ha accolto i loro insegnamenti e non vi regna la pace. Sembrerebbe quindi che i grandi maestri abbiano fallito. Ma il maestro può solo aprire la porta; è il discepolo, con il suo piede, che può entrare. Chi non è se stesso fino in fondo deve sapere che nessuno può esserlo al suo posto.
Dunque la religione non sarà mai troppa in quanto a principi etici. Semmai sono troppo pochi a praticarla. Oggi dobbiamo quindi domandarci fino a che punto siamo praticanti: la nostra generazione non sa più bene in cosa sta credendo, ha bisogno di ritrovare i riferimenti giusti.
Dobbiamo anche considerare che mai ci sarà una religione unica sulla terra. Ci sarà, forse, un’integrazione interreligiosa, in vista della quale è necessaria una maggiore comprensione della religione altrui, anche da parte di chi non crede. È quindi importante lo sviluppo di tutte le religioni e la ricerca di opportune occasioni per praticarle assieme.
Per questo credo nella necessità e nel valore del lavoro culturale nella nostra società. I bambini già ci hanno superato, sono già uniti, ma gli adulti devono creare un ambiente favorevole, perché questo atteggiamento spontaneo possa radicarsi nelle loro coscienze.
Più delle ore di religione passate a scuola, conta la testimonianza vissuta dai genitori in famiglia; dove la religione potrebbe aiutare a crescere meglio i figli e a costruire una società migliore. Anche se essere buoni praticanti non è garanzia di successo.
Vorrei infine segnalare che, dal 2000, i leader delle religioni presenti a Milano si stanno incontrando con continuità. Un lavoro che ha portato alla firma, il 21 marzo 2006, dello statuto costitutivo del Forum delle religioni a Milano. Anche se è stato uno sforzo impegnativo, raggiungere questo obiettivo è stato più facile di quanto non sembrasse al principio.

Rosa Myoen Raja

DOMANDA

La malvagità è innata nell’uomo?
Il bene è equilibrio e positività. Il male è confusione, che arriva quando ci si allontana dal bene.
Paljin

Constato che nell’essere umano esiste la dimensione del male, ma la domanda mi supera. Nella mia attività con i carcerati sento che non mi è estraneo quel che hanno commesso. Nelle stesse condizioni forse avrei fatto di peggio, la vita mi ha dato una realtà estremamente favorevole. Quando apprendo di eventi drammatici o tragici non riesco a prendere parte per qualcuno.
In realtà, purtroppo, c’è indifferenza in tutti noi per le tragedie dell’umanità che accadono anche in questo stesso istante.
Myoen

Paljin Tulku Rinpoce (Aaldo Graglia) è da oltre 30 un monaco buddista di tradizione tibetana. Fondatore e guida del centro studi tibetani Mandala di Milano, siede fra i maestri reggenti il monastero di Lamayuru a Ladakh (India) ed ha assunto la guida del monastero di Atitse destinato a diventare un centro internazionale di meditazione.
Rosa Myoen Raja ha iniziato nel 1988 la pratica zen presso il centro «Il Cerchio» di Milano, di cui è diventata presidente, avendo ricevuto dal maestro Tetsugen l’ordinazione monastica. È membro fondatore della sezione milanese di «Religioni per la Pace», Forum delle religioni a Milano, associazione Buddhist Peace Fellowship Italia.

Paljin Tulku Rinpoce e Rosa Myoen Raja




INDUISMO

L’UOMO: ARBITRO DEL PROPRIO PENSIERO

L’induismo è un mondo complesso e affascinante che risale al iii millennio a.C. e al cui centro è l’uomo: che siano volte al bene o al male, le sue azioni influiscono sulla sua esistenza presente o nelle sue vite successive. Una catena di reincarnazioni di cui l’uomo percepisce la costrizione e che cerca di interrompere purificando i suoi atti.
Può riuscirci percorrendo le vie spirituali del rito, della devozione e della conoscenza. Così ogni azione della giornata diventa una liturgia, un’offerta: ad agire non è più l’uomo ma la volontà divina che attraverso la purificazione ne abita l’anima.
È un cammino di progressiva spoliazione, che porta a scoprire che niente ci appartiene, quindi alla disperazione… Ma proprio a questo punto avviene il miracolo dell’illuminazione, per cui l’anima si apre al mistero dell’infinito e della felicità eterna.
Mentre anela a questa liberazione, l’uomo vive un’esistenza scandita da regole ben precise, come l’appartenenza a una determinata casta: di essa è responsabile, avendola acquisita per nascita come diretta conseguenza delle vite passate. Regole che la società indiana si è data e che l’hanno strutturata e consolidata: solo seguendole, interiorizzandole e rispettando il proprio ruolo l’uomo può venie trasformato e salvarsi. Questo spiega perché in India le disuguaglianze sociali non abbiano portato rivoluzioni cruente.

Ma l’India è anche un universo composito, con almeno 16 lingue nazionali, centinaia di lingue locali, migliaia di dialetti, razze diverse; ha visto nascere e diffondersi le più grandi religioni della terra; è un’enorme democrazia che non ha conosciuto golpe o dittature militari. La sua storia è quella del difficile obiettivo di unire nella diversità.
Il primo incontro con l’islam (xii-xiii sec.) fu tragico: le incomprensioni portarono a grandi massacri. Poi i musulmani concessero agli indù (come a ebrei e cristiani) di esercitare la propria fede pagando una tassa di capitazione.
Nei secoli successivi, sotto imperatori musulmani illuminati, ormai indiani di sangue, l’incontro tra le due culture, pur senza esiti di sincretismo religioso, diede vita a uno dei periodi più splendidi della storia dell’India dal punto di vista artistico-letterario e di fioritura della civiltà.
Pur in declino dalla metà del xvii secolo, la presenza musulmana ha però imposto all’India la grande e terribile scissione dalla quale sono nati Pakistan e Bangladesh. Ancora una volta un confronto forte tra le due religioni che ha lasciato solchi di incomprensione e dolori, ma che ben poco ha di religioso ed è stato fomentato e scatenato per ragioni politiche e interessi commerciali. Perché in effetti indù e musulmani vivono fianco a fianco e partecipano addirittura a cerimonie composite.
Diverso da quello musulmano, ma altrettanto determinante sulla realtà indiana, fu l’avvento degli inglesi nel xvii secolo. Il loro intento di costituire quadri locali utili nell’apparato governativo, produsse una categoria di indiani anglicizzati che, avendo studiato in Inghilterra, avevano conosciuto il pensiero occidentale e, tornati in India, l’avevano rielaborato in una versione assolutamente personale, dedicandosi al recupero della dignità indiana, dell’autonomia e dell’indipendenza.
Gandhi è l’esponente più famoso fra questi personaggi di grande rilievo; pensatori e mistici che, oltre le vicende politiche, hanno avuto la capacità di rileggersi, rivisitare e riproporre la propria cultura in termini estremamente interessanti. Questo probabilmente è il segreto della vitalità di una visione religiosa che ha ormai più di 4 mila anni di storia.

Marilia Albanese

MIGLIORARE SE STESSI PER PORTARE LA PACE

In passato l’India era il paese misterioso dei fachiri, giungla, fiumi sacri… Oggi è uno dei mercati più dinamici del mondo, in progressiva espansione, dove la globalizzazione convive con le antiche tradizioni. In questo contesto come possiamo ragionare sull’induismo in relazione alla pace?
Intanto, cosa intendiamo con religione? Penso che abitudini, idee e valori tramandati da una generazione all’altra, o meglio il «patrimonio sociale» di una cultura, possono essere definiti come «sua religione». Gli uomini inventano e trasmettono la propria religione, con folclore, miti, leggende…
Una volta, mi fu chiesto, essendo io indù, come vedevo il cristianesimo. Fino a quel momento sapevo d’essere indù, ma non sapevo cosa questo significasse. Pensandoci credo che l’essenza dell’induismo sia proprio il suo inglobare una somma di valori comuni e tradizioni, che costituiscono la cultura indù, che include anche l’aspetto religioso.
L’induismo costituisce una complessa e continua totalità che si esprime negli aspetti sociali, economici, letterari e artistici. Perciò la religione è solo una parte dell’essere indù.
La mia relazione con l’induismo è cominciata il giorno in cui sono nata; in una famiglia dove si praticavano i riti e si celebravano le feste indù: cerimonie che consacrano la mente e il corpo della persona e la preparano per la comunità.
Non sono stata costretta a niente in nome della religione. Ho potuto crescere libera e tollerante nei confronti di tutti. Ogni giorno incontro, frequento e mangio con persone di caste e religioni diverse. Soprattutto mi è stata data l’opportunità di cogliere gli insegnamenti migliori di tutte le religioni.
Tolleranza e non-violenza sono i principi che guidano le mie azioni.
Mi è stato insegnato ad agire senza pensare ai risultati. Ciò enfatizza l’introspezione personale per esaminare la propria condotta. Devo sempre fare del mio meglio. La competizione è una buona cosa, ma deve essere con me stessa, non con gli altri. Sto bene con me stessa se riesco a migliorarmi.
Nell’induismo quel che è importante è la persona, non la razza o la religione. Non posso provare l’esistenza e attribuire qualità al mio Dio come non posso screditare o criticare il Dio degli altri. La religione mi deve dare la capacità di pensare liberamente secondo la mia natura.
A mio parere, la colpa delle guerre e ingiustizie nel mondo non è della troppa, poca o mal compresa religione, ma della globalizzazione, che sta cambiando la società troppo in fretta. Nelle scuole ci sono bambini di diverse culture che cominciano a vivere insieme: fanno amicizie, conoscono altre tradizioni, mangiano cibi diversi e così si arricchiscono culturalmente. In futuro diventeranno tolleranti alle altre religioni senza accorgersene. Ma ci vuole un tempo di assestamento.
Credo che comprensione e cooperazione siano molto importanti per essere felici in qualsiasi società. Facciamo un modesto sforzo per migliorarla recitando una preghiera per l’umanità tratta dalle Upanishad (vi secolo a.C.): «Noi siamo uccelli dello stesso nido, possiamo avere una pelle diversa, possiamo parlare lingue diverse, possiamo credere in una religione diversa, possiamo appartenere a culture diverse, ma dividiamo la stessa casa, la nostra terra. Nati sullo stesso pianeta, sovrastati dallo stesso cielo, guardando le stesse stelle, respirando la stessa aria, dobbiamo imparare a progredire insieme con gioia, o periremo insieme con dolore, perché l’uomo può vivere da solo, ma sopravviverà come umanità, soltanto se unito agli altri».

Sushama Swarup Sahai

DOMANDA

Come gli indù vedono gli altri e le loro religioni?

Nell’antichità come barbari. Ma è la storia del mondo: facevano tutti così. Oggi vedono lo stato di ciascuno, religione compresa, come frutto del suo cammino spirituale. L’acqua è sempre acqua, anche se ha nomi diversi, e tutte le religioni sono mezzi per elevarsi. Sul tetto si sale con la pertica, la scala o arrampicandosi… è il fine che conta. Concettualmente, l’indù ha grande rispetto e accettazione di quel che gli altri sono. Sottolineo concettualmente, perché in pratica, soprattutto negli ultimi tempi questo atteggiamento è stato dimenticato anche in India dove, proprio per il sistema indu che abbiamo detto inclusivo, la guerra di religione non ha alcun senso. Ahimé, non aveva senso: le cose purtroppo sono cambiate.

Albanese


Marilia Albanese, docente di lingua e cultura indiana, grande esperta dell’India e sue religioni, attualmente dirige l’Is.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) presso l’Università degli studi di Milano. Presidente della Yani (Yoga associazione nazionale insegnanti) è autrice di articoli, saggi e libri.
Sushama Swarup Sahai, psicologa indiana, in Italia dal 1970, ha collaborato con diverse istituzioni accademiche milanesi (Bocconi, Università degli studi). Indian cultural ambassador, collaboratrice di Microcosmo, insegna lingua hindi e collabora con l’Is.I.A.O ed è presidente dell’associazione Magnifica India.

Marilia Albanese e Sushama Swarup Sahai




Nello spirito di Assisi

Il legame fra pace e religioni è uno dei temi di maggiore attualità: troppo spesso strumentalizzato e fatto oggetto di polemiche feroci e pretestuose. Fra le diverse iniziative attivate su di esso, di cui siamo venuti a conoscenza, abbiamo trovato particolarmente interessante, per taglio e pacatezza di ragionamenti, quella organizzata dal Comune di Cusano Milanino, una cittadina alle porte di Milano. La presentiamo in questo dossier.

Per diverse ragioni il 2006 è stato un anno significativo per le religioni e la pace. In primo luogo perché lo scorso 27 ottobre ricorreva il ventesimo anniversario del primo storico incontro interreligioso per la pace convocato ad Assisi da Giovanni Paolo ii nel 1986.
È stato anche il primo anno nel quale, dopo il suo lungo pontificato, non è stato Giovanni Paolo ii a tenere il consueto messaggio del primo gennaio per la Giornata Mondiale della Pace (tradizione della chiesa cattolica cominciata dal papa Paolo vi nel 1968).
Nel raccogliere il testimone dal suo predecessore, papa Benedetto xvi, nel proprio messaggio del 1° gennaio 2006, ne citava un’affermazione di grande attualità: «Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine».
Sensibile a queste problematiche, il comune di Cusano Milanino ha voluto celebrare la ricorrenza citata in apertura. Così, facendo propria la frase di papa Wojtyla, ha proposto alla cittadinanza una serie di incontri dedicati al tema della pace e alle sue implicazioni con le religioni attualmente più seguite nel mondo.
Se tutti concordiamo sul fatto che l’umanità soffre per guerra, terrorismo, sfruttamento, ingiustizia, schiavitù, degrado sociale e ambientale… non c’è invece convergenza di opinioni sulle cause di tutto ciò.
Per il nostro tempo, ma anche per i secoli passati, c’è chi individua nella religione la causa di questi problemi. Altri ritengono sia vero il contrario: è proprio l’assenza, o l’insufficiente comprensione della religione, a impedire che la pace si instauri definitivamente nel mondo.
Per confrontarsi con queste tesi e con il pubblico, una serie di esperti e testimoni della propria religione sono stati invitati ad animare sei affollate serate tenutesi nella sala del consiglio comunale.

Organizzata senza la pretesa di voler proporre considerazioni di valore assoluto, né di voler presentare la posizione ufficiale delle religioni protagoniste di ogni serata, l’iniziativa voleva semplicemente essere un primo approccio con l’argomento. Un tentativo di capire se, sulle vie della pace che l’umanità vorrebbe percorrere, le religioni possono essere un aiuto o se invece sono proprio loro la causa prima dei conflitti.
Gli esperti hanno introdotto ciascuna religione (in particolare le meno conosciute perché più lontane dalla nostra cultura occidentale) dai punti di vista teologico, storico, socio-politico ed anche geografico, esaminati in relazione al tema conduttore del ciclo.
Da parte loro i testimoni, personalità anche di rilievo nell’ambito delle rispettive comunità religiose, si sono proposti in veste di semplici credenti, disposti a condividere con il pubblico l’esperienza individuale di persone che si sforzano quotidianamente di vivere la pace secondo i principi dettati dalle proprie religioni; anche mettendosi in discussione sulle questioni più problematiche.
Un aspetto importante, questo del chiedere agli ospiti di far emergere la propria spiritualità, anche attraverso la lettura di brevi brani tratti dai testi sacri di ognuno. In occasioni analoghe viene spesso messo un po’ in secondo piano; col rischio di ridurre le religioni a semplici espressioni della cultura e della filosofia di alcuni gruppi umani. Cosa che effettivamente sono, ma che non le descrive compiutamente: gli aspetti spirituali e trascendenti di una religione ne sono infatti l’elemento più importante senza del quale perderebbero il loro specifico significato.

L’iniziativa, impostata col preciso intento di favorire un serrato dialogo fra relatori e pubblico, sembra di poter dire che sia riuscita nello scopo. I presenti, credenti e non credenti, accorsi sempre in buon numero, hanno approfittato con interesse dell’ampio spazio loro dedicato, riservando ai relatori una fitta serie di domande che, anche quando non strettamente inerenti con il tema della serata, erano sintomatiche del diffuso bisogno di spiritualità esistente nella nostra società.
Più in generale dimostravano il desiderio di capirsi, di trovare punti di incontro… di dialogare. Il fatto che tutto ciò sia avvenuto in un clima estremamente sereno e rispettoso del pensiero di ciascuno è il risultato dell’iniziativa di cui andare tutti più soddisfatti, pubblico e organizzatori.
Spesso incontri di questo genere, soprattutto sotto la spinta della drammatica attualità e dell’inopportuna politicizzazione, degenerano presto in poco fruttuose polemiche. Nel nostro piccolo, abbiamo dimostrato che la pace non è fatta solo dalle cancellerie, dalla politica, dalle autorità religiose…, ma può e deve cominciare anche dagli atteggiamenti più semplici e quotidiani di ciascuno; con un impegno forse maggiore per chi è credente: la pace si costruisce più sforzandosi di vivere con coerenza la propria fede (cosa per niente facile) che rivendicando la supremazia della propria religione.
Convinzioni queste espresse da tutti i relatori e principale filo conduttore del ciclo di incontri.

Con estrema soddisfazione abbiamo accolto l’invito di Missioni Consolata a raccogliere in un dossier un’ampia sintesi, non rivista dai relatori, di quanto emerso nel corso dell’iniziativa. Considerando la diffusione nazionale della rivista, fa piacere se quanto di buono siamo riusciti a fare a Cusano Milanino potrà contribuire alla crescita di una cultura di pace anche in altre parti d’Italia.

Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




Non ancora scomparsa

Malattie dimenticate (5): lebbra

Il 28 gennaio è la Giornata mondiale dei malati
di lebbra, una malattia che ancora oggi porta sofferenza ed emarginazione.

Una discesa continua nel numero di infezioni, oltre 111mila casi in meno (riduzione pari al 27%) nel 2005, rispetto alle nuove diagnosi del 2004. Un andamento positivo che ha portato a una caduta intorno al 20% ogni anno del numero di persone infettate. Eppure la lebbra non è ancora scomparsa: tutti gli anni centinaia di migliaia di malati e milioni di persone nel mondo vivono con i segni e le conseguenze dell’infezione.

Miglioramenti insufficienti
Ogni anno, l’ultima domenica di gennaio è la Giornata mondiale dei malati di lebbra, quest’anno il 28. La giornata è stata voluta nel 1954 da Raoul Follereau, un giornalista e scrittore francese che si è impegnato nella lotta alla malattia, tanto da essere definito «apostolo dei malati di lebbra». Per Follereau l’attività contro la lebbra aveva un significato più ampio, viste le forme di emarginazione dalla vita sociale a essa collegate: significava impegnarsi per la pace, contro l’emarginazione e l’ingiustizia.
La storia della lebbra è lunga. Le prime descrizioni della malattia risalgono al 600 a.C. (vedi il riquadro); la scoperta del germe responsabile, il Mycobacterium leprae, è arrivata nel 1873; il primo farmaco negli anni ‘40; l’introduzione della polichemioterapia (Mdt, multi drugs therapy), con l’utilizzo di più farmaci, negli anni ‘80. Ma il bacillo della lebbra non può ancora essere considerato sconfitto, nonostante siano a disposizione gli strumenti per contrastarlo.
Milioni di persone sono state curate: oltre il 99% dei casi registrati di lebbra ha ricevuto la politerapia, e non sono stati riportati casi di resistenza al trattamento. La maggior parte dei paesi ove l’infezione era diffusa è ormai riuscita a eliminare la lebbra dall’elenco dei problemi di salute pubblica; ma in alcuni la diffusione rimane alta. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si basano su quanto riportato da 115 paesi, la prevalenza globale della lebbra (cioè il numero di persone con il Mycobacterium leprae) all’inizio del 2006 comprendeva quasi 220 mila casi, mentre il numero di nuovi casi ufficialmente segnalati nel 2005 era poco meno di 300 mila. Questi dati rappresentano tuttavia solo le persone infettate cui è stata fatta la diagnosi.
Secondo quanto riportato dall’Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo), in base ai dati del 2005, ogni giorno si ammalano 820 persone, ma rappresentano solo la metà degli infettati: altrettanti casi non vengono identificati e non si è in grado di dire il numero esatto delle persone malate.

Cicatrici sociali
La lebbra è una malattia infettiva cronica causata da un bacillo, il Mycobacterium leprae, scoperto nel 1873 dal ricercatore Gerhard Armauer Hansen. Dal suo scopritore la malattia prende il nome, meno conosciuto, di hanseniasi o morbo di Hansen, e i malati sono chiamati hanseniani.
La moltiplicazione del Mycobacterium leprae è molto lenta e la malattia ha un periodo di incubazione, dall’infezione alla comparsa dei sintomi, che può durare diversi anni (da 5 a 20). È poco infettiva e la trasmissione dell’infezione avviene tramite goccioline provenienti dal naso o dalla bocca di persone ammalate non trattate.
Dal punto di vista delle manifestazioni cliniche la lebbra colpisce soprattutto la pelle e i nervi: se non curata, può portare a danni e deformazioni progressivi e permanenti in queste sedi, oltre che agli arti superiori e inferiori e agli occhi. Proprio la sua capacità di causare invalidità permanenti e mutilazioni ha portato all’emarginazione dei malati in diversi contesti sociali e storici.
Il decorso della malattia è variabile: può non dare sintomi o essere causa di dolori forti e sfigurare il paziente. Le lesioni sulla pelle possono andare incontro a una cicatrizzazione e scomparsa spontanea o, al contrario, progredire, deturpando il malato. I danni ai nervi comportano una perdita di sensibilità per il coinvolgimento di quelli sensitivi, debolezza e atrofia muscolare per l’interessamento di quelli motori.
Negli anni ‘40, le prospettive dei malati di morbo di Hansen sono cambiate con la disponibilità del primo farmaco contro la lebbra, che tuttavia non uccideva il bacillo: ne arrestava la proliferazione, rallentando la malattia. Andava quindi assunto per lunghi periodi, anche per tutta la vita, e vi era il rischio di comparsa di micobatteri resistenti al trattamento. All’inizio degli anni ‘80 è stata introdotta la polichemioterapia, con l’associazione di più medicine, raccomandata fin dal 1981 dall’Oms; ora il trattamento del paziente con hanseniasi può durare da sei mesi a due anni.

India e brasile in testa
Nel 1991, l’Assemblea dell’Oms ha approvato una risoluzione che prevedeva l’eliminazione della lebbra come problema di salute pubblica entro l’anno 2000. Questo significava arrivare a una prevalenza della malattia nel mondo inferiore a un caso ogni 10 mila persone, obiettivo che l’Oms riferisce come raggiunto.
Molti paesi, in cui in precedenza la lebbra era diffusa, sono riusciti a eliminarla grazie alla polichemioterapia; ma ve ne sono ancora alcuni in cui le attività di controllo continuano. In queste aree ad alto rischio di trasmissione del Mycobacterium leprae, l’Oms sottolinea come siano cruciali campagne di informazione per i pazienti e loro famiglie, perché escano dall’ombra e si facciano curare, non nascondano l’infezione nel timore di essere isolati o segnati dalla società.
La diffusione della polichemioterapia ha dunque ridotto drammaticamente il carico di malattia: negli ultimi 20 anni oltre 14 milioni di pazienti sono stati curati (4 milioni dal 2000) e la prevalenza della malattia è scesa del 90%, ovvero da 21,1 casi per 10 mila abitanti a meno di uno, sempre nel 2000.
Nel 2005, in 17 paesi sono stati registrati oltre mille casi di lebbra per paese. Fra questi, ove si verificano oltre il 94% dei casi totali nel mondo, spicca al primo posto l’India, con 161.457 casi, seguita, seppur con molto distacco, dal Brasile, con 38.410 casi. Confrontando i dati con quelli degli anni precedenti, si nota un calo consistente nel numero di nuove diagnosi: in Brasile di quasi 10 mila casi rispetto al 2004, ma soprattutto in India, con numeri più che dimezzati fra il 2002 e il 2005 e scesi di circa 100 mila casi rispetto al 2004.
La riduzione sembra riguardare in particolare il sud del paese, dove ormai da 20 anni funziona un programma contro la lebbra, mentre il miglioramento è meno evidente nel nord, che ha visto un funzionamento di tali programmi di controllo solo negli ultimi 4-6 anni.
Sempre secondo gli ultimi dati dell’Oms, vi sono tuttavia alcune zone in cui, fra il 2004 e il 2005, i casi segnalati sono addirittura aumentati: per esempio in Indonesia, dove nel 2004 sono stati segnalati 16.549 casi, contro i 19.695 nel 2005, o in misura minore, in Mozambico (da 4.266 a 5.371), nelle Filippine (da 2.254 a 3.130) e in Cina (da 1.499 a 1.658).

L’incognita dell’hiv
Ma è proprio la situazione dell’India che desta preoccupazione, a fronte di un nuovo rischio che sembra profilarsi all’orizzonte. Secondo quanto segnalato a fine ottobre 2006 su The New York Times, la terapia contro l’Aids potrebbe riportare alla luce nel paziente una infezione nascosta da Mycobacterium leprae. La comparsa della malattia sarebbe da collegare al recupero, grazie ai farmaci contro l’Hiv, delle capacità immunitarie di difesa dell’organismo, che ritoerebbe in grado di reagire all’infezione del Mycobacterium leprae con le relative manifestazioni cliniche.
La prima segnalazione di questo insolito effetto collaterale della terapia contro l’Aids risale al 2003 e finora i casi descritti in letteratura sono una dozzina. Potrebbero però essere molti di più: in diverse aree geografiche, come Brasile, India, Africa, Caraibi, vi sono descrizioni di lesioni dolorose al viso o perdita della sensibilità alle dita, compatibili con la lebbra, in malati in trattamento con antiretrovirali. Il Brasile e l’India sono forse i paesi che preoccupano maggiormente. Nel primo, come già visto, la lebbra è diffusa e nello stesso tempo è in atto uno dei programmi di trattamento per l’Aids fra i più efficaci nei paesi poveri. L’India, dal canto suo, accanto alla lebbra conta 5,2 milioni di persone con l’Hiv. Altre zone considerate a rischio sono Myanmar (ex Birmania), Madagascar, Nepal e Mozambico, oltre a tutte quelle aree in cui le informazioni sulla situazione sanitaria non sono precise.

Valeria Confalonieri

Si ringrazia l’Associazione italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo), organizzatrice per l’Italia della Giornata mondiale dei malati di lebbra.

La lebbra nella storia

La prima segnalazione scritta sulla lebbra risale al 600 a.C., in India, mentre la sua prima descrizione trova posto in un trattato di medicina cinese di 200 anni dopo.
In Occidente, l’infezione inizia a essere considerata come problema per la salute della popolazione nel vii e viii secolo d.C.; è del 643 l’editto di Rotari, a Pavia, con le prime indicazioni riguardo l’isolamento dei malati e perdita dei loro diritti civili. Commerci, pellegrinaggi e crociate hanno poi incrementato la diffusione della lebbra in Occidente intorno al 1000 d.C. Dall’Oriente all’Occidente, la malattia è arrivata in paesi lontani come Islanda e Groenlandia, senza distinzioni di ceto sociale.
I casi di lebbra iniziano a diminuire solo fra il xiv e il xv secolo, in seguito alla diffusione della tubercolosi, la riduzione dei contagi con le misure di isolamento dei malati adottate e i morti per la peste del 1300, fra i quali anche i malati di lebbra. In Europa, i casi locali di lebbra (non provenienti da altri paesi) iniziano a scomparire dal 1700 fino alla seconda metà del 1900 (Italia compresa, negli anni ‘70).

Valeria Confalonieri




Malawi – Strade Africane  (prima puntata)

Dario Devale è un giovane antropologo torinese. Da anni si impegna sul campo per lo sviluppo dell’Africa. Dopo aver lavorato in Burkina Faso, ha vissuto in Etiopia e ora si trova in Malawi, uno dei paesi più poveri del continente. Presta la sua opera come volontario delle Ong. Mette a frutto la sua formazione anche con un’attenta osservazione delle culture presso le quali vive. Cercando di non dar nulla per scontato e di “assorbire” al massimo quello che la società di cui è ospite gli insegna. E scrive avvincenti resoconti. Su questo diario, Dario ci porta con sé nella quotidianità di un africano, affrontato ogni giorno dai pendolori di quel paese..

Io vivo a Blantyre (la maggiore città del sud del Malawi), il villaggio del progetto si chiama Ndanga, a circa 60 chilometri, raggiungibile in auto in un’ora scarsa di viaggio. Con i mezzi locali è tutta un’altra storia, sai quando esci di casa ma…è inutile che dici di buttare la pasta in pentola per il tuo arrivo, che è oltre ogni possibile previsione (Beh, sarebbe inutile comunque aspettarsi un piatto di pasta in piena campagna malawiana..).


Prendo il primo minibus da Blantyre a Limbe, zona commerciale e sede delle principali industrie manifatturiere del sud del paese, nata come cittadina a sè, ora costituiscono quasi una sola realtà urbana. Una passeggiata di quindici minuti mi porta alla successiva fermata dei minibus, direzione Chirazulu, sede di uno dei più importanti ospedali del sud, sopratutto nel campo della pediatria. I minibus sono delle scatole con quattro ruote lanciate su strade che sopratutto in questa stagione di piogge sono realtà fatte di vuoti circondati da scarse presenze di asfalto. Le prime volte prendevo posto e a distanza di qualche fermata mi ritrovavo a sgranare gli occhi alla vista dell’ennesima persona che entrava in quell’abitacolo, per i miei parametri saturo già quattro o cinque passeggeri fa. Oggi non ci penso neanche più, salgo, mi appiccico alla persona di tuo, in attesa dell’imminente ingresso di altra gente. A volte guardo perplesso il fondo posteriore del mezzo, temendo la presenza di un foro che risucchia passeggeri e di cui a distanza di tempo e chilometri potrei rimanere vittima anche io. Ma non è così, ci sono tutti, ben pressurizzati, un pastone umano fatto di donne che vanno al mercato, venditori, studenti, uomini in giacca e cravatta che con agilità leggono angoli di articoli del quotidiano nazionale, trasformato in una pallottola di carta dalle schiene e gomiti dell’abitacolo. Ho imparato col tempo che non ci si deve spaventare di fronte ai minibus che si aprono già affollati. In realtà sono proprio quelli da prendere, perché faranno meno fermate per far salire altra gente. Anche se è un’utopia sperare che non ne facciano del tutto dopo il tuo ingresso, che ti vede quasi seduto sulle ginocchia del passeggero vicino. Il controllore è in genere un ragazzo con un mazzo di banconote luride in mano, che urla tutto il giorno dal finestrino la direzione, destinazione e costo (questo diminuisce man mano che ci si avvicina al capolinea). Il ragazzo a fine mattinata ha una voce roca e ombrosa, a fine giornata gesticola solo più, invitando con ampie sbracciate la gente ad entrare sul «suo» minibus piuttosto che su quello che si affianca a distanza di pochi secondi. Una mattina ho chiesto al ragazzo di tuo di avere pazienza, avrei pagato la mia corsa una volta arrivato, perché non riuscivo a raggiungere con le mani il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni. (fine prima puntata, continua).


 


Dario Devale, dal Malawi


 

Dario Devale




Nuovi protagonisti in America Latina

Introduzione a «Radio di carta»

Dopo
l’articolo dello scorso settembre in cui si raccontava dell’esperienza
radiofonica di 4 giovani latinoamericani (Carlos, Maria Helena, Sania
ed Alvaro), abbiamo pensato di offrire loro una collaborazione con la
rivista. Da qui nasce Radio di carta, la nuova rubrica che ora avete
sotto agli occhi. In essa si affronteranno alcuni argomenti trattati
nel programma «Tropico Utopico», in onda ogni domenica sull’emittente
torinese Radio Flash (www.radioflash.to).
Le puntate di Radio di carta – a cadenza mensile o bimensile – saranno
firmate di volta in volta da uno o più conduttori della trasmissione.

Paolo Moiola



CONTADINI ED INDIGENI


Dopo una interminabile tornata elettorale, l’America Latina

si ritrova diversa. Chi ha vinto? Chi ha perso? Cosa succederà ora?


Negli
ultimi decenni i fenomeni politici in America Latina si sono generati
per «ondate»: governi militari, violenza e guerriglie negli anni
Settanta e parte degli anni Ottanta, democratizzazione
socialdemocratica nel resto degli anni Ottanta, globalizzazioni e
modelli neoliberisti negli anni Novanta e attualmente il sorgere di
«un’ondata» di governi progressisti. Con la fine del 2006 si è chiuso
il ciclo elettorale che ebbe inizio nel 2005. Nell’ultimo anno si sono
svolte elezioni presidenziali nella maggioranza dei paesi dell’America
Latina, definendosi in questo modo il profilo politico del continente
per i prossimi cinque anni.

Alla
radice di questa corrente di rinnovamento – con un protagonismo mai
raggiunto prima – si trova il  movimento indigeno e contadino, che
ha giocato un ruolo centrale «nell’incubazione» del cambiamento che
oggi sta tracciando un nuovo destino politico per il continente. 

Tutto
ebbe inizio nel 1992, in coincidenza con la celebrazione del quinto
centenario di resistenza alla Conquista, in cui si organizzarono, per
la prima volta, adunate indigene a livello continentale. In queste
riunioni gli indigeni e i contadini si resero conto di essere vittime
dello stesso tipo di soprusi nei diversi paesi del continente americano
da cui provenivano: abbandono, esclusione, schiavitù (dalle piantagioni
di banane dell’America Centrale alle miniere della Bolivia e del Perù).
Pur davanti ad un mare di difficoltà, decisero tuttavia di rispondere,
costituendo diverse piattaforme d’informazione e di cornordinamento
continentale per globalizzare la resistenza e difendere i loro diritti
sotto una visione unitaria. In mezzo a questo processo s’inserisce
l’offensiva diplomatica nordamericana degli ultimi anni che – con
l’obiettivo di giungere all’approvazione dell’Alca (vedi Glossario) –
ha servito da «catalizzatore» nel sorgere  di una sinistra
popolare (si potrebbe dire extra-parlamentare, cioè non rappresentata
nei parlamenti nazionali) organizzata.

I
movimenti indigeni e contadini latinoamericani «tra l’incudine della
globalizzazione e il martello dell’abbandono statale della campagna»,
hanno innalzato la bandiera della sovranità e dell’autosufficienza
alimentare, riconoscendosi nella difesa di una «utopia basilare», cioè
il diritto a non morire di fame.

Il
tipo di globalizzazione e il modello agricolo applicati in America
Latina (con pratiche obsolete basate su una visione meccanicista e
abiotica dell’agricoltura), hanno costretto le popolazioni rurali a
intraprendere un esodo di massa verso le città sognando di sfuggire
alla miseria.  In questo modo è stato messo a rischio il fragile
sistema eco-compatibile, che reggeva la sicurezza alimentare delle
campagne e, al tempo stesso, contadini con esperienza generazionale si
sono convertiti in venditori ambulanti di città (figure irrilevanti per
l’economia nazionale) oppure hanno regalato alla delinquenza giovani
disoccupati disposti a tutto o ancora sono diventati schiavi nelle
maquilas. I contadini di queste migrazioni hanno ingrossato le
bidonvilles, che circondano le megalopoli centro e sudamericane e si
sono piano piano avvicinati alla resistenza popolare, che oggi lotta
contro l’estrema povertà, cresciuta esponenzialmente nell’ultimo
ventennio.

Movimenti
indigeni e contadini si sono incorporati via via nelle file della
resistenza popolare urbana e dell’azione sociale diretta e, in questo
modo, hanno «iniettato» nuova forza ai movimenti politici delle grandi
città e in particolare alla sinistra latinoamericana. È così che
recentemente candidati come Evo Morales in Bolivia, Michelle Bachelet
in Cile, Lula in Brasile, Daniel Ortega in Nicaragua, Rafael Correa in
Ecuador (inatteso vincitore nelle presidenziali del 26 novembre) e Hugo
Chávez in Venezuela (riconfermato presidente a furor di popolo lo
scorso 2 dicembre) hanno potuto arrivare o restare al potere ed
imprimere un cambiamento di rotta alle politiche economiche e sociali
dei loro paesi.

Gli
indigeni e contadini con la loro visione della dignità, vincolata alla
terra e all’economia collettiva, hanno insegnato e messo in pratica –
con nuovi valori – l’idea che «un altro mondo è possibile». Per questo
negli ultimi anni tali movimenti popolari hanno influenzato le
politiche nazionali, ponendo le basi per il cambiamento in America
Latina.  •

Carlos Bonino


IN ATTESA DELL’«ALBA»?

Nel Centro del continente soffiano altri venti. Anche l’America
Centrale e i Caraibi, infatti, si trovano in un ciclo elettorale, che è
iniziato con l’Honduras nel novembre del 2005, seguito da Costa Rica,
Haiti e Giamaica e che è finito con il ritorno dei sandinisti di Daniel
Ortega in Nicaragua (novembre 2006), il secondo paese più povero
dell’America Latina dopo Haiti. Dopo il fallimento nordamericano
dell’Alca – reso manifesto nel vertice di Mar del Plata, in Argentina
–  la regione centroamericana si trova «sotto un fuoco
incrociato», da nord e da sud. Da nord si è mosso il governo
statunitense, che, promuovendo trattati commerciali bilaterali secondo
il classico schema «dividi e vincerai», ha costruito il consenso
necessario per giungere all’approvazione a livello regionale del
Dr-Cafta («Dominican Republic-Central American Free Trade Agreement»,
Accordo di libero commercio per l’America Centrale e la Repubblica
Dominicana).
Con una chiara intenzione egemonica, Washington ha azionato la sua
pesante macchina diplomatica per creare una grande struttura
commerciale come quella del Dr-Catfa, per paesi dai quali gli Usa
importano solo lo 0,97% delle sue importazioni globali e ai quali
destina l’1,2% delle sue esportazioni.
Da sud, invece, i governi progressisti del Sudamerica hanno aperto le
porte al Centroamerica e ai Caraibi offrendo alleanze dalla filosofia
opposta: potenziare un modello d’integrazione e sviluppo autoctono
costruito attorno all’Alba («Alteativa  Bolivariana per le
Americhe»). L’Alba intende utilizzare i profitti derivanti
dall’impennata dei prezzi del greggio per promuovere la cooperazione
sud-sud e lo sviluppo endogeno. Questo significa privilegiare i
vantaggi cornoperativi, ovvero gli scambi inteazionali basati sulla
solidarietà tra i popoli, invece che sui vantaggi comparati costruiti
sull’opportunismo commerciale, che sta alla base della logica
neoliberista e del fondamentalismo economico.

Carlos Bonino

Carlos Bonino