Angeli con un’ala rotta

Giovane dentista, cresciuto nello spirito missionario frequentando i nostri gruppi giovanili, Daniele ha deciso di spendere alcuni mesi come volontario in un ospedale del Cottolengo in Kenya, per mettere
a servizio dei più poveri la sua specializzazione professionale. Le riflessioni sulla sua esperienza insegnano che occorre poco per essere felici: basta fare felici gli altri. Provare per credere.

«Ed è subito sera». Credo sia una poesia di Quasimodo. È diventata un po’ il motivo portante di questa mia vita qui, a Chaaria. Mi accorgo di quanto sia vero proprio in questo posto, proprio adesso in cui rubo qualche minuto alla routine in ospedale per scrivere.
Non me ne sono accorto, ma quasi due mesi sono passati. Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere fermo.
Sembra incredibile, il giorno scorre come un torrente, a volte placido, a volte come imbizzarrito. E veloce. Cavoli com’è veloce!
Dalla mia camera vedo l’alba. Ogni mattina spengo la sveglia (maledico la sveglia) e, ancora sdraiato, 6 e 20, apro le tende. Apro anche la finestra: mi piace il fresco del mattino, mi aiuta a svegliarmi. È tutto tranquillamente in ombra, le vacche dormono, il bananeto non si muove. E di colpo esce fra le foglie di banana un disco arancione.
Sembra che quella palla rossa, enorme, sia lì apposta per me, a guardarmi in faccia per dirmi che sono vivo, e se mi sbrigo a saltare fuori dalle lenzuola è meglio. Non capisco cosa ci sia di diverso nel cielo; è come se fosse pronto a piombarti sulla testa, è come se fosse piegato ad abbracciarti. Probabilmente sarà per la diversa curvatura della terra all’equatore. Non mi interessa. Mi piace pensare che sia Dio che stringe al petto con amore i suoi figli prediletti: i miserabili, i sofferenti che abitano qui. E che sono quelli che ama di più, non perché sono più buoni, ma perché sono poveri.
Così comincia un’altra giornata. La messa come prima cosa. Per dare energia, per trovare un motivo per tutto quello che ci circonda. O almeno dovrebbe essere. In realtà ho talmente sonno, che tante volte riprendo conoscenza quando qualcuno seduto vicino a me mi scrolla per darmi il segno della pace.
Di lì in poi si comincia a correre. Perché, ha detto Madre Teresa, «non sia mai che qualcuno venga da voi e non se ne vada migliore di com’era quando è venuto, più felice». Questo cerco di propormi ogni mattina. Spesso non ci riesco.

È difficile spiegare Chaaria. Perché è difficile spiegare i sentimenti a parole. E i sentimenti sono forti; e sono in contrasto fra di loro. Sono occhi, grida, sorrisi, lacrime. Sono volti, nomi, odori.
Chaaria è Glory: non sa perché, ma a 12 anni ha un tumore. Troppi soldi per operarsi. Maledetti soldi. Sempre loro. Troppo tardi per cercare una soluzione. C’è un angelo in più, adesso, in cielo. Un angelo troppo piccolo per capire, troppo lontano adesso dal suo papà che piange.
Chaaria è Susan: non ha fatto niente di male. Ha l’Aids. Senza colpa. Semplicemente, è nata dove non doveva. Susan sorrideva, sempre, mi salutava con la mano sinistra. Mi ha anche ringraziato perché le ho tolto un dente che le faceva male.
Non è una bambina, è un fiore, dolce come un bacio. Mi sorrideva anche la sera se passavo a toccarle una mano. Ma è fragile, Susan. Troppo il peso della sofferenza sulle sue ossa leggere.
Susan è una fiammella che si allontana sempre più. Susan è un angelo con un’ala rotta, è scesa per farci capire quale preziosa meraviglia sia la vita.

Stasera, proprio mentre scappavo dall’ospedale per venire a scrivere, si sentiva da una radio quella canzone, di non so più chi, che dice «… but if God was one of us…». Già, se Dio fosse uno di noi, cosa gli direi…
Lo ringrazierei per l’alba, i fiori del frangipane, gli alberi di banana, i mango. Per la risata di Makena, le gambe di Kanana, il sorriso di Beppe, la voce di Lorenzo. Perché respiro. Forse ci litigherei. Gli urlerei in faccia. Come Vecchioni che canta: «Ora facciamo due conti io e te, Signore!». Perché non fai qualcosa?
In questa mia fede traballante mi convinco sempre più che, se Dio c’è, è qui, con i poveri, con quelli che soffrono. Non fa quello che vorrei io. Non è un Dio prestigiatore, che fa i miracolini per far vedere che può. È un Dio che sta con gli ultimi. Anzi, sta proprio in fondo alla fila. Lui era lì. Con Glory. A tenerle la mano, in silenzio. Lo so.

Certo, la rabbia a volte è tanta. Non so se la notizia sia arrivata in Italia, ma qui la scarsa stagione delle piogge ha portato la carestia. Giustamente, persone di buon cuore si sono attivate per portare sollievo a una popolazione sofferente. Così una dolce vecchietta neozelandese, amministratore delegato di una multinazionale che produce alimenti per animali, ha offerto in dono diversi quintali di mangime per cani, «per alleviare la fame dei bambini del nord del Kenya». Complimenti! È grazie a iniziative costruttive come questa che Beppe Grillo può mantenere attivo il suo blog.
L’Undp (United Nations Development Programme) ha calcolato che basterebbero 40 miliardi di dollari, lo 0,1% del prodotto interno lordo mondiale, per garantire a tutti, in tutto il mondo, i servizi sociali di base. Ogni anno spendiamo circa 1.000 miliardi di dollari in armi, quasi 500 in pubblicità, 50 in sigarette, 11 in gelati. E circa 20 in cibo per animali. Guardando tutto da quaggiù, non mi sento per niente fiero di essere un abitante di questo pianeta.
Ma non vorrei che con tutto questo mi pensaste triste o scoraggiato. L’unica cosa è che ho tanto sonno. Ma sento verissimo quello che dice Frei Betto: «Nella vita per essere felici serve solo un po’ di pane, del buon vino e un grande amore». La vita semplice, come dice Gesù: beati, sì, beati i cuori semplici. È la semplicità che fa scoprire una libertà interiore.
È di questa libertà del cuore che, credo, tutti abbiamo sete. Una mia grande amica mi ha detto una volta che i poveri sono una straordinaria ricchezza. Credo sia vero.
E poi non ci sono solo Glory e Susan. Solo che spesso spendo più tempo a pensare alle ombre che alle luci. Capita anche a voi?
Vorrei raccontarvi di William, che lavorando si è distrutto una mano. Con Gian l’abbiamo ricostruita, e ho visto ieri che riesce di nuovo a muovere il pollice.
Potrei raccontarvi di Kangai, che ha partorito, dopo un bruttissimo intervento, una bimba che sarà una fotomodella o almeno un premio Nobel. La settimana scorsa è andata a casa, mi ha salutato con quel suo orrendo sorriso sdentato, bellissimo.
O di Isidoro, uno dei nostri «buoni figli», un dolce vecchietto di 5 anni che non dimostra per niente i suoi 60; che salta di gioia quando lo portiamo in macchina a bere una cocacola in «città»; che mi ferma per mostrarmi orgoglioso la sua tartaruga che ha chiamato Brother Moris.
Ma non c’è più tempo, vi parlerò ancora di loro. Adesso è tardi, devo tornare in ospedale. Poi bere una birra e poi andare a dormire. Magari dopo avee cantate un paio con Andrea. Canzonacce da osteria o canzoni d’amore, con la chitarra. Come se fossimo da sempre in vacanza.

Ho sentito in un film una frase dura, che mi ha colpito. Diceva circa così: faranno vedere tutte queste cose al telegiornale, la gente dirà «che vergogna». Poi prenderà in mano la forchetta e ricomincerà a mangiare cena. Forse è proprio così.
Ma non dobbiamo rassegnarci. Non dobbiamo abituarci. Si può cambiare. «Il sole nasce anche d’inverno. La notte non esiste: guarda la luna» diceva una canzone qualche anno fa. Il mondo può cambiare.
Siamo noi che possiamo cambiarlo. Noi, tutti insieme. Un pezzo alla volta. Non so se il Signore mi ha voluto qui per cambiare il mio pezzettino. Credo che ci proverò. Di sicuro sono felice.

Di Daniele Pecorari

Daniele Pecorari




Uniti per … trasformare il mondo

«Trasformazione» è stata la parola d’ordine risuonata nell’Assemblea del Consiglio mondiale delle chiese (Cmc), tenuta a Porto Alegre (Brasile) dal 14 al 23 febbraio scorso. Vi hanno partecipato quasi 4 mila persone, provenienti da tutto il mondo, rappresentanti di 348 chiese membro. Era presente, come membro della delegazione vaticana, anche padre Piero Trabucco, che condivide con noi la sua esperienza.

Con scadenza settennale, il Consiglio mondiale delle chiese (Cmc) celebra la sua assemblea generale. Essa costituisce un momento importante di incontro per i rappresentanti di varie comunità cristiane, nell’intento di costruire nuovi ponti fra le innumerevoli chiese cristiane, fare un consuntivo del cammino compiuto verso l’unità dei cristiani e per programmare ulteriori tappe verso la realizzazione dell’ideale voluto da Gesù stesso, che tutti i credenti «siano una cosa sola» (Gv 17, 21).
Nel mese di febbraio 2006, per 10 giorni, in Porto Alegre (Brasile), si sono dati appuntamento 3.838 rappresentanti di chiese cristiane, di cui 691 erano delegati ufficiali e con diritto al voto, mentre i restanti 3.147 partecipavano a vari titoli, quali osservatori ufficiali, giornalisti, rappresentanti dei giovani o di altre categorie all’interno del popolo cristiano.
Tra questi osservatori ufficiali c’erano i membri della delegazione del Vaticano, comprendenti vari rappresentanti del «Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani» e altri invitati, come religiosi e religiose, membri di movimenti ecclesiali, vescovi e sacerdoti.
Come segretario dell’Unione superiori generali, ho avuto il privilegio di essere invitato a fare parte della delegazione vaticana e così di poter vivere all’interno e in maniera molto intensa questo evento. Ho potuto così scoprire, poco a poco, cosa significa per la chiesa cattolica, oggi, vivere l’impegno di lavorare per l’unità dei cristiani nel grande movimento ecumenico.

Un po’ di storia

Per comprendere meglio l’importanza di questo evento, è forse opportuno ricordare come è nato e come si è sviluppato il Consiglio mondiale delle chiese.
La prima Conferenza mondiale della missione, tenutasi a Edimburgo, viene celebrata nel 1910 ed evidenzia con molta forza il bisogno di lavorare per l’unità della chiesa, se si vuole essere efficaci annunciatori del vangelo ai popoli. Da quella assise nascono il «Consiglio internazionale della missione», «Fede e costituzione» e «Vita e lavoro».
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, alcuni capi delle chiese cristiane «storiche» propongono di costituire il Consiglio mondiale delle chiese. L’idea si potrà concretizzare soltanto nel 1948, quando i rappresentanti di 147 chiese si riuniscono in Amsterdam e danno vita al Cmc.
In seguito le assemblee verranno celebrate in varie parti del mondo, con tematiche specifiche e per affrontare questioni particolarmente sentite dalle varie chiese.
L’Assemblea di Nuova Delhi, nel 1962, offre al Consiglio una struttura solida e un’apertura a tutti i continenti. In quell’occasione un buon numero di chiese ortodosse decide di aderire al Consiglio mondiale delle chiese.
Negli anni ‘70 e ‘80, si affrontano temi teologici quali l’eucaristia, il battesimo e i ministeri della chiesa. Negli anni ‘90, si presta una particolare attenzione ai temi della pace e della giustizia.
Ad Harare, nel 1998, si fa una seria riflessione sulla tensione ecumenica del Consiglio stesso. Viene dato voce a un diffuso malessere delle chiese ortodosse, a causa dell’eccessivo frazionamento dei rappresentanti delle chiese membri.

La chiesa cattolica non ne è membro: perché?

La domanda è stata ripetutamente posta a noi, membri della delegazione vaticana, nel corso dell’Assemblea di Porto Alegre. Il Pontificio consiglio per l’unità delle chiese ha voluto allora ricordare i motivi principali per cui la chiesa cattolica, pur essendo un attivo partner, non ne fa giuridicamente parte.
Fin dalla sua nascita nel 1948, nel Cmc predomina una ecclesiologia prevalentemente protestante. Gli ortodossi sono sempre stati una minoranza e la loro posizione teologica non viene presa molto in considerazione. L’auspicio che anche la chiesa cattolica entri a far parte del Cmc viene ripetutamente ribadito. La chiesa cattolica si troverebbe molto a disagio con l’ecclesiologia vigente oggi nel Consiglio.
Secondo l’attuale costituzione del Cmc, le chiese membri sono le chiese nazionali. Esse si presentano all’assemblea a titolo individuale, per cui all’interno della stessa chiesa (es. anglicana) le posizioni possono essere molto diversificate. La chiesa cattolica, come chiesa universale, non può essere accettata dall’attuale struttura del Cmc.
La costituzione attuale del Cmc prevede che il numero complessivo dei fedeli di una chiesa determini il numero dei delegati all’Assemblea. Se la chiesa cattolica dovesse entrare nel Consiglio, essa avrebbe il numero doppio di delegati di tutte le altre chiese assommate assieme, che è invece di 560 milioni.
Il tema dell’autorità è centrale nella chiesa cattolica. Senza dubbio, il modo di intenderla costituirebbe un ostacolo non indifferente alle chiese protestanti e anche a quelle ortodosse.
Per questi e altri motivi, la chiesa cattolica, pur essendo presente nel Cmc attraverso una viva collaborazione con le sue attività e soprattutto negli approfondimenti teologici, in vista di un cammino comune verso l’unità, non ne fa parte giuridica.
Il suo ruolo nel Cmc, sebbene discreto, resta un punto di riferimento per tutte le chiese cristiane, senza però avere un’autorità decisionale. In altre parole, essa mira a condividere gli impegni piuttosto che avere un’appartenenza a pieno titolo.

Svolgimento dell’assemblea

Attoo al tema scelto per la nona Assemblea («Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo»), hanno preso vita una miriade di attività. Più che un incontro di specialisti che riflettono attorno a temi importanti, l’Assemblea ha avuto invece il carattere di una festa. Il segretario generale, dott. Samuel Kobia (kenyano), l’ha voluta chiamare in portoghese: «A festa da vida» (la festa della vita).
L’organizzazione, sebbene molto elaborata e complessa, è stata perfetta. L’accoglienza cordiale e festosa, ha riflettuto bene il calore latinoamericano. Molto viva e attiva nell’organizzazione di tutta l’assemblea è stata la chiesa cattolica, nella persona dell’arcivescovo di Porto Alegre e di tanti laici e membri di movimenti ecclesiali.
I lavori di assemblea occuparono quasi tutte le giornate dei delegati ufficiali e nostre, quali delegati ufficialmente invitati. Qui venivano affrontati temi precedentemente discussi ed elaborati da commissioni ad hoc.
Il grande numero di partecipanti ha reso particolarmente impegnativo il lavoro e difficile la moderazione. Per la prima volta si è voluto procedere, non per votazione, ma per mezzo del «consenso», per venire così incontro allo scontento manifestato ripetutamente dagli ortodossi nella precedente Assemblea di Harare.
Questo metodo ha forse penalizzato il dibattito in aula, ma ha reso più spediti i lavori. D’altronde, come si avrebbe potuto prendere in considerazione e approvare vari documenti in un’assemblea di 700 persone?
Momenti di culto e di preghiera si svolgevano all’inizio delle attività della giornata e alla sera, sotto una grande tenda capace di contenere 3.000 persone. Non è stato possibile celebrare un’eucaristia assieme, data la grande disparità di posizioni teologiche all’interno delle chiese membri del Cmc.
Altro momento particolarmente significativo di riflessione e preghiera è stato lo studio biblico, fatto a gruppi misti di 10-12 persone, ogni mattina, dopo la preghiera nella grande tenda. È qui che ognuno ha potuto sentire forte il richiamo a lavorare per l’unità della chiesa e anche il dolore per le divisioni.
Nel mio gruppo, una signora luterana della Namibia ha ripetutamente detto: «Se attorno alla parola di Dio ci sentiamo in questo momento così uniti, sebbene appartenenti a ben 9 chiese diverse, perché non lo possono essere tutte le nostre chiese?».
Tre mattinate sono state dedicate alle conversazioni ecumeniche attorno a 23 temi diversi. Ognuno poteva scegliere il tema che considerava di maggiore interesse. Purtroppo i risultati di tali conversazioni, ricche di spunti e suggerimenti, non hanno potuto essere presentati a tutta l’Assemblea. Si spera ora in una efficace divulgazione dei risultati di tali conversazioni ecumeniche.
La parola portoghese mutirão designava gli innumerevoli incontri, variegati nei temi e nello svolgimento, portati avanti dai numerosissimi partecipanti non delegati. Essi avevano un carattere informativo sopra temi importanti o realtà particolari, che toccavano la vita delle chiese cristiane nelle varie parti del mondo. Particolarmente evidenziati sono stati i temi riguardanti la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, i malati di Aids, le minoranze emarginate.
Non mancarono visite importanti. Il presidente Luis Inácio Lula da Silva è venuto appositamente a Porto Alegre a salutare l’assemblea. Il card. Walter Kasper ha letto un messaggio speciale del papa. L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha esortato con parole forti le chiese a prendere a cuore l’ecumenismo. L’arcivescovo Desmond Tutu del Sudafrica ha ribadito a sua volta che «l’unità delle chiese non è un’opzione extra, ma è indispensabile per la salvezza del mondo».

Sentimenti e impressioni

Le due settimane vissute a Porto Alegre hanno generato in me molteplici sentimenti. Di gratitudine, innanzitutto, per l’opportunità di fare una forte esperienza di riflessione, di preghiera e comunione con tanti fratelli di fede attorno al tema dell’unità della chiesa.
Ho condiviso in maniera profonda un tempo prolungato di convivenza con la delegazione della Santa Sede, composta da vescovi, sacerdoti, religiosi e membri di movimenti ecclesiali: è stato un arricchimento grande e abbiamo potuto creare tra noi un clima molto bello di frateità, ascolto e dialogo.
Ho potuto pure condividere con tante persone di differenti denominazioni cristiane la sofferenza nel constatare come l’obiettivo dell’unità della chiesa si allontani sempre più, a causa della crescita esponenziale, nel sud del mondo, di nuove chiese, soprattutto pentecostali ed evangeliche, che paiono avere poca sensibilità verso il movimento ecumenico.
Il Cmc stesso sembra attraversare un momento cruciale. Le sue attività si sono moltiplicate eccessivamente, al punto da oscurare la finalità prima e fondamentale per cui il Consiglio stesso è nato, cioè l’unità di tutte le chiese cristiane. Forse esso ha dato troppo spazio ad attività parallele, soprattutto nel campo della giustizia e della pace, a scapito forse di una seria indagine teologica, o di un cammino unitario di fede delle varie chiese.
Porto Alegre ha percepito l’urgenza di una inversione di rotta, ma sembra che non sia riuscito a compiere delle scelte, tali da imprimere un andamento diverso al movimento ecumenico.
Apprezzamenti per l’«ecumenismo della vita» sono risuonati più volte in aula e nei gruppi di lavoro e menzione esplicita è stata fatta per gruppi e movimenti particolarmente attivi in quest’area (es. Focolari, Sant’Egidio).
Quest’ecumenismo viene visto non in opposizione ad altre iniziative e non è considerato una scelta alternativa. Esso mira piuttosto a creare un clima di amore reciproco, di frateità, di collaborazione tra tutti i cristiani, dove la figura di Cristo emerge come fermo e costante punto di riferimento. Partendo dall’amore fraterno, dove la presenza di Cristo è fortemente sentita, qualsiasi iniziativa ecumenica porterà allora risultati positivi.

Un bilancio del lavoro e della presenza della chiesa cattolica nell’assemblea è stato fatto da Samuel Kobia, segretario generale del Cmc: incontrando un gruppo di 200 cattolici, ebbe parole di encomio per il servizio offerto dalla chiesa cattolica nella preparazione e durante tutta la celebrazione dell’evento. Diceva loro: «Le relazioni con la chiesa cattolica avranno ora una nuova qualità e profondità. In questi giorni ci siamo accorti veramente chi era cattolico e chi non lo era».
Mi viene spontaneo ripetere ancora una volta la preghiera-tema dell’Assemblea: «Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo».

di Piero Trabucco

Piero Trabucco




Il sorriso di Geltrude

I missionari della Consolata si sono stabiliti in Uganda nel 1985, quando presero in consegna la parrocchia di Bweyogerere, alla periferia di Kampala e aprirono un centro di animazione missionaria e vocazionale. Dopo 20 anni, per diversificare questi servizi, hanno dato vita a una nuova missione a Kapeeka, in una regione rurale, teatro di guerra e violenza nei primi anni ‘80, le cui ferite sono ancora aperte nel cuore della gente.

Prima ancora che i missionari della Consolata si stabilissero in Uganda, alcuni giovani ugandesi avevano fatto richiesta di entrare nell’Istituto e furono accolti nel seminario di Langata, a Nairobi (Kenya). Da tali richieste i missionari operanti in Kenya ebbero l’ispirazione di estendere la loro presenza all’Uganda, coniugando l’attività di prima evangelizzazione con quella di animazione missionaria e vocazionale.
Dall’idea si passò ai fatti: nel 1985 i padri Luigi Barbanti e Antonio Rovelli arrivarono a Bweyogerere, una scuola-cappella della famosa parrocchia di Namugongo, la località dove un centinaio di cristiani, cattolici e anglicani, subirono il martirio.
Venti anni fa, Bweyogerere era un villaggio in aperta campagna; oggi è diventata una zona urbana, alla periferia orientale di Kampala, la capitale dell’Uganda.
Organizzata la nuova missione, si passò subito alla costruzione del centro di animazione vocazionale a Kiwanga, a tre chilometri dalla sede parrocchiale. Si tratta di un centro di accoglienza per giovani che sentono la chiamata alla vocazione religiosa come missionari della Consolata. Qui i giovani ugandesi trascorrono un anno per conoscere meglio l’Istituto e la loro vocazione, prima di passare al seminario di Nairobi per gli studi di filosofia.

ALTRO PASSO… AD GENTES

Nel 1996, quando l’immensa diocesi di Kampala fu suddivisa in 4 circoscrizioni ecclesiastiche: Bweyogerere rimase inclusa nella diocesi della capitale; Kiwanga si trovò dentro i confini di quella di Lugazi.
Fu proprio in seguito a tale divisione che mons. Cyprien Kizito Lwanga, bisognoso di preti per la sua nuova diocesi di Kasana-Luweero, scrisse al superiore regionale dei missionari della Consolata in Kenya, suggerendo di prendere in consegna la missione di Kapeeka.
La proposta venne accolta con favore dalla comunità dei missionari in Kenya. Ben presto fu firmato un contratto, in cui il vescovo s’impegnava a costruire una casa per i missionari e il superiore promise di inviare almeno due missionari.
L’offerta di questo nuovo campo di lavoro, infatti, rispondeva agli impegni presi dal loro capitolo generale del 1999: estendere la missione sempre più lontano, verso luoghi più missionari, dove poter vivere in modo più radicale il proprio carisma missionario e il servizio di consolazione. Pur continuando la missione nella periferia della capitale, ma avanzando verso un territorio rurale, totalmente differente, i missionari della Consolata sentivano di procedere nella direzione migliore.
Soprattutto, si tratta di una zona, chiamata «Luweero», che ha particolarmente sofferto per i conflitti e le violenze che si sono susseguite dopo il famigerato regime di Idi Amin. Da qui cominciò la guerra di liberazione, guidata dall’attuale presidente contro i suoi principali oppositori. Gli effetti si vedono ancora oggi: tanta gente è stata uccisa e tutte le infrastrutture sono state distrutte.
Un anno fa, per commemorare il 25° anniversario dell’inizio di tale rivoluzione, il presidente Museveni ha voluto ripercorrere quella regione e vi ha inaugurato varie costruzioni, tra le quali anche una cappella dedicata a Santa Teresa, contribuendo con una generosa offerta.
La costruzione dell’abitazione per i missionari a Kapeeka è iniziata nel 2002, ma non senza difficoltà. I mezzi finanziari del vescovo erano limitati. Nel maggio 2004, due padri, l’ugandese Leo Bagenda e il tanzaniano Edward Ololi, poterono stabilirsi in un’ala quasi terminata della casa; scavarono un pozzo e portarono l’elettricità. Con l’acqua e la corrente si poteva cominciare a lavorare.
La nuova missione si trova a un centinaio di chilometri a nord ovest della capitale. Il suo territorio si estende per un raggio di 60 km e conta circa 26 mila persone, che vivono di agricoltura e pastorizia. Le famiglie sono numerose, con tanti bambini e giovani.
Dopo la scuola elementare la maggioranza dei giovani non possono proseguire gli studi per mancanza di mezzi economici. C’è tanta povertà e ignoranza. La donna in genere vive in uno stato di sottomissione all’uomo, del tutto ignara dei propri diritti. Numerose sono le ragazze madri. I due missionari hanno subito accolto le sfide e urgenze, soprattutto nel campo economico e sanitario.

PEDALARE…

Quasi metà della popolazione della nuova missione è cattolica; un quarto appartiene ad altre chiese cristiane, in particolare anglicana e aventista. Pochi sono i musulmani.
A Kapeeka non c’è una chiesa parrocchiale, essendo stata distaccata dalla parrocchia madre di Kijaguzo; i missionari vi hanno trovato una semplice cappella; altre 20 sono disseminate su quasi tutte le colline della zona.
Padre Leo mi porta a visitae alcune e mi spiega che ognuna di esse è affidata a un laico, con l’aiuto di un catechista. Inoltre, in ogni cappella c’è una trentina di laici che fanno funzionare diversi comitati e commissioni: per la pastorale, per i giovani, per le costruzioni, per la gestione e funzionamento della vita della comunità… La maggior parte del loro lavoro missionario, quindi, si svolge nelle cappelle.
Mentre percorriamo la strada principale, costeggiata da alcune botteghe e magazzini, ci fermiamo presso il rivenditore di biciclette. «È qui che, grazie agli aiuti inviatici da una Ong d’Italia, ho comperato 26 biciclette per i catechisti della parrocchia – racconta il missionario -. Abbiamo frequenti riunioni con loro, perché la nostra evangelizzazione si fonda in gran parte sul loro servizio. Per venire alle riunioni, essi dovevano fare decine di chilometri a piedi. Le biciclette hanno facilitato molto il loro lavoro. Ne sono felicissimi».
Il padre vuole presentarmi il catechista del villaggio di Kyanya, ma non è nel suo appezzamento di terra. Ritorniamo sulla strada principale e lo incrociamo: con un amico ha cominciato a disboscare un terreno, perché gli abitanti del villaggio si lamentano che la chiesa è lontana. Hanno deciso, quindi, di sistemare una nuova cappella su quel terreno tra la strada principale e il villaggio.
Proseguendo il nostro viaggio, ci fermiamo al dispensario di Santa Teresa, gestito da tre infermiere. Una, però, è partita per partecipare a un seminario formativo; la seconda è a casa per un lutto in famiglia; c’è rimasta Patricia Namutebe, che mi fa visitare il dispensario. Non ci sono né acqua né elettricità.

E MI CHIAMARONO…
«PADRE LETTO»

Il dispensario di Santa Teresa può essere uno specchio della precarietà in cui versano la sanità e gli ospedali in molte zone dell’Uganda. Significativo al riguardo è un fatto capitato a padre Peter Ssewezi, che attualmente lavora con padre Leo, anche lui ugandese, già missionario per tre anni in Sudafrica e quattro in Kenya.
«Un giorno – racconta – mi presentai all’ospedale della città più vicina con una donna gravemente ammalata. Ricevute le prime cure, la paziente doveva essere messa a letto; ma l’unico letto di cui disponeva l’ospedale era già occupato da un anziano. Allora alcune infermiere stesero un materasso sul pavimento, vi adagiarono l’anziano e posero la donna sul letto liberato.
Ne fui indignato! Non è possibile, dissi dentro di me. Uscii dall’ospedale e mi recai in un magazzino, dove sapevo che si vendevano i letti. Nel giro di un’ora ritornai con un letto nuovo di zecca. Da quel giorno sono diventato “il padre del letto” per medici e infermieri».
In una parrocchia appena avviata, come Kapeeka, le costruzioni non mancano mai. Padre Leo mi fa visitare il cantiere dell’asilo. A Kapeeka esistono già due scuole elementari e una media statali, ma il livello d’insegnamento è molto basso. Con la scuola matea, la parrocchia spera di portare un contributo significativo all’educazione dei più piccoli.
Dopo la scuola matea, sarà la volta del dispensario e in fine si aprirà il cantiere per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale. I missionari non si aspettano di completarla prima di quattro o cinque anni: costruire la chiesa-comunità è per loro più importante che costruire la chiesa di mattoni.
Da notare, poi, che la costruzione di Kapeeka, forse per la prima volta nella regione del Kenya, è affidata totalmente a missionari africani.

ANZIANI: SITUAZIONE
IN EVOLUZIONE

Quando, 25 anni fa, spiegavo ad alcuni africani la situazione degli anziani in Canada, come alcuni di essi venissero affidati a posti specializzati per la loro cura, immancabilmente reagivano affermando che non sarebbe mai stato possibile vedere fatti del genere in Africa, dove i legami familiari sono fortissimi. Ora, visitando l’Uganda, mi rendo conto che tale situazione si sta evolvendo in maniera rapida e inquietante.
La sorpresa inizia quando padre Leo mi sottopone un progetto per l’acquisto e l’equipaggiamento di un’ambulanza, destinata a trasportare gli ammalati, soprattutto gli anziani, nei due ospedali più vicini, distanti 30-40 km da Kapeeka.
Più della richiesta, mi stupisce ciò che vedo con i miei occhi, quando padre Leo mi accompagna in una breve visita a quattro o cinque anziani, praticamente soli e abbandonati. «Come è possibile? Dove è andata la famiglia?» gli domando. Sono curioso.
Ci fermiamo dapprima davanti a una misera capanna: tutta la parte posteriore è crollata; le travi sono divorate dalle termiti. Nel minuscolo spazio rimasto in piedi, abita un vegliardo che deve avere almeno 80 anni e si vede che è molto malato: tenta di sollevarsi per stringermi la mano, ma non ci riesce.
Arriva di corsa alle mie spalle un ragazzo di 13 anni, di ritorno da scuola: è suo nipote; è tutto ciò che restava a questo vecchio. È lui a occuparsi del nonno e a sbrigare, alla sua età, tutte le faccende domestiche. Lo vedo uscire e, a destra della capanna attizzare il fuoco, dove bolle una pentola malandata. Non oso sollevare il coperchio!
Ma dov’è il resto della famiglia? Padre Leo mi spiega che il vecchio aveva avuto alcuni figli e figlie, ma sono stati tutti uccisi durante la guerra e le violenze scoppiate dopo la caduta del regime di Idi Amin.
Mentre ci rechiamo a visitare un’altra famiglia, ci fermiamo a salutare uno dei più anziani catechisti della parrocchia, immigrato in questa zona dai tempi dei missionari d’Africa (Padri bianchi). Nonostante la sua evidente età avanzata, cammina e si avvicina alla jeep insieme alla sua sposa, tutta felice di poter salutare dei preti.

CIRCA 16 FIGLI

Il prossimo anziano si chiama Joseph Makuya; ha passato la vita nella polizia, fin dai tempi del colonialismo britannico; parla un eccellente inglese. Posso quindi fargli qualche domanda: il suo cervello è definitivamente in eccellente forma, malgrado i 78 anni suonati. Sua moglie (la seconda o la terza, non oso domandarglielo), molto più giovane di lui, si avvicina con due sedie e s’inginocchia davanti a noi, secondo il costume di queste regioni: le donne accolgono i visitatori inginocchiandosi davanti a loro.
La accompagnano tre figli, il più giovane ha 12 anni. «È vostro figlio?» domando al vecchi. «Sì, il più giovane» risponde. Di fronte alla vigoria di quest’uomo mi azzardo un’altra domanda: «A quando il prossimo?».
«Paolo è l’ultimo – risponde sorridente -. Lo abbiamo battezzato col nome di Paolo perché è nato durante l’ultima venuta in Uganda di Giovanni Paolo ii». «Quanti figli avete?». «Circa 16» risponde con un sorriso ancora più largo. «Dove sono ora?».
Joseph Makuya mi spiega che i giovani non vogliono più restare in campagna. Una volta in questa regione i colonizzatori britannici possedevano immense piantagioni di caffè, che davano impiego a centinaia di lavoratori. Poi il suo prezzo sempre più in ribasso, la concorrenza internazionale, con l’aggiunta di una malattia che divora e uccide le piante di caffè, hanno avuto per effetto di porre termine a quell’età dell’oro.
Ora, finita la scuola secondaria e anche prima, i giovani vanno nelle città del paese in cerca di lavoro. Aggiunge che una o due volte all’anno riusciva ad andare a visitarli; ma ormai, a causa di forti dolori alla schiena, gli è sempre più doloroso affrontare un viaggio di tre ore. Le persone anziane restano qui, sole.

GELTRUDE, LA VICINATA

Dall’altro lato della strada abita Geltrude. Tulle le mattine Joseph va a visitarla per avere sue notizie. Lo stesso fa al tramonto. Anch’essa è totalmente sola, ma per un’altra ragione. Era emigrata in questa zona insieme a suo marito in cerca di lavoro. La sua famiglia è a 300 km più a ovest. Dopo la morte del marito, è remasta tutta sola e il suo vicino Joseph ha cominciato a occuparsi di lei. Dovrebbe avere un paio d’anni più di lui; ma, come capita spesso in Africa, nessuno sa dire con precisione la propria data di nascita.
L’anno scorso, a causa di un uragano particolarmente violento, un grosso albero è caduto sulla capanne di Geltrude. È Joseph a raccontare l’accaduto: «Dopo quel rumore simile a un colpo di fulmine, sono uscito precipitosamente e che vedo? Il grande albero che era sul bordo della strada non c’era più. Mi faccio avanti e mi accorgo che è caduto sulla casa di Geltrude. Tutto spaventato, m’infilo tra i rami e arrivo fino alla sua capanna e vedo la donna uscire lentamente dalle rovine della sua casa, indenne, senza neppure un graffio. È un miracolo».
Mi volto e vedo che ora Geltrude abita in una modesta casa; allora Joseph mi spiega che tutti i vicini si sono messi insieme per salvare ciò che si poteva ancora salvare dalle rovine della casa schiacciata e hanno ricostruito in tutta fretta un riparo, per colei che è considerata la più anziana del villaggio.
Padre Leo cerca di comunicare con Geltrude; ma essa è diventata talmente sorda da rendere impossibile una conversazione. La salutiamo, ammirando il bel sorriso che addolcisce quel viso profondamente segnato da una storia così lunga e tanto drammatica.

di Jean Paré

Jean Paré




Tibhirine: 10 anni dopo

Nel mese di maggio 1996, a Tibhirine in Algeria, 7 monaci trappisti venivano uccisi da una banda di integralisti islamici. La loro presenza in terra d’Algeria era da anni contrassegnata da un profondo anelito di preghiera e da una delicata amicizia verso il popolo umile e semplice con cui condividevano la vita di ogni giorno. A 10 anni di distanza, fare memoria di questi martiri cristiani è un dovere essenziale da parte nostra, per evitare che la dimenticanza del loro martirio annacqui il cammino di dialogo aperto da questi silenziosi testimoni del vangelo di Gesù.
Sulla scia del loro sacrificio, altri uomini e donne hanno pagato la fedeltà al messaggio evangelico nel mondo islamico: nello stesso periodo fu ucciso il vescovo di Orano, mons. Pierre Claverie; successivamente la laica italiana Annalena Tonelli veniva assassinata in Somalia nell’ospedale che essa stessa aveva costruito per alleviare le sofferenze della povera gente; ultimo, ancora fresco di memoria, lo scorso febbraio, a Trebisonda in Turchia venne ucciso il sacerdote italiano fidei donum don Andrea Santoro. Solo restando in contemplazione di questi nomi, ci prende un senso di sgomento: a cosa serve la nostra presenza in terra islamica, se il prezzo da pagare è quasi inevitabilmente quello del martirio?
Per una serena e approfondita riflessione su questi avvenimenti, forse vale la pena prendere l’avvio dal precursore del dialogo con il mondo islamico: Charles De Foucauld. In tempi in cui la parola ecumenismo non era ancora stata coniata e il dialogo con altre religioni non aveva ancora fatto i primi passi, con una scelta coraggiosa egli si stabiliva a Tamanrasset, nel cuore del deserto del Sahara, e attraverso una presenza discreta, umile, poco appariscente, dava inizio a un solco di evangelizzazione con i tuareg del deserto di cui solo adesso si cominciano a vedere i primi frutti.

Siamo di fronte a uno stile missionario radicalmente diverso, che per certi versi ci coglie impreparati. Quando si evoca la missione o si parla di terzo mondo, immaginiamo quasi sempre la povera gente che bisogna aiutare, offrendo quelle strutture (scuole, ospedali, servizi sociali, ecc.) di cui a nostro avviso avrebbero bisogno per uscire dalla loro povertà. Non ci sfiora minimamente il dubbio che il primo approccio con gente diversa per lingua e cultura vada fatto secondo lo stile indicato proprio da questi testimoni, con una presenza nel cuore del vissuto delle persone, discreta e silenziosa, caratterizzata da un intenso e fecondo dialogo con Dio.
Già i contemporanei di Charles De Foucauld percepirono il nuovo stile di dialogo, quello, cioè, di un uomo profondamente innamorato del suo Dio, tale da doverlo contemplare di fronte all’immensità del deserto, nel cuore di un popolo che, apprezzandone la discrezione, non esitò a qualificarlo come «marabutto», cioè santo. Nella stessa scia si sono mossi i trappisti di Tibhirine, Annalena Tonelli e don Andrea Santoro: essi hanno indicato a una cristianità sonnolenta e distratta quale sia il futuro che attende un cristianesimo sempre più minoranza, senza più garanzie foite da una società cristiana e quindi intraprendere un itinerario di ascesi e dialogo, dove l’essenzialità del messaggio evangelico rifulga proprio attraverso l’adesione alla vita di Cristo.
Poco prima di morire, fratel Christian scriveva: «L’insicurezza? È una grazia di fede. La più scomoda per chi pensa solo a dormire. La più adatta alla vigilanza… A Cristo è stato proposto di scegliere tra due stabilità: il trono o la croce. Ha scelto la croce: ne ha fatto il suo trono, lo sgabello del suo regno. Purtroppo nel corso della storia, la chiesa ha spesso preferito il trono. Soprattutto dopo che l’editto di Costantino ha reso la croce più diffusa e il trono più complice». Queste parole vergate da un martire dei nostri tempi, non sono solo un monito per ogni cristiano, ma indicano una strada ai fratelli e sorelle nella fede, essere battezzati è una cosa seria e scegliere di vivere in pienezza il proprio cristianesimo, può avere come conseguenza anche il martirio.
Riscoprire queste ricchezze perdute, ci aiuta a essere grati a quella folta schiera di testimoni di ogni lingua, razza, popolo e nazione, che hanno versato il loro sangue per l’attaccamento al vangelo di Cristo e per la fedeltà all’uomo di ogni tempo. Cercando di rendere il nostro cristianesimo più comodo, lasciandoci attrarre dal potente di tuo nel suo palazzo, ricercando privilegi e esenzioni, alla lunga può essere più pericoloso e più deleterio per una sincera, onesta e corretta vita cristiana. Lasciarci condurre per mano da questi testimoni, sulle strade aspre e difficili del dialogo, può essere davvero un modo nuovo per vivere la nostra fede.

Mario Bandera




Per approfondire

BIBLIOGRAFIA

a) per conoscere:

• Giuseppe Altamore, I predoni dell’acqua, Edizioni San Paolo 2004.
• Giuseppe Altamore, Qualcuno vuol darcela da bere, Fratelli Frilli Editori, 2003.
• Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli 2004.
• Oscar Olivera, Cochabamba! Water war in Bolivia, Usa 2005.
• Luca Mercalli – Chiara Sasso, Le mucche non mangiano cemento, Sms 2005.
• Aa.Vv., L’acqua come cittadinanza attiva, Emi 2003.
• Andrea Palladino e Astrid Lima, L’acqua invisibile, Boker Media e Associazione Liblab 2005 (un film sulla privatizzazione dell’acqua a Manaus).

b) per agire:

• Andreas Schlumberger, 50 piccole cose da fare per salvare il mondo e risparmiare denaro, Apogeo 2005.
• Ugo Biggeri – Valeria Pecchioni – Anne Rasch, Quotidiano responsabile. Guida per iniziare giorno per giorno a prendersi cura del mondo e degli altri, Emi 2004.
• Marinella Correggia, Manuale pratico di ecologia quotidiana, Mondadori 2000.

c) per tenersi aggioati:

• «Altreconomia», L’informazione per agire, rivista mensile, racconta in maniera facile i problemi dell’economia, proponendo vie alternative alle attuali.
• «Valori», rivista mensile di economia sociale e finanza etica; è più specialistica di «Altreconomia», rivolta a chi non crede alle pagine finanziarie ed economiche dei giornali.
• «Altroconsumo», rivista mensile per i consumatori; si riceve per abbonamento e costa abbastanza cara ma per un’ottima ragione: non contiene una sola riga di pubblicità e, di conseguenza, non è da questa condizionata.

SITI INTERNET

a) siti di informazione critica:

• www.contrattornacqua.it – con accurati dossier in formato Pdf
• www.legambiente.com – un sito ricco di informazioni ed idee
• www.acquabenecomune.org – con le principali leggi in materia
• www.waterobservatory.org – un sito internazionale
• www.worldwater.org – un sito internazionale

b) siti commerciali:

• www.aquafed.org – il sito delle multinazionali dell’acqua
• www.mineracqua.it – il sito italiano dei produttori di acqua in bottiglia: molta autopromozione (e, ovviamente, nessuna autocritica)

PaMo




Acqua in bottiglia? No, grazie!

Lo scandalo dell’acqua (4): l’acqua in bottiglia (di plastica

Abbagliati da una pubblicità ossessiva ed invadente, gli italiani sono i primi consumatori mondiali di acqua in bottiglia: 184 litri a testa! Eppure la logica direbbe di non comprare o almeno di limitare l’acquisto di questo prodotto. Che costa uno sproposito, impoverisce lo stato, inquina il mondo e da ultimo non è proprio detto che faccia così bene…

Un famoso calciatore e una giovane miss Italia: sono loro i testimonial più utilizzati in questi mesi del 2006. La pubblicità, invero simpatica, è quella di due note marche di acqua minerale.
I produttori di acque minerali spendono cifre da capogiro sui media e in particolare in televisione per pubblicizzare i loro taumaturgici prodotti: 300 milioni di euro nel 2004, 600 miliardi di vecchie lire (fonte Nielsen).
Dato che gli introiti della pubblicità sono sacri e spesso fondamentali è difficile leggere o vedere qualcosa contro le acque minerali (1). Trovare qualche notizia libera da condizionamenti è un’impresa, soprattutto sui media importanti, come riconosce, con amarezza, Giuseppe Altamore nel suo libro Qualcuno vuol darcela da bere.
«È (…) un tema – si legge – dai risvolti oscuri tale da suscitare una certa indignazione in chi pensa che la libertà di stampa sia un diritto inderogabile. Purtroppo, l’informazione economica è sottoposta a pressioni e contaminazioni il più delle volte ignorate dai lettori. Nel campo delle acque minerali prevalgono gli interessi dei grandi gruppi del comparto alimentare che aderiscono a Mineracqua, organizzazione aderente a Confindustria. (…) i produttori di minerale fanno parlare di sé a ogni spot televisivo, invadono le pagine dei giornali, rimpinguano gli esausti bilanci delle case editrici che accettano ben volentieri milioni di euro di pubblicità in cambio di un tacito silenzio».
Anche la rivista Altroconsumo vive senza pubblicità ed infatti sul numero 126 dell’aprile 2000 si legge: «“Coccola i reni”, rende la vita leggera, aiuta a fare ping! ping!, reintegra il giusto equilibrio di minerali… le teste d’uovo della pubblicità usano tutta la loro fantasia per convincerci che l’acqua minerale è poco meno di una panacea. Dato che in Italia se ne bevono fiumi, c’è da stupirsi che ci sia ancora in giro qualche malato.
La verità è diversa. L’acqua in bottiglia fa bene, sì, esattamente come quella di rubinetto. Non ci sono motivi fondati per aspettarsi chissà quale vantaggi per la salute dall’acqua minerale, così come non ce ne sono neanche per diffidare sistematicamente di quella foita dagli acquedotti (…). In linea di massima, l’unico motivo per preferire l’acqua minerale è il gusto: vi piace di più di quella che passa il rubinetto di casa».
La conclusione dell’inchiesta di Altroconsumo è ironica: «È proprio vero che l’acqua minerale rende più leggeri, soprattutto i nostri portafogli».

ITALIANI: SORDI E CIECHI

Nel 2003 un rapporto di Legambiente (2) scriveva: «In Italia si consuma più acqua minerale che in qualsiasi altro paese del mondo: circa 172 litri l’anno pro-capite, con un giro d’affari attorno ai 3 miliardi di euro (6.000 miliardi di vecchie lire). Nella sola ristorazione si utilizza il 35% del mercato totale nazionale, settore in crescita per effetto dell’aumento dei pasti fuori casa.
Ma l’iperconsumo di acqua minerale in bottiglia non è proprio un comportamento virtuoso. L’impatto ambientale dell’acqua in bottiglia, per cominciare. Se ogni italiano consuma 172 litri di acqua minerale in un anno, vuol dire che consuma in media 90 bottiglie di plastica e una trentina di vetro. La popolazione italiana conta 55 milioni di abitanti. Dunque ci sono quasi 5 miliardi di bottiglie di plastica da smaltire ogni anno. Tenendo conto che la raccolta differenziata della plastica ne intercetta il 20% circa, almeno 4 miliardi di bottiglie finiscono in discarica. Ogni anno bere ci costa circa 1 milione di metri cubi di discariche. Oltre a questo c’è il problema dell’impatto ambientale dovuto al trasporto su gomma delle bottiglie, con spostamenti del tutto irrazionali che portano acque del sud al nord e viceversa».
Intanto, dopo questo rapporto di Legambiente, il consumo è ulteriormente aumentato. Nel 2004 il consumo di acqua in bottiglia sarebbe stato di 184 litri per italiano: un primato mondiale. Il dato proviene dal prestigioso Earth Policy Institute di Lester Brown (3).

VITA DA CONSUMATORE

Immaginiamo che il nostro consumatore vada al supermercato a comprare l’acqua. Il primo problema da affrontare sarà la scelta: le marche sono decine. Prendere quella che aiuta la digestione o quella che fa andare in bagno? Comunque sia, dalla più famosa alla meno cara, tutte regaleranno al nostro compratore un bel peso (difficile che si acquisti un solo litro) da trasportare, prima alla cassa del negozio, poi a casa (dove magari manca l’ascensore).
Arrivate a destinazione, le bottiglie di acqua saranno consumate. Senza certo soffermarsi sulla lettura dell’etichetta, tra l’altro di solito scritta con lettere minuscole. Residuo fisso a 180 gradi mg/l (milligrammi per litri) e poi una lista di sostanze disciolte in un litro d’acqua espresse in ioni e mg. Tra i pochi che leggeranno, quanti sapranno interpretare queste informazioni? La cosa più comprensibile sarà, probabilmente, il nome di quel dipartimento universitario o di quella Asl che hanno svolto l’analisi chimica e chimico-fisica. Quando? Il 22 marzo 2004. Siamo nel giugno 2006 e dunque sono passati più di 2 anni. Un periodo certo non breve in un mondo dove tutto cambia molto rapidamente. Ma, per una volta, cerchiamo di non essere troppo maligni: quella sorgente è sicura, al riparo da contaminazioni.
Il nostro consumatore ha terminato l’acqua. Che ne farà della bottiglia in Pet? Se rientra nel gruppo del 20% degli italiani che fa regolarmente la raccolta differenziata, cercherà un contenitore per depositare le bottiglie vuote (magari dopo averle accartocciate per non occupare spazio inutilmente). Se invece rientra nel gruppo, purtroppo ben più consistente, di coloro che non fa la raccolta differenziata, getterà le bottiglie nel contenitore della spazzatura (magari anche lamentandosi del servizio di nettezza urbana e dei suoi costi crescenti).
Il nostro consumatore è convinto del prodotto acquistato. Televisioni, radio, giornali gli ricordano in continuazione che l’acqua minerale è più sana, più controllata, più salutare dell’acqua del rubinetto.
Non è vero. Svariate inchieste (ad esempio, Altroconsumo n. 160 del maggio 2003) hanno dimostrato che l’acqua del rubinetto è sottoposta a severi controlli e nella maggioranza dei casi è più garantita di quella in bottiglia. Certamente occorrerebbe investire soldi pubblici negli acquedotti, nel trattamento delle acque reflue, nei controlli sugli scarichi industriali ed agricoli. Costi elevati per casse pubbliche sempre più vuote. Ma siamo certi che non sarebbero soldi ben spesi?

PROFITTI PRIVATI,
PERDITE PUBBLICHE

Già, i soldi. Toiamo al nostro consumatore per capire quanto gli costa comprare quei litri di acqua diuretica, leggera, frizzante, briosa, quasi senza sodio, eccetera eccetera. Il prezzo varia dai 20 ai 50 centesimi al litro. Moltiplicate questo per 184 litri all’anno a persona e otterrete un bel costo. E l’acqua che sgorga dal rubinetto di casa? Costa circa un euro. Però non al litro, ma al metro cubo, cioè per 1.000 litri!
Ma l’argomento costi non si esaurisce qui. La bottiglia in plastica (che in Italia è il 77 per cento del totale) (4) fa risparmiare le imprese ma grava – tanto per cambiare – sulle casse pubbliche. Il costo di una bottiglia in Pet è di circa un centesimo contro i 25 centesimi per una bottiglia di vetro. I costi dello smaltimento del le bottiglie in plastica ricadono però sulle regioni che spendono molto di più di quanto incassino dai canoni delle concessioni per lo sfruttamento delle fonti. Per capire l’entità della questione: su un giro d’affari delle aziende produttrici pari a 2,8 miliardi di euro (5.500 miliardi di vecchie lire) il canone di concessione arriva a circa 5,16 milioni di euro (un miliardo di lire) (5). In sintesi: profitto per le imprese, costi per lo stato e la collettività.
L’Earth Policy Institute ha calcolato l’ammontare di plastica usata ogni anno per produrre le bottiglie per l’acqua: 2,7 milioni di tonnellate! Consumata l’acqua, le bottiglie vengono riciclate in minima parte (le percentuali variano molto da paese a paese); le restanti vanno ad incrementare le discariche o, qualora siano incenerite, ad aumentare le scorie tossiche.
Insomma, ogni volta che andiamo al supermercato, prima di comprare dell’acqua minerale, pensiamo un attimo se ne valga veramente la pena.

Paolo Moiola

Note:
(1) Informazione libera si può trovare sui giornali delle associazioni ambientaliste (Legambiente, Wwf, eccetera), altromondiste (Mani Tese, Unimondo, ecc.) o dell’economia equa e solidale (Altreconomia, Valori, ecc.).
(2) Legambiente, H2Zero. L’acqua negata in Italia e nel mondo, giugno 2003.
(3) Emily Aold, Bottled Water: Pouring Resources Down the Drain, Earth Policy Institute, febbraio 2006.
(4) Anche in questo l’Italia è in ritardo. In Germania, sono in Pet soltanto il 24 per cento delle bottiglie; ben il 75 per cento sono in vetro.
(5) Si veda il Dossier Acque minerali (2005), curato dal «Comitato italiano per il contratto mondiale sull’acqua».


ACQUA DEL RUBINETTO O ACQUA IN BOTTIGLIA?

• il costo
L’acqua del rubinetto costa molto (molto) di meno di quella in bottiglia.

• la salubrità
Non è affatto detto che l’acqua del rubinetto sia qualitativamente inferiore all’acqua in bottiglia. Anzi…

• i costi per la collettività
A fronte di ricavi collettivi molto esigui (le concessioni di sfruttamento vengono rilasciate alle imprese private per pochi spiccioli) ci sono enormi e crescenti costi collettivi, a cominciare dallo smaltimento delle bottiglie di plastica.

• i costi per il pianeta
L’impatto ecologico dell’acqua in bottiglia di plastica è incalcolabile. Non va, inoltre, dimenticato l’impatto sociale che nasce dal diffondersi dell’idea dell’acqua come merce e non come diritto umano.

• la scala dei valori
Bere acqua del rubinetto sottende anche una scelta valoriale. Bere acqua in bottiglia è infatti una risposta individualistica, un comportamento questo che si traduce nella rinuncia alla ricerca dell’acqua come «bene comune» fornito dal servizio pubblico (*).

Pa.Mo.

(*) Si legga il Dossier Acque minerali curato dal «Comitato italiano per il Contratto mondiale sull’acqua».

Paolo Moiola




Acqua del rubinetto? Si, grazie!

Lo scandalo dell’acqua (3): l’acqua di casa

La strategia è chiara: diffondere diffidenza verso l’acqua del rubinetto, un tempo foita da società pubbliche. Un tempo, perché da qualche anno è in corso il tentativo di vendere le infrastrutture idriche pubbliche a società private. La scelta di privatizzare anche l’acqua del rubinetto si inserisce nel consueto schema neoliberista. Ma è una scelta inaccettabile, a cui molti movimenti nati dalla società civile, a Sud come a Nord, si stanno opponendo strenuamente, pur tra mille difficoltà.

L’acqua che scorre dal rubinetto di casa non è un fatto scontato. Al contrario: solo 16 persone su 100 possono aprire un rubinetto e veder scorrere acqua potabile. Nella maggioranza dei paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa, l’acqua non arriva in casa, ma occorre procurarsela ai pozzi, alle sorgenti, ai fiumi, ai laghi. Si calcola che 18 milioni di bambine e bambini sono costretti a fare i portatori d’acqua a causa della mancanza o dell’inaccessibilità degli acquedotti.
Precisato questo, cosa sta avvenendo dove esiste un sistema di distribuzione, nei paesi del Sud come in quelli del Nord? Si assiste al tentativo di privatizzare gli acquedotti, sottraendoli cioè alla gestione pubblica.
Il tutto accade senza fare troppo rumore, per evitare l’opposizione delle popolazioni. Per fortuna, l’operazione non sempre riesce.

RUBINETTI… D’ORO

Come a Cochabamba ed El Alto, ma anche a Napoli, Caserta, Arezzo: due città boliviane ed alcune città italiane idealmente unite nel combattere contro la privatizzazione dei loro acquedotti.
A Cochabamba e ad El Alto hanno combattuto e vinto, sconfiggendo niente di meno che due multinazionali del calibro della statunitense Bechtel e della francese Suez. Nelle città della Campania e della Toscana si sta ancora discutendo, dopo che la decisa opposizione dei movimenti civici per l’acqua ha fermato la macchina della politica e del business.
A Cochabamba l’eroe della prima «guerra dell’acqua» (la seconda è stata quella di El Alto, sempre in Bolivia) è stato Oscar Olivera, operaio e sindacalista.
A Napoli la rivolta è capeggiata da padre Alex Zanotelli, missionario comboniano molto noto per le sue battaglie a fianco della società civile, prima in Kenya, ora in Italia.
A Sud come a Nord la motivazione addotta per giustificare la privatizzazione dei servizi idrici è sempre la solita: l’inefficienza della gestione pubblica. Invece di correggere il pubblico si pensa subito al privato, facendo finta di non ricordare che il privato ha come primo obiettivo il guadagno e per ottenerlo subito è disposto a tutto, indipendentemente dal consenso della clientela.
A Cochabamba, prima della vittoriosa rivolta, le tariffe della Bechtel-Aguas del Tunari, erano aumentate del 68 per cento! Identicamente sono aumentate le tariffe nei comuni italiani che hanno rinunciato ad una gestione pubblica dei servizi idrici. Ad Arezzo, ad esempio, le bollette sono aumentate del 200 per cento.
L’ordinamento italiano prevede 3 modalità di affidamento dei servizi pubblici locali: la gestione interamente pubblica (definita in house providing), la gestione mista (cioè con capitale pubblico e capitale privato) e la gestione interamente privata. Dopo l’elettricità, il gas, i rifiuti, i trasporti urbani, adesso si è giunti alla privatizzazione dell’acqua e dei servizi ad essa collegati (captazione, depurazione, distribuzione, eccetera).
Ma l’acqua non è un bene come un altro; è un bene vitale a cui tutti debbono avere accesso. Data la sua natura di diritto umano fondamentale, la sua gestione dovrebbe sempre essere esclusivamente ed interamente pubblica. Escludendo dunque realtà come l’Acea di Roma, che è una società pubblico-privata, dove tra i soci di minoranza c’è il gruppo Caltagirone (cioè un pezzo da novanta del capitalismo privato).
Questo chiedono i movimenti civici per l’acqua sorti in tutta Italia. Questo chiede la legge di iniziativa popolare per la quale si stanno raccogliendo le firme.
Sta ottenendo molte attenzioni l’esperienza dell’acquedotto pugliese, società a capitale interamente pubblico, il cui presidente è addirittura il professor Riccardo Petrella, notissimo per le sue battaglie in favore dell’acqua come diritto, nonché presidente dell’«Università del bene comune» (che ha una facoltà dell’acqua).
In Italia ogni persona consuma mediamente 250-300 litri al giorno, ma i litri prelevati sono molti di più a causa delle perdite (tabella 4). Un buon governo pubblico dell’acqua dovrebbe avere come obiettivo anche un uso sostenibile della risorsa, riducendo i consumi e gli sprechi.

L’INDIA E LE DONNE
DELL’ACQUA

In Italia si spreca, in altri luoghi del mondo per avere l’acqua si deve combattere. In India due donne, due personalità come Arundhati Roy e Vandana Shiva, si sono messe alla guida di movimenti popolari che contestano le autorità per le loro scelte in materia di acqua.
La scrittrice Arundhati Roy (famosa soprattutto per il romanzo Il Dio delle piccole cose) sta combattendo a fianco delle popolazioni che si oppongono alla costruzione di un’enorme diga sul fiume Narmada, una diga che sommergerà 91 mila ettari di terra, 249 villaggi e la città di Harsud.
La scienziata Vandana Shiva è al fianco delle popolazioni indiane che stanno battendosi (in Kerala, Rajahstan, Utar Pradesh) contro lo scriteriato pompaggio delle falde acquifere da parte della Coca Cola, che nel paese possiede decine di stabilimenti. Si calcola che per produrre un litro di Coca Cola siano necessari ben 9 (!) litri di acqua potabile.
In India, considerata una potenza economica emergente, 500 milioni di persone non sanno cosa sia l’acqua potabile.

Paolo Moiola


ACQUA-DIRITTO O ACQUA-MERCE?

• l’acqua come diritto
L’acqua è un diritto umano essenziale e pertanto inalienabile. Trarre profitto (privato) dall’acqua dovrebbe essere vietato.

• l’acqua come merce
Come sempre accade quando un bene o un servizio sono gestiti da privati, il beneficio di quel bene o di quel servizio andrà soltanto a chi può permetterselo. Ma allora l’acqua smette di essere un «diritto umano» per diventare una «merce».

• le conseguenze dell’acqua come merce
Abbiamo visto che alla lunga dalle ingiustizie derivano sempre conseguenze negative per le società (si veda quanto accaduto dopo la privatizzazione dell’acqua in Bolivia) e l’intera collettività umana. Per questo la mercificazione dell’acqua va fermata subito.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




Alcuni dati sull’acqua

SEMPRE MENO ACQUA

• acqua sul pianeta:
– 97,5% di acqua salata
– 2,5% di acqua dolce
– 0,5% di acqua dolce accessibile

• disponibilità (potenziale) di acqua dolce a testa all’anno:
– nel 1950: 17.000 metri cubi
– nel 2002: 6.600 metri cubi
– nel 2025: 4.800 metri cubi

Fonti: Nazioni Unite, rapporto Legambiente 2003, Quotidiano responsabile (Emi), Internazionale.

DATI DA BRIVIDI

• persone senza accesso all’acqua potabile:
più di 1 miliardo di persone (da 1,1 a 1,4 miliardi); l’88% dell’acqua potabile mondiale viene consumata solo dall’11% della popolazione.

• consumo (domestico) di acqua dolce a testa:
– uno statunitense: 700 litri di acqua al giorno
– un europeo: 200 litri
– un palestinese: 70 litri
– un haitiano: 20 litri
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) al di sotto della soglia di 50 litri al giorno per abitante si può parlare di «sofferenza per mancanza d’acqua».

• morti a causa dell’acqua insalubre:
30.000 morti al giorno, soprattutto bambini e anziani.

• consumi (domestici) di acqua in Italia:
– ogni italiano consuma 250-300 litri di acqua al giorno (ma – secondo Legambiente – il prelievo alla fonte è di 387 litri: la differenza si perde per strada!); siamo primi in Europa e terzi nel mondo, dopo gli Stati Uniti e il Canada.
Come consumano i loro 250-300 litri d’acqua gli italiani? In maniera sorprendente: 39% per bagno o doccia, 20% per i sanitari (gabinetto), 12% per il bucato (lavatrice), 10% per il lavaggio delle stoviglie, 6% per l’uso in cucina, 6% per il lavaggio dell’auto e per il giardino, 6% per altri usi e soltanto l’1% per bere.
Sono esclusi da questo computo i quantitativi di acqua utilizzati per l’agricoltura (di gran lunga la prima consumatrice), per l’industria e per la produzione di energia.

• consumi di acqua in bottiglia in Italia:
– ogni italiano consuma 184 (!) litri di acqua in bottiglia all’anno, un primato mondiale.

Fonti: Nazioni Unite, rapporto Legambiente 2003, Quotidiano responsabile (Emi, 2004), Internazionale, Earth Policy Institute.

Paolo Moiola




Acqua per tutti? Sì, basta che paghiamo

L’acqua è un bisogno e un diritto umano. Sembra un’ovvietà, eppure gli organismi inteazionali, come dimostra il recente Forum di Città del Messico, non la pensano così. Perché mai? Come sempre dietro questioni di questa portata ci sono le multinazionali e dietro queste, come sempre, la ricerca del profitto privato. A tutti i costi.

Il 2006 si è aperto con una grave carestia in Africa orientale: in Kenya, Somalia, Etiopia, Eritrea, Gibuti milioni di persone stanno affrontando una grave carenza di cibo. La situazione è stata provocata dall’ennesima siccità.
Siccità ed alluvioni, in entrambi i casi il risultato è lo stesso: sofferenze, vittime, danni.
Qualcuno ribatte: questo è sempre avvenuto, ma un tempo le notizie non si conoscevano come si conoscono oggi nell’era della comunicazione in tempo reale. Non è così: in tutto il mondo, i cambiamenti climatici e l’alterazione del ciclo dell’acqua stanno provocando la cronicizzazione dei fenomeni estremi, con un sempre più frequente alternarsi di periodi di siccità e di alluvioni. E con l’aggravarsi dei processi di desertificazione (1).

LE RESPONSABILITÀ UMANE

Non tutti sono d’accordo sulla drammaticità dei problemi ambientali e soprattutto sulle responsabilità umane. Ad esempio, l’amministrazione Bush, (che però si è in parte ricreduta dopo i disastri dell’uragano Katrina) o ACQUA DIRITTO UMANO?
SÌ, FORSE, MEGLIO NO

In marzo si è svolto a Città del Messico il IV «Forum mondiale dell’acqua». A prima vista, viene da dire: bello, giusto, importante. Ma poi, quando si legge dietro gli slogan, le cose cambiano e di molto.
Tra gli organizzatori del Forum c’erano i membri di «AquaFed», che è l’associazione degli operatori privati dell’acqua, comprendente più di 200 soggetti, tra cui le grandi multinazionali del settore. Dunque, è importante mettere assieme i tasselli del quadro: il Forum è stato finanziato da quelle stesse imprese che cercano di impadronirsi dell’acqua per fae mercato! Ma le multinazionali non sono mai mosse da slanci filantropici, bensì dalla ricerca dell’utile e dal suo continuo incremento (si chiama «massimizzazione del profitto»).
L’alleanza tra i rappresentanti degli interessi neoliberisti (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Banca interamericana di sviluppo, ecc.) e di quelli privatistici (le imprese multinazionali) ha pesantemente condizionato il Forum e le sue conclusioni. Nella dichiarazione conclusiva firmata dai delegati di 148 paesi si legge che «l’acqua è una garanzia di vita», ma non si fa cenno al concetto di «diritto».
Presagendo questa conclusione, in contemporanea al Forum ufficiale, a Città del Messico si è anche svolto un forum alternativo dei «Movimenti in difesa dell’acqua» al quale hanno partecipato 300 organizzazioni non governative di 40 paesi. Nella loro dichiarazione finale i movimenti hanno affermato che «l’acqua in tutte le sue forme è un bene comune e il suo accesso è un diritto umano fondamentale e inalienabile».
Bisogno o diritto umano? Non è una banale scelta terminologica. Un bisogno può essere soddisfatto in molti modi, soprattutto da chi ha i soldi. Un diritto umano, invece, appartiene per definizione ad ogni persona e non può essere venduto, non può divenire oggetto di mercato, non ha prezzo. Insomma, una bella differenza.
Ci piace citare l’appello del «Forum italiano dei movimenti per l’acqua»: «L’acqua è fonte di vita. Senza acqua non c’è vita. L’acqua costituisce pertanto un bene comune dell’umanità, un bene irrinunciabile che appartiene a tutti. Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile: dunque l’acqua non può essere di proprietà di nessuno, ma deve essere condivisa equamente da tutti».

DISCUTIBILI ALLEANZE

Come si è arrivati a mettere in discussione un bene comune come l’acqua?
In un’epoca di neoliberismo e di fondamentalismo del mercato («più impresa, meno stato», è uno dei tanti slogan), si è celebrata l’alleanza tra istituzioni inteazionali ed imprese multinazionali, un’alleanza forte, che gode di protezioni politiche e di una macchina propagandistica formidabile.
«La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale – scrive Francesco Martone – operano in base all’assioma secondo il quale la dismissione delle imprese di proprietà dello stato in favore di compagnie private può aumentare l’efficienza economica della gestione delle risorse idriche con conseguente riduzione del debito pubblico ed una migliore gestione del bilancio nazionale. I governi prevedono così di ridurre il loro deficit attraverso la privatizzazione. Tuttavia la volontà delle imprese ad investire dipende principalmente dalla loro capacità di massimizzare il ritorno sull’investimento stesso. Quest’ultima dipende a sua volta dal livello di tariffe imposte agli utenti».
Riassumendo, ecco la sequenza degli eventi che produce la privatizzazione dell’acqua: aumento dei prezzi, impossibilità per le classi più povere di accedere al servizio, incremento dei problemi di salute pubblica (diarrea, colera, gastroenteriti, eccetera), investimenti concentrati nelle zone a reddito certo, escludendo pertanto le zone rurali e le periferie degradate (come sono la maggior parte delle baraccopoli).

L’ACQUA IN UN MONDO
PRIVATIZZATO

Secondo Maude Barlow e Tony Clarke (4), «la mercificazione dell’acqua è sbagliata dal punto di vista etico, ambientale e sociale».
«L’antidoto alla mercificazione dell’acqua – continuano i due studiosi ed attivisti canadesi – è la sua demercificazione. L’acqua deve essere dichiarata e concepita come proprietà di tutti. In un mondo dove tutto viene privatizzato, i cittadini devono stabilire chiari perimetri intorno a quelle aree che sono sacre per la vita e necessarie alla sopravvivenza del pianeta. I governi dovrebbero semplicemente dichiarare che l’acqua appartiene alla terra e a tutte le specie ed è un diritto umano fondamentale. Nessuno ha il diritto di impadronirsene a fini di lucro».
Barlow e Clarke non hanno fiducia né nei governi né nelle istituzioni globali. Le loro speranze sono riposte nella società civile. Ma basterà?

Paolo Moiola


(4) Maude Barlow e Tony Clarke, I padroni dell’acqua, The Nation (Usa), ripreso dal settimanale Internazionale del 30 agosto 2002. Maude Barlow e Tony Clarke sono autori di vari studi sui problemi dell’acqua.

Paolo Moiola




Un dono da custodire

PIEMONTE/ ACQUA IN RISICOLTURA

Ci sono punti di partenza diametralmente opposti per l’utilizzo dell’acqua nelle pratiche agricole. Prendiamo ad esempio la coltivazione del riso, la principale attività agricola del Piemonte orientale.
L’utilizzo dell’acqua e del territorio visti come una risorsa da sfruttare hanno prodotto guasti che sono destinati a continuare nel tempo e, in ultima analisi, hanno prodotto costi aggiuntivi per la bonifica dell’acqua ed il recupero del territorio.
Infatti l’impiego per più di trent’anni dei diserbanti chimici in un sistema idrico complesso che ha le acque di superficie in equilibrio con le falde sottostanti ha prodotto una contaminazione delle falde profonde costringendo ad attingere l’acqua potabile in falde sempre più profonde.
Inoltre, la non corretta cura degli alvei dei fiumi che nella parte montana sono stati costretti in argini che ne hanno fatto aumentare la velocità di deflusso a valle dove i letti dei fiumi non più opportunamente dragati favoriscono dannose, periodiche e sempre più frequenti esondazioni. Ora di fronte a questa realtà fatta di contaminazioni ed alluvioni che fare?
L’ottimizzazione del terreno di risaia porta ad un risparmio dell’acqua necessaria per la sommersione, la ricerca sui diserbanti si è sicuramente affinata e si dovrà operare alla luce delle vicende trascorse. Così, ad esempio, la vicenda del bentazone, composto impiegato massicciamente per il diserbo può sicuramente insegnare qualcosa per il futuro.
Il bentazone, prodotto a bassa tossicità ma ad alta stabilità, ha contaminato praticamente tutte le falde più o meno profonde a seconda della compattezza degli strati di argilla presenti nella nostra piana risicola. A completare il danno è sopravvenuto il rimescolamento delle falde con l’impiego di pozzi che attingono acqua da tutte le falde poste in collegamento tra loro e l’escavazione in profondità di ghiaia dai terreni risicoli. L’impiego del bentazone in risicoltura è vietato dal 1986 ma a tutt’oggi lo si ritrova nelle acque emergenti del vercellese ed in pozzi di bassa profondità.
L’auspicio è che il controllo dell’impiego di nuove molecole sia puntuale e continuo per evitare altre contaminazioni che recano danno economico per la bonifica e danno, difficilmente sanabile in tempi brevi, al sistema idrico nel suo insieme.
Noi non siamo solamente fruitori dell’acqua ma, essendo essa un dono di Dio creatore, dobbiamo diventae anche custodi attenti e previdenti.
Il sistema idrico della terra da riso è delicato ed importante per tutto l’ecosistema e non può solamente essere «usato» ma si deve avere cura di non alterarlo, non solo in superficie ma anche nelle falde profonde. Non solo per avere l’acqua necessaria per le risaie ma perché i nostri figli e nipoti possano trovare un ambiente non esaurito e non devastato.
Allora l’acqua per le risaie non è un problema solo degli agricoltori, non è un problema di produttività, ma è attenzione per un dono che rischia di rompersi per imprevidenza, disinteresse e cupidigia.

Luciano Vietti

Luciano Vietti