Calcio: metafora della vita

Il nostro portiere cercava di trattenere i bianchi che volevano sbranare l’arbitro,
e quel Sancocho ebbe la pessima idea di citare Frantz Fanon, il pensatore anticolonialista che a quell’epoca spopolava… Avete sentito, signori, uno spudorato ha osato citare Fanon… E chi avrebbe citato se avessi dato un rigore alla razza bianca? Althusser? Mao? Lo stesso Marx? La guerra imperiale si porta avanti con modi da cavaliere e colpi da animale…

Osvaldo Soriano, Fútbol, storie di calcio

Il calcio è soltanto un gioco? Certamente è un gioco e un gran bel gioco di squadra, quando i retroscena non l’offuscano con intrighi e imbrogli. Un attento osservatore può, però, scorgere in una o più partite di calcio le avventure della vita.
Lo dimostra molto bene lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, nato a Mar del Plata nel 1943 e prematuramente scomparso a Buenos Aires nel 1997.
"Mi ricordo i tempi in cui abbiamo cominciato a rotolare insieme, la palla e io. È stato su un prato a Río Cuarto de Córdoba che ho scoperto la mia vocazione da attaccante" scrive Soriano, maglia numero 9, soprannominato el gordo (il grasso). Purtroppo, però, "mi sono rotto il ginocchio contro il Centenario, a Neuquén" prosegue lo scrittore argentino, promettente centroavanti e costretto a divenire un cronista sportivo dai tratti originali.
Nel 1971 è redattore del quotidiano La Opinión, ma, nel 1976 a causa del colpo di stato, è costretto ad abbandonare l’Argentina, per vivere prima in Belgio e poi a Parigi. Rientrerà in Argentina nel 1984, ormai giornalista affermato e conosciuto anche in Italia per i suoi romanzi tradotti in 12 lingue come: "Triste, solitario y final" (1973), "Mai più pene, né oblio" (1979, soggetto di un film del regista Héctor Olivera, vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino), "Quartieri d’inverno" (1981).
Con l’ironia condita da humour, che caratterizza tutti i suoi scritti, Soriano si descrive così: "Non amo lavorare troppo, né correre per i corridoi di uno stadio, né forse capisco di sport quanto l’incarico richiederebbe. Ma so inventare storie bellissime".
Le sue storie sono, infatti, così belle che hanno entusiasmato tutto il mondo. Lo scrittore argentino riesce con leggerezza e realismo a produrre una rara miscela di esperienze realmente vissute, condite con massime di scrittori amati o a mala pena digeriti, e inserite in eventi storici dai risvolti drammatici e farseschi del xx secolo, senza scordare di citare scene e citazioni dei suoi amatissimi film. Insomma, leggendo e ridendo per strabilianti acrobazie, molto spesso inserite in fantasmagoriche partite di calcio, si scoprono realtà sconosciute o fatti notissimi si rivelano in una nuova prospettiva di luci e di ombre.

"Fútbol", una raccolta postuma di alcuni suoi racconti, brilla come un scintillante e originale mosaico di creatività e capacità narrativa. Le tessere del mosaico rappresentano storie di vita vissuta, come quella di Obdulio Varela che, nel 1950, fece vincere "il mondiale" allo spaurito Uruguay contro il favoritissimo Brasile, o la fantastica partita dei mai giocati mondiali del 1942, arbitrata dal figlio di Butch Cassidy e vinta dagli indiani mapuches, perché gli italiani "entrarono in campo nascondendo manciate di peperoncini rossi da tirare negli occhi degli avversari", oppure la storia vera dell’onesto "pibe de oro" Eesto Lazzati, o quella degli arbitri corrotti e venduti che chiedono "mille pesos per dare un rigore e due o tremila per annullare un goal".
Infine, il lungo racconto "Memorie del Míster Peregrino Feández" rappresenta un po’ una "summa" della scrittura spregiudicata e ironica dell’ineguagliabile Soriano. Il giornalista intervista l’ottantacinquenne argentino "el Mister", ormai costretto su una sedia a rotelle, in una casa di riposo nei pressi di Parigi, e scopre che da giovani si erano già incontrati sui campi da calcio in Argentina. Mister Feández, "innamorato del bel gioco e creatore del calcio-spettacolo", ha infatti iniziato a far giocare ragazzi, perché "si comportino bene e mettano sul terreno il meglio che hanno", ma, dopo aver girato il mondo, a malincuore ammette: "Avevamo messo fine alla bellezza per garantire la resa delle squadre".
Dall’Argentina el Mister era approdato in Francia e, "quando l’avevano cacciato dalla Lega francese per aver giocato una partita con dodici uomini, se n’era andato in Australia". Afferma, infatti, che scriverà le sue memorie "in turco, in inglese e in castigliano, senza tradire né reprimere i sentimenti", perché "nella mia vita ho visto diverse epoche di vari paesi", tra questi l’Italia fascista, l’Urss di Stalin, la Francia occupata dai tedeschi, l’Africa di Lumumba.
Lo sfacelo provocato da ogni tipo di dittatura è ben tratteggiato nella partita giocata davanti a Stalin: "Il problema era che nessuno sapeva se il compagno Stalin fosse tifoso della Dinamo o della Stella Rossa, per cui non era possibile fare il trucchetto per lasciarsi vincere… Dovevo stare attento a fare i passaggi tenendo conto dei problemi di ognuno: all’ala destra mancava l’occhio sinistro, per cui non avrebbe visto niente che gli fosse arrivato da quel lato.
Il centromediano portava un collare rigido, per cui non poteva colpire di testa né guardarsi attorno. La mezzala sinistra, te l’ho già raccontato, era zoppo e si spostava saltellando. Invece, l’ala era un piccoletto mezzo sordo, a causa di una granata che era finita nella sua trincea, e con lui bisognava comunicare a gesti. Tarmanowski era monco, ma si difendeva abbastanza bene. Mi sono un po’ rincuorato quando mi hanno detto che quelli della Stella Rossa erano più malconci di noi… Mi dissero che il portiere portava scarpe ortopediche e che uno dei terzini soffriva di amnesia continua, cioè non sapeva nemmeno quale partita stesse giocando".
Il Mister Feández con lucidità denuncia inoltre la situazione del suo paese: "A quel tempo credevo che noi argentini avessimo intelligenza da vendere, per quello me ne sono andato per il mondo a fare il furbo, il presuntuoso. Adesso, invece, a vedere il paese che abbiamo creato penso che non siamo intelligenti, ma siamo furbi, che è un’altra cosa. Tra i furbi ci sono molti cretini. Credo di averlo imparato da un francese che si chiamava Camus, uno dei pochi intellettuali che si intendeva di calcio. Era un ottimo portiere!".

Soriano termina i suoi racconti, fantastici ma non troppo, citando il suo maestro Américo Tesorieri, portiere del Boca, che ha scritto: "Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che forse tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere, se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio, dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio… Questi sono i profeti. I poeti del gioco".
Osvaldo Soriano con il suo narrare metaforico e fantasioso è anche lui "un poeta del gioco".

Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




La carità anima della missione

22 ottobre: Giornata missionaria mondiale
Messaggio del santo padre Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle!

1. La Giornata Missionaria Mondiale, che celebreremo domenica 22 ottobre p.v., offre l’opportunità di riflettere quest’anno sul tema: "La carità, anima della missione". La missione se non è orientata dalla carità, se non scaturisce cioè da un profondo atto di amore divino, rischia di ridursi a mera attività filantropica e sociale.
L’amore che Dio nutre per ogni persona costituisce, infatti, il cuore dell’esperienza e dell’annunzio del vangelo, e quanti l’accolgono ne diventano a loro volta testimoni. L’amore di Dio che dà vita al mondo è l’amore che ci è stato donato in Gesù, parola di salvezza, icona perfetta della misericordia del Padre celeste.
Il messaggio salvifico si potrebbe ben sintetizzare allora nelle parole dell’evangelista Giovanni: "In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui" (1 Gv 4,9).
Il mandato di diffondere l’annunzio di questo amore fu affidato da Gesù agli apostoli dopo la sua risurrezione, e gli apostoli, interiormente trasformati il giorno della pentecoste dalla potenza dello Spirito Santo, iniziarono a rendere testimonianza al Signore morto e risorto. Da allora, la Chiesa continua questa stessa missione, che costituisce per tutti i credenti un impegno irrinunciabile e permanente.

2. Ogni comunità cristiana è chiamata, dunque, a far conoscere Dio che è Amore. Su questo mistero fondamentale della nostra fede ho voluto soffermarmi a riflettere nell’enciclica Deus caritas est. Del suo amore Dio permea l’intera creazione e la storia umana.
All’origine l’uomo uscì dalle mani del Creatore come frutto di un’iniziativa d’amore. Il peccato offuscò poi in lui l’impronta divina. Ingannati dal maligno, i progenitori Adamo ed Eva vennero meno al rapporto di fiducia con il loro Signore, cedendo alla tentazione del maligno che instillò in loro il sospetto che egli fosse un rivale e volesse limitae la libertà.
Così all’amore gratuito divino essi preferirono se stessi, persuasi di affermare in tal modo il loro libero arbitrio. La conseguenza fu che finirono per perdere l’originale felicità e assaporarono l’amarezza della tristezza del peccato e della morte.
Iddio però non li abbandonò e promise ad essi e ai loro discendenti la salvezza, preannunciando l’invio del suo Figlio unigenito, Gesù, che avrebbe rivelato, nella pienezza dei tempi, il suo amore di Padre, un amore capace di riscattare ogni umana creatura dalla schiavitù del male e della morte.
In Cristo, pertanto, ci è stata comunicata la vita immortale, la stessa vita della Trinità. Grazie a Cristo, buon Pastore che non abbandona la pecorella smarrita, è data la possibilità agli uomini di ogni tempo di entrare nella comunione con Dio, Padre misericordioso, pronto a riaccogliere in casa il figliol prodigo.
Segno sorprendente di questo amore è la croce. Nella morte in croce di Cristo, ho scritto nell’enciclica Deus caritas est, "si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo: amore, questo, nella sua forma più radicale. È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore.
A partire da questo sguardo, il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare" (n. 12).

3. Alla vigilia della sua passione Gesù lasciò come testamento ai discepoli, raccolti nel cenacolo per celebrare la pasqua, il "comandamento nuovo dell’amore mandatum novum": "Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri" (Gv 15,17).
L’amore fraterno che il Signore chiede ai suoi "amici" ha la sua sorgente nell’amore paterno di Dio. Osserva l’apostolo Giovanni: "Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (1 Gv 4,7). Dunque, per amare secondo Dio occorre vivere in lui e di lui: è Dio la prima "casa" dell’uomo e solo chi in lui dimora arde di un fuoco di divina carità in grado di "incendiare" il mondo. Non è forse questa la missione della chiesa in ogni tempo?
Non è allora difficile comprendere che l’autentica sollecitudine missionaria, primario impegno della comunità ecclesiale, è legata alla fedeltà all’amore divino, e questo vale per ogni singolo cristiano, per ogni comunità locale, per le chiese particolari e per l’intero popolo di Dio.
Proprio dalla consapevolezza di questa comune missione prende vigore la generosa disponibilità dei discepoli di Cristo a realizzare opere di promozione umana e spirituale che testimoniano, come scriveva l’amato Giovanni Paolo ii nell’enciclica Redemptoris missio, "l’anima di tutta l’attività missionaria: l’amore che è e resta il movente della missione, ed è anche l’unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono" (n. 60).
Essere missionari significa allora amare Dio con tutto se stessi sino a dare, se necessario, anche la vita per lui. Quanti sacerdoti, religiosi, religiose e laici, pure in questi nostri tempi, gli hanno reso la suprema testimonianza di amore con il martirio!
Essere missionari è chinarsi, come il buon Samaritano, sulle necessità di tutti, specialmente dei più poveri e bisognosi, perché chi ama con il cuore di Cristo non cerca il proprio interesse, ma unicamente la gloria del Padre e il bene del prossimo.
Sta qui il segreto della fecondità apostolica dell’azione missionaria, che travalica le frontiere e le culture, raggiunge i popoli e si diffonde fino agli estremi confini del mondo.

4. Cari fratelli e sorelle, la Giornata Missionaria Mondiale sia utile occasione per comprendere sempre meglio che la testimonianza dell’amore, anima della missione, concee tutti.
Servire il vangelo non va infatti considerata un’avventura solitaria, ma impegno condiviso di ogni comunità. Accanto a coloro che sono in prima linea sulle frontiere dell’evangelizzazione – e penso qui con riconoscenza ai missionari e alle missionarie – molti altri, bambini, giovani e adulti con la preghiera e la loro cooperazione in diversi modi contribuiscono alla diffusione del regno di Dio sulla terra.
L’auspicio è che questa compartecipazione cresca sempre più grazie all’apporto di tutti.
Colgo volentieri questa circostanza per manifestare la mia gratitudine alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e alle Pontificie opere missionarie, che con dedizione cornordinano gli sforzi dispiegati in ogni parte del mondo a sostegno dell’azione di quanti sono in prima linea alle frontiere missionarie.
La Vergine Maria, che con la sua presenza presso la croce e la sua preghiera nel cenacolo ha collaborato attivamente agli inizi della missione ecclesiale, sostenga la loro azione e aiuti i credenti in Cristo ad essere sempre più capaci di vero amore, perché in un mondo spiritualmente assetato diventino sorgente di acqua viva.
Questo auspicio formulo di cuore, mentre invio a tutti la mia benedizione.

BENEDICTUS PP. XVI

Benedictus PP. XVI




La parabola del «figliol prodigo»

La parabola del "figliol prodigo" (4)
Il vangelo della gioia genera la comunità
e uomini e donne liberi

"Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3,30)

Ripercorriamo il capitolo 15 di Luca mettendo in evidenza in modo particolare il vocabolario in relazione alla vita di ogni giorno. È un vocabolario circolare, perché vi sono parole e concetti che ritornano come un ritornello, quasi che l’autore sia preoccupato che i suoi lettori imparino bene la lezione di vita.

VOCABOLARIO CIRCOLARE

Abbiamo sottolineato più volte che ci troviamo di fronte non a tre, ma a due parabole, ciascuna delle quali è prolungata o raddoppiata con un nuovo personaggio che mette ancora di più in luce l’argomento della prima. Leggendo in parallelo la prima parabola (vv. 4-7) e il suo prolungamento (vv. 8-10) scopriamo "visivamente" che vocabolario e messaggio sono gli stessi.
La parabola vera e propria (l’uomo/pastore) è composta di quattro versetti, per un totale, in greco, di 81 parole, mentre il commento illustrativo (la donna) si compone di tre versetti, per un totale di 51 parole, cioè 28 in meno, rispettando così anche un rapporto proporzionale tra parabola primaria e aggiunta di rafforzamento.
Il messaggio della prima parabola è dunque quella dell’esclusività di ciascuno di noi che Lc indirizza sia al mondo maschile che a quello femminile: nessuno deve sentirsi escluso dall’attenzione di Dio.
Sia la parabola (pastore) che il suo prolungamento (donna) cominciano con un interrogativo ipotetico, che esige la risposta: "Nessuno". Nessuno infatti abbandona una pecora nel deserto e nessuna donna fa finta di nulla se perde una moneta preziosa.
Luca stesso ci aveva preparato a questa svolta, quando, nel contesto della preghiera, ci aveva già anticipato che Dio non si rassegna di fronte alle esigenze dei suoi figli e nessun padre dà al figlio pietra per pane o serpe per pesce o scorpione per uovo (Lc 11,11-13). Ora ci dice che a maggior ragione Dio non si rassegna alla morte dei suoi figli, per quanto peccatori e ribelli essi possano essere. Pateità/mateità e figliolanza non si possono mai rinnegare senza annullare la propria identità e Dio "ricorda sempre la sua alleanza: parola data per mille generazioni" (Sal 105/104,8).

UN UOMO E UNA DONNA PER LA STESSA IMITAZIONE

Appare subito evidente che il secondo esempio è un doppione del primo, che non ha senso nella logica della parabola, ma trova un motivo nel fatto che Lc ricostruisce in forma letteraria un parallelismo, tanto caro alla cultura ebraica: si afferma lo stesso concetto, ripetendolo due volte, in positivo e in negativo o mettendo in evidenza gli opposti, come in questo caso: maschile e femminile.
L’introduzione narrativa del v. 3 è illuminante, come abbiamo già sottolineato, perché parla al singolare di "questa parabola" e poi passa a illustrare due esempi. In questo contesto si evidenzia l’intenzione dell’autore di rimarcare l’insegnamento del primo racconto, ma sotto la prospettiva femminile.
Mettendo come protagonisti dell’unica parabola, un uomo e una donna, l’autore espone la sua intenzione di dire che nessuno, uomo o donna, possa e debba dirsi esentato dall’imitare il comportamento di Dio. La prova che questa sia la volontà dell’evangelista, si trova al v. 4 dove non si parla di "pastore", ma alla lettera (dal greco): "Quale uomo tra di voi…", che trova il suo corrispettivo al v. 8 nella specularità opposta: "Oppure quale donna…".
Lc non è nuovo a questo procedimento, perché, pur non essendo ebreo, è l’evangelista che più di tutti imita lo stile ebraico, in modo particolare quello della bibbia greca dell’AT, detta la Lxx. Gli studiosi hanno contato circa 83 septuagentismi (frasi e modi di dire cioè costruiti sullo stile della Lxx).
Secondo la tradizione ebraica, ogni Israelita per adempiere la toràh doveva osservare 613 precetti: 365 negativi (uno per ogni giorno dell’anno) e 248 positivi (uno per ogni articolazione, nervo e osso che compongono il corpo umano). Le donne erano dispensate dall’osservare i 248 precetti positivi, mentre erano obbligate a rispettare quelli negativi.
In questo contesto, narrare una parabola mettendo sullo stesso piano sia un uomo che una donna, significa riconoscere anche alla donna il diritto di imitare Dio né più né meno come l’uomo: è la dichiarazione dell’uguaglianza dei figli di Dio.
Lc è veramente il discepolo di Paolo che aveva spezzato ogni catena di discriminazione in nome della fede: "Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,26-28).

LA COMUNITA’ LUOGO DELLA GIOIA

Un altro elemento di corrispondenza è l’opposizione che intravediamo nei due ambienti diversi dove agiscono l’uomo e la donna: il primo si trova "nel deserto" (v. 4), la seconda invece in "casa" (v. 8), che in qualche modo ci prefigurano quanto succederà nella seconda parte dove si descriverà un allontanamento dalla casa patea verso "un paese lontano" (v. 13), che non è solo il deserto, ma qualcosa di peggio: è la negazione della santità della casa, perché il figlio minore andrà in una regione impura, popolata da porci (v. 15).
Sia l’uomo/pastore che la donna/casalinga della prima parabola hanno la stessa reazione e provano gli stessi sentimenti di fronte al ritrovamento, forse insperato, della pecora e della moneta: ambedue chiamano amici e vicini per condividere la gioia che li pervade.
Quando l’arcangelo Gabriele visita Maria di Nazareth, entrando da lei la saluta dicendo: "Chàire-Gioisci" (Lc 1,28), che è lo stesso verbo che usano il pastore e la donna quando convocano gli amici, ma rafforzato dalla preposizione di compagnia: "Synchàrete-con-giornite" (Lc 15,6.9). È il bisogno della condivisione del cuore. È la logica della comunità, come luogo naturale della gioia e dell’amore, mentre la tristezza spinge alla chiusura e all’isolamento. Quando si scoppia di gioia, si è naturalmente contagiosi e si cerca una comunità dove potere partecipare i sentimenti di vita.
Forse qui c’è un discreto accenno alla comunità/chiesa, che è tale solo se condivide e partecipa la vocazione alla imitazione del Padre che sbocca nella gioia. Non basta andare in chiesa, bisogna essere chiesa. Va in chiesa chi deve adempiere un obbligo, chi deve pagare un pedaggio.
È chiesa chi invece risponde a una vocazione con il desiderio di incontrare uomini e donne con cui partecipare la gioia di essere ritrovati, con cui condividere il vangelo della gioia, espresso dall’uomo e dalla donna della prima parabola e dal padre della seconda parabola che ora ci accingiamo a studiare insieme.

UN UOMO AVEVA DUE FIGLI, ED ERA SOLO

La 2a parabola, rigorosamente parlando, è limitata ai vv. 11-24: la parte relativa al padre e al figlio minore. La seconda parte (vv. 25-32), che riguarda il padre e il figlio maggiore, è un prolungamento della prima, osservata da una prospettiva opposta. In essa si ripete lo stesso insegnamento della prima, ma da un angolo di visuale diversa. Che sia la seconda parabola lo rileviamo dal v. 11, dove ritroviamo per la seconda volta il verbo narrativo "e disse" che fa coppia con "egli disse" del v. 3.
Se la prima parabola è illustrata dall’esempio di un uomo e una donna, la seconda è dominata da due figure: un uomo e due figli (v. 11) che l’autore divide in due parti:
a) il padre e il figlio più giovane (vv. 12-24),
b) il padre e il figlio maggiore (v. 25).
Il padre fa da peo ai due figli, che sono speculari e l’uno non può esistere senza l’altro, perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro.
Sia nella parabola essenziale (figlio minore) che nel suo prolungamento (figlio maggiore) la figura centrale è il padre: tutto ruota attorno a lui; e mentre i figli fanno i propri interessi, ciascuno dal proprio punto di vista, il padre è in continuo movimento: corre (v. 20), si getta addosso al figlio (v. 20), esce incontro al maggiore (v. 28), mentre i figli e i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in fretta (v. 22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi dalla pateità che li sostiene.

DALL’ESPERIENZA ALLA STORIA DELLA SALVEZZA

La parabola in sé riguarda le scelte e il comportamento del "più giovane" (v. 12), mentre il comportamento del figlio maggiore fa da contrasto e ci permette di accostarci alla figura del padre in modo più pieno e profondo. Il confronto tra la parabola del figlio minore in relazione con suo padre e il suo prolungamento, cioè del figlio maggiore in rapporto con suo padre, non è un doppione vero e proprio, come nella prima parabola del pastore/donna, ma l’altra faccia della stessa medaglia.
Questa seconda parabola illustra il tema della misericordia sullo sfondo della storia della salvezza come si è realizzata, mettendo a confronto Israele e la chiesa.
Esaminiamo le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte (vv. 25-32), riportando solo i temi e non il testo che occuperebbe molto spazio:
I due figli, il più giovane e il maggiore sono simboli di due atteggiamenti: un abisso li separa dal padre; ma anche tra di loro vi è una somiglianza nonostante non esista alcuna comunicazione del figlio minore con il fratello maggiore e di questi con il fratello minore. Sono stranieri in "casa", la negazione della frateità pur vivendo insieme al padre.

APPLICAZIONE: A QUALE DEI DUE FIGLI ASSOMIGLIAMO

Non conosciamo il motivo per cui il figlio minore vuole andarsene via di casa, ma possiamo intuirlo, perché il testo ci offre qualcosa di più di un semplice sospetto.
Viene un tempo nell’adolescenza, in cui i genitori sono colpevoli di tutto: in essi l’adolescente identifica tutte le cause di tutte le sue insoddisfazioni che riguardano il corpo (nessun adolescente "si piace"), la fatica di vivere, lo stile di vita, la casa, la famiglia. Il "figlio più giovane", come tutti gli adolescenti, vuole essere "più grande" di quanto non sia, mentre sperimenta ogni giorno di essere trattato come l’adolescente che è. Il conflitto con tutto ciò che ostacola il suo "essere grande" è inevitabile, il confronto con il fratello maggiore è una sfida che degenera in guerra. Si sogna di scappare di casa, come soluzione della propria irrequietezza. A questa età si sogna la morte dei genitori e si odiano i fratelli e sorelle, perché "loro sono grandi, mentre io a quin-di-ci-an-ni sono trattato/a ancora da bambino-bambina".
Chiunque è stato genitore ha vissuto questi problemi. I fratelli maggiori si divertono alle spalle dei fratelli minori e non perdono occasione per mettere in ridicolo le manifestazioni della loro crescita e del loro sviluppo. Da un lato l’adolescente "sente" di non potere vivere una sua propria vita se non "uccide" (psicologicamente) i genitori, mettendo così in atto quel desiderio inconscio di eliminare qualunque principio di autorità.
In psicologia questo principio è codificato nell’espressione: "Uccidi il Budda che incontri per strada", dove Budda sta per qualsiasi forma di autorità (padre, madre, maestro, direttore spirituale, ecc.). Per ritrovare l’autorità come sostegno di servizio alla crescita, bisogna sapersene separare, altrimenti c’è il rischio di vivere sempre sottomessi a una autorità che diventa sostitutiva e per questo deleteria.
Il figlio minore volle uccidere suo padre per affrancarsi dalla dipendenza, ma non è ancora giunto il suo tempo di maturità; il figlio maggiore non aveva tagliato il cordone ombelicale, ma non era affatto cresciuto, perché si era rintanato nel suo egoismo possessivo, fino a essere geloso del ritorno del fratello, che vede come antagonista e concorrente.
È l’atteggiamento di fondo per vivere una relazione matura e armonica in ogni ambiente, in ogni condizione. Ciò vale per il figlio nei confronti del padre e della madre, per il monaco nei confronti del superiore, per la suora nei confronti della superiora, per il prete nei confronti del vescovo, per la moglie nei confronti del marito, per il marito nei confronti della moglie, per gli alunni nei confronti dei maestri.
Tutti coloro che esercitano una qualche forma di autorità devono diminuire se vogliono che gli altri affidati alla loro responsabilità crescano liberi, pieni, maturi e diventino adulti (Gv 3,30).
Col padre e i suoi due figli, tutti dobbiamo fare i conti e prima lo facciamo meglio è per noi [continua – 4].

Paolo Farinella

Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA

Uomo
4 "Quale uomo di voi
se ha cento pecore
e ne perde una,
non lascia le novantanove
nel deserto
e va dietro a quella perduta,
finché non la ritrova?
5 Ritrovatala,
se la carica sulle sue spalle
tutto contento,
6 va a casa,
chiama gli amici e i vicini
e dice loro:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la mia pecora perduta”.
7 Io vi dico che così
vi sarà gioia
in cielo
per un solo peccatore
che si converte,
che per novantanove giusti
che non hanno bisogno
di conversione".

Donna
8 "Oppure quale donna,
se ha dieci dramme
e ne perde una,
non accende la lucerna
e spazza la casa
e cerca attentamente
finché non la ritrova?
9 E dopo averla trovata,
chiama le amiche e vicine
dicendo:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la dramma perduta”.
10 Così, io vi dico,
vi è gioia
davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore
che si converte".

Figlio giovane
In casa
Lascia la casa
Va in un paese lontano
Commensale dei porci

Il padre gli corse incontro
Padre, ho peccato contro di te
Il padre fa festa
perché "questo mio figlio"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato

Figlio maggiore

È nei campi
Toa a casa
Non entra, ma resta "vicino"
Tu sei sempre con me
(dice il padre)
Il padre uscì a chiamarlo
Non mi hai mai dato un capretto
Il padre invita alla festa
perché "questo tuo fratello"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato

Paolo Farinella




Così Parlarono

Esclusivo: interviste al mullah Omar e al comandante Massud
così parlarono

Protagonisti di quattro anni di guerra civile, Omar e Massud sono stati intervistati pochi giorni prima degli attacchi terroristici di al-Qa’ida contro gli Stati Uniti.
Le loro affermazioni aiutano a comprendere perché, a 5 anni dalla fine della guerra civile, la pace in Afghanistan sia ancora un miraggio
.

Due settimane prima dell’attentato dell’11 settembre, ho avuto l’occasione, unico tra i giornalisti occidentali non islamici, di intervistare il leader del taleban, il mullah Omar, nella sua villa di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan. L’allora trentanovenne, Omar è uno dei personaggi più misteriosi dell’Afghanistan assieme a suo cognato, Osama bin Laden.
Per i suoi oppositori è tuttora un pupazzo nelle mani dei servizi segreti pakistani, per i suoi sostenitori è un eroe della guerra antisovietica e il suo unico occhio, le quattro ferite in diverse parti del corpo ne sono la migliore testimonianza. La sua voce, durante l’intervista, è pacata, le parole misurate con cautela.

COSÌ PARLò OMAR

Il governo taleban di Kabul è riconosciuto solo da tre stati: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. Come spiega questo isolamento politico?
Ciò che a noi importa è seguire la parola di Allah e modellare il nostro stato in una società islamica.

L’opposizione afferma che senza l’appoggio militare e finanziario del Pakistan, voi non esistereste neppure. Non le chiedo se questa affermazione sia vera o no, penso di conoscere già la risposta, ma quanto conta il Pakistan per voi?
Le rispondo comunque: è vero, senza il Pakistan noi non esisteremmo. Ma neppure Rabbani, Massud, Ismail Khan esisterebbero. Sono loro che debbono ringraziare il Pakistan se i russi se ne sono andati dall’Afghanistan. Cosa sarebbe Rabbani se non avesse avuto l’appoggio del Pakistan? Abbiamo combattuto assieme il diavolo comunista e l’abbiamo vinto. Poi loro si sono ubriacati di potere e hanno portato solo morte e distruzione per 4 anni in Afghanistan. Noi, i taleban, ispirati dalla parola di Allah, abbiamo riportato la pace e la stabilità nel paese.

Le concedo che in gran parte dell’Afghanistan, almeno nelle regioni meridionali, oggi c’è una pace e un benessere relativo, ma non mi ha risposto quanto conta il Pakistan per voi.
Il Pakistan è un paese fratello che vuole aiutare l’Afghanistan a ritrovare la pace nella fede di Allah.

Alcune vostre decisioni sono state criticate dalla comunità internazionale. Posso convenire con lei che la distruzione dei Buddha sia stata dettata dal tentativo dell’Unesco e di una commissione europea di offrire milioni di dollari per salvare delle statue, mentre attorno ad esse milioni di contadini lottano per la sopravvivenza; posso capire che l’imposizione del burqa sia, di fatto, coercitiva solo per le donne di Kabul e posso anche condividere la censura televisiva in una società tradizionalista come la vostra. Ma non credete che tutto questo leda la vostra posizione agli occhi del mondo proprio nel momento in cui avete bisogno del suo sostegno?
Noi abbiamo i nostri principi e intendiamo rispettarli. Se questo è un peccato agli occhi del mondo, ebbene, siamo pronti a subie le conseguenze qui in terra per raccogliere i frutti nel paradiso di Allah. Voi occidentali ci considerate pazzi, lo sappiamo bene; ma noi seguiamo solo ciò che dice il Corano. Noi consideriamo decadente il vostro sistema di vita, eppure non interferiamo sulle vostre decisioni.

Solo perché non ne avete la possibilità.
Probabilmente ha ragione.

Nel mondo condividete la fede con un miliardo di musulmani, eppure solo tre stati, per un totale di 140-150 milioni di islamici riconosce il vostro governo. Le chiedo: gli altri 800-900 milioni di correligionari sono tutti corrotti?
Lei mischia la fede con il governo di pochi uomini. Non tiene conto degli interessi economici, delle strategie geografiche, delle alleanze militari e politiche.

Un altro punto a vostro sfavore è l’ospitalità che concedete a Osama bin Laden.
Osama è già stato processato da una corte islamica che non ha trovato alcuna prova a suo carico. Nel caso trovassimo prove convincenti che lo condannino, siamo pronti a consegnare Osama bin Laden a un tribunale che comprenda membri graditi anche all’Occidente.

Perché non accettate di formare un governo di coalizione con l’Alleanza del Nord?
Non è vero che non accettiamo. Vogliamo solo sapere quali sono le loro condizioni e su quali parametri si basa la discussione. A queste semplici domande Massud e Rabbani non hanno mai risposto.

Nel mondo siete conosciuti più per le vostre leggi contro le donne che per la vostra reale politica intea.
Non abbiamo mai emanato leggi contro le donne.

Beh, il divieto di lavorare, studiare, circolare liberamente per le strade. Come le chiama queste?
Tradizioni. Deve capire che l’Afghanistan è un paese che cammina molto lentamente. Cambiare radicalmente le tradizioni significa sconvolgere completamente la società e perdee il controllo.

Quindi non esiste libertà di scelta per la donna afghana. Volente o nolente deve rimanere dietro quel burqa che la estranea dalla società?
Vede, voi siete abituati a utilizzare le donne come bei fronzoli che allietano la vostra vita. Per noi invece la donna deve essere parte integrante della società e cuore della famiglia. Inoltre non è vero che la donna afghana è emarginata: chieda allo Sca (Swedish Committee for Afghanistan) quanta è la percentuale di donne che frequenta le scuole nel paese. Non voglio dirglielo io, lo chieda allo Sca. Vada all’Università di Kabul. In alcune facoltà, come quella di medicina, la percentuale di donne iscritte supera quella dei maschi.

Quale soluzione quindi per l’Afghanistan?
Jihad.

COSÌ PARLò MASSUD

Comandante Massud, 20 anni di conflitti hanno dimostrato che non può esserci una soluzione militare al problema afghano. Cosa propone la sua coalizione?
Un governo ad interim che, in un lasso di tempo tra i 6 e i 18 mesi, disegni una nuova Costituzione che garantisca una rappresentanza di tutti i gruppi etnici afghani nel governo e elezioni generali democratiche con la formazione di partiti politici.

C’è una personalità afghana che potrebbe divenire un leader del paese accettato da tutte le fazioni in lotta?
Non vedo una specifica persona che possa godere della fiducia del popolo afghano. E credo che sia molto più importante avere dei principi che una persona. Più che un leader, all’Afghanistan servono idee, principi su cui basare il futuro stato.

I taleban hanno recentemente annunciato che conquisteranno tutto l’Afghanistan entro la fine dell’anno. Quale è la sua previsione?
Non credo che ciò corrisponda alla verità che sta sul campo. Abbiamo già detto in passato e lo ribadisco ora che non c’è soluzione militare per l’Afghanistan.

È servito il suo viaggio in Europa?
Da un punto di vista politico è stato buono. Speriamo di assistere a un arrivo di aiuti umanitari.

Perché gli europei dovrebbero appoggiare l’Unifsa?
Perché questa parte del fronte ha un chiaro messaggio: lasciateci avere elezioni generali in Afghanistan; lasciate che la Comunità Internazionale, l’Onu, il gruppo dei 6+2, supervisioni le elezioni in Afghanistan; lasciate che il popolo dell’Afghanistan scelga il proprio destino. Inoltre noi lottiamo contro ogni forma di terrorismo, qualunque sia il suo scopo e sia che esso operi dentro o fuori l’Afghanistan. Ho detto che Osama bin Laden è un criminale e non è facile per me, che ho dedicato la mia vita alla jihad, affermare questo.
Noi crediamo nella democrazia, mentre i taleban no. Noi siamo contro il terrorismo, mentre loro lo appoggiano. Noi vogliamo che l’Afghanistan abbia una coesistenza pacifica e buone relazioni con tutti i paesi; i taleban vogliono invece esportare le loro idee creando ancor più problemi per l’Afghanistan. Noi consideriamo uomini e donne come esseri umani aventi gli stessi diritti; i taleban li hanno resi differenti, contrariamente alle intenzioni di Dio, che li ha creati come esseri umani uguali.
Questo è, ciò in cui noi crediamo. A seconda delle circostanze, noi avremo successo o no, ma questa è un’altra questione.

Dopo oltre 20 anni di combattimenti, quale è, secondo lei, la cosa più importante nella vita di un uomo?
La decisione. Credo che quando uno prende una decisione ed è determinato a portare a termine quello che ha iniziato, tutto diviene più semplice e facile. Per esempio, abbiamo combattuto i sovietici, ma per me non era importante vincere la guerra contro di loro. La mia decisione era stata quella di combattere i russi comunque, sia che noi vincessimo, perdessimo, sia che la lotta durasse 10 anni, 20 anni o più. E oggi io prego Dio perché ci aiuti nelle nostre decisioni e determinazione nel combattere i taleban. Non è importante quanta terra perderemo, quanto soffriremo. Noi conosciamo i nostri nemici e la nostra decisione è resistere contro di essi.

Qual è la maggiore difficoltà che incontra oggi?
Quando i sovietici sono giunti in Afghanistan, il popolo sapeva quale era il loro fine. Oggi al posto dell’Urss siamo invasi dal Pakistan, che si è servito della copertura dell’islam, della religione e dei taleban. Il popolo afghano ha impiegato diverso tempo a scoprire il vero volto del Pakistan. È stato molto difficile creare un motivo per combattere tutto questo e solo dopo molto tempo il popolo afghano ha capito la verità. Ora le cose sono molto più facili, perché la gente sa quello che sta accadendo.

Quale è stato il più grande errore che ha commesso nel passato?
La natura umana non è infallibile. Chi opera, chi decide, commette anche degli errori. E ancora mi è difficile identificare quale sia stato l’errore più grosso. Probabilmente dall’esterno è più semplice individuarli. Del resto, se non avessimo fatto degli errori, come avrebbero fatto i taleban a nascere e conquistare il potere?

Lei sembra una persona molto religiosa, ma al tempo stesso è anche un combattente. Non sente alcun rimorso nell’uccidere, seppur indirettamente, uomini e per di più afghani?
Noi combattiamo una guerra per una giusta causa. Abbiamo il diritto di difenderci e difendere il nostro popolo. Non siamo noi che attacchiamo. Noi ci difendiamo.

L’Unifsa è composta da fazioni che in passato si sono combattute l’una contro l’altra. Che garanzie ci possono essere nel caso la sua coalizione andasse al potere, che non si ripeta il disastro avvenuto tra il 1992 e il 1996?
Uno dei problemi che esiste in Afghanistan è la mancanza di fiducia. Si ha paura del futuro e ciò che questo può riservare. Ora abbiamo concluso un accordo con il generale Dostum, Ismail Khadir e con Ismail Khan sui principi che garantiranno il loro futuro nel governo afghano. Il punto cardine dell’accordo è la continuazione della resistenza contro i taleban per indurli a sedersi al tavolo dei negoziati e formare un governo ad interim che dovrebbe funzionare da 6 a 18 mesi.

Quindi è pronto a fare un governo di coalizione con i taleban?
Solo per un periodo di transizione dalla guerra alla pace. Se accettiamo questo governo di coalizione, è solo per fermare questa guerra e l’intervento del Pakistan.
Inoltre, il governo di coalizione dovrà lavorare per preparare le elezioni generali. I taleban mi hanno già offerto il posto di primo ministro e al tempo stesso di mantenere il mio esercito nella zona settentrionale, creando una regione autonoma. Ma ho rifiutato. L’Onu e il Gruppo 6+2 dovrebbero supervisionare il processo di transizione che porterà alle elezioni.

Ma il ruolo dell’Onu in Afghanistan è sempre stato perdente. Ci sarebbe secondo lei un’altra organizzazione internazionale in grado di ricoprire il ruolo oggi occupato dalle Nazioni Unite?
L’Onu è perdente se non ha l’appoggio delle grandi potenze. Solo con un forte sostegno delle grandi potenze, il Pakistan non sarebbe più in grado di appoggiare i taleban. E questi, allora, non avrebbero più di 6 mesi di vita. Anche Osama bin Laden non potrebbe sopravvivere.

Lei ha detto che la soluzione del conflitto afghano si potrà raggiungere solo dopo aver indetto elezioni generali. Sembra, però, che lei dimentichi anche i fattori estei che condizionano la situazione afghana: interessi economici, geopolitici, strategici. L’Afghanistan è solo una delle pedine che giocano una partita ben più grande nello scacchiere internazionale. Come fa a non tenere conto di questi problemi?
Penso che i problemi estei siano tali solo fino a quando riusciremo ad avere elezioni generali nel nostro paese. Penso che la resistenza contro i taleban e contro chi li sostiene (Pakistan, ndr) accelererà la soluzione afghana.

Se lei pensa che le elezioni generali siano davvero la soluzione del problema Afghanistan, perché non le ha indette quando era lei stesso al potere, tra il 1992 e il 1996?
La richiesta di elezioni, non è una posizione che abbiamo adottato solo ora. Siamo sempre stati favorevoli affinché il popolo afghano potesse esprimere il proprio parere tramite il voto, anche durante il periodo in cui eravamo al potere a Kabul. Ma allora eravamo in guerra e nessuno dei nostri oppositori accettava le consultazioni. Le abbiamo proposte a Hekmatyar, prima, e ai taleban, dopo, ma loro non hanno accolto le nostre richieste.

Pensa che un governo democratico che ricalchi quelli occidentali possa accordarsi con la storia, tradizioni, religione degli afghani?
Quando parliamo di democrazia, non intendiamo dire di trasferire tale e quale lo stile occidentale in Afghanistan. Non pensiamo che la democrazia in Afghanistan possa essere paragonabile a quella francese o italiana. Il punto importante è lasciare che sia la gente a decidere quale sarà il primo gradino da intraprendere per la realizzazione di uno stato afghano moderno. Le crisi possono essere risolte solo se si dà una possibilità alla gente di scegliere.

E pensa che il popolo afghano potrà avere una possibilità di scelta e, se sì, quando?
È questo il motivo per cui lottiamo.

Chi è Massud secondo Massud?
Scelga lei; io mi considero una persona che ha dedicato la sua vita per la liberazione del suo paese e del suo popolo. È per questo che stiamo combattendo. o

A cura di Piergiorgio Pescali

Biografia del Mullah Omar

Una delle caratteristiche che stupiscono riguardo i taleban è la giovanissima età dei suoi leaders e la scarsa reperibilità di biografie. Del capo supremo del movimento, il mullah Muhammad Omar, non è sicura neppure la provincia natale: alcune fonti riconducono la nascita da una povera famiglia di contadini nella provincia di Uruzgan nel 1962, mentre altre affermano che sia venuto alla luce nella provincia di Kandahar. Di lui non esistono fotografie ufficiali. Avrebbe iniziato la carriera religiosa nelle madrase di Quetta, in Pakistan per poi unirsi all’Harakat-i-Inqilab-i-Islami di Mohammad Nabi Mohammadi per combattere i sovietici.
Durante questa fase Muhammad Omar avrebbe raggiunto il grado di vice comandante militare, guadagnandosi la stima dei suoi commilitoni, perdendo un occhio durante un combattimento e rimanendo ferito altre quattro volte.
Secondo le fonti ufficiali sarebbe stato lo stesso profeta Muhammad a investirlo del compito di riportare la pace in Afghanistan, combattendo la triade governativa di Rabbani-Massud-Hekmatyar.
Più prosaicamente i taleban sarebbero nati grazie agli aiuti dei Servizi segreti pakistani e degli Stati Uniti, ai quali ben presto sarebbe sfuggito il controllo del movimento.
L’investitura ufficiale di Omar come leader supremo religioso e politico avvenne con l’apposizione dell’appellativo amir-ul-momineen (comandante della fede), da parte di un convegno a cui parteciparono 1.500 mullah.
Molti teologi islamici negano, però, la validità stessa del termine mullah nei confronti di Omar. Secondo la tradizione islamica, infatti, solo chi ha compiuto un ciclo di studi di 12 anni presso le scuole islamiche può fregiarsi di tale titolo.

Piergiorgio Pescali




Promesse da «marines»

Perché, a cinque anni dalla cacciata da Kabul, i taleban sono ancora presenti in buona parte del territorio afghano? È evidente che essi trovano appoggio e collaborazioni nelle popolazioni locali, sfinite da 20 anni di guerra e deluse dalle promesse "da marinai" dei liberatori di tuo.

Nel luglio e agosto 2001, poche settimane prima che il mondo intero venisse scosso dall’abbattimento delle Torri Gemelle a New York, ho visitato l’Afghanistan. Allora il 15% del territorio era occupato dall’Alleanza Nazionale, un gruppo eterogeneo, che comprendeva essenzialmente etnie di tagike, uzbeke e hazare guidate da Massud, mentre il restante 85% era saldamente in mano ai taleban di etnia pashtun.

KABUL: FINESTRA SULL’ISLAM

Il mio reportage è iniziato a Kabul che mostrava (e mostra tuttora) tutte le tremende ferite di una guerra civile costata 30 mila vittime. La capitale, dopo la conquista da parte dei taleban, era stata teatro del più radicale stravolgimento socio-religioso a cui il mondo aveva assistito negli ultimi decenni.
Tutto, dai proclami del Ministero della promozione e della virtù ai discorsi della gente nei bazar, era finalizzato ad assecondare e giustificare ogni parola scritta nel Corano. Il milione di abitanti, dopo aver finalmente ritrovato la pace sociale e salutato entusiasticamente l’arrivo dei carri armati taleban, si erano ritrovati a essere in prima linea nella battaglia ideologica che il governo del mullah Mohammad Omar aveva intrapreso contro gli infedeli.
E Kabul, in quanto unica finestra aperta sul mondo esterno, era stata allestita a immensa vetrina del nuovo Emirato Islamico per chiunque visitasse l’Afghanistan dei taleban. La vita che si fermava 5 volte al giorno per le preghiere, l’assoluta predominanza maschile in ogni aspetto delle attività sociali, le lunghe file davanti ai centri di distribuzione del pane, l’anonimato della componente femminile, obbligata a restare separata fisicamente e psicologicamente dal resto della comunità, non erano che gli aspetti esteriori più evidenti di questo archetipo sociale.
Ma vangando più a fondo, ascoltando testimonianze di chi rifiutava di accettare questo stato di cose, si trovavano elementi nascosti particolarmente inquietanti. Come il progetto, per fortuna mai portato a termine, di uniformare la componente etnica di Kabul, allontanando dalla città la popolazione di origine tagika, uzbeka, hazara, sostituendola con famiglie pashtun, di cui i taleban sono l’espressione politica e religiosa e, soprattutto, sociale. "È più semplice, per il governo, modellare le proprie idee su una capitale abitata da cittadini a lui rigorosamente fedeli" affermava un afghano che si autodefiniva "politicamente neutralista".

"PAX TALEBANA" NEL SUD

Ma, come recita un detto locale, "Kabul è Kabul, l’Afghanistan è l’Afghanistan". Così, se dalla capitale del paese venivano mostrati al mondo intero il modo in cui sarebbero dovuti essere interpretati gli insegnamenti del Corano, nelle campagne, specialmente quelle meridionali abitate dai pashtun (38% della popolazione afghana), i taleban si sono sempre mostrati ben più tolleranti, a cominciare dall’educazione scolastica, aperta anche alle donne. In queste aree è ancora il pashtunwali, l’antichissimo codice d’onore che per secoli ha regolato la vita giuridica e sociale delle tribù afghane, a sostituirsi alla sharija; indossare il burqa non è sentito come un obbligo per le donne al di sopra dei 15 anni, ma un dovere dettato dalla tradizione, una sorta di rito di iniziazione dall’età adolescenziale a quella adulta.
L’arrivo dei taleban, a Ghazni come a Herat, a Kandahar come a Farah, aveva solo riportato quello che la popolazione voleva dagli anni Ottanta e che, fino al 1996 non aveva mai ottenuto: pace e tradizione. Come mi disse un contadino della regione di Kalat, al quale avevo chiesto per quale motivo appoggiasse il governo dei taleban: "Perché appoggio i taleban? I mujahedeen ci hanno detto che per ottenere la pace dovevamo combattere i sovietici. Poi è arrivato Hekmatyar, dicendoci che dovevamo scacciare Massud da Kabul e avremmo ottenuto la pace. Poi sono arrivati i taleban, che combattevano sia Massud che Hekmatyar. Ma loro, i taleban, hanno mantenuto la loro promessa. Oggi viviamo in pace, coltiviamo i nostri campi e possiamo vivere secondo le nostre tradizioni. Ecco perché appoggio i taleban".
La raggiunta stabilità sociale al sud aveva permesso di poter sviluppare colture cerealicole, sfruttando gli impianti di irrigazione costruiti dai sovietici, mentre la vicinanza con il Pakistan, che assieme ad Arabia Saudita e Emirati Arabi è stato il solo stato a riconoscere il governo taleban, aveva sviluppato un fiorente commercio facendo rinascere la classe mercantile pashtun, quasi completamente annientata dalla guerra civile.
Proprio questa stretta relazione tra il movimento taleban e il Pakistan, ha condotto l’Alleanza Settentrionale di Massud-Dostum-Rabbani a evidenziare il coinvolgimento diretto di Islamabad nella guerra afghana, giungendo a denunciare un piano di annessione militare in atto, in base al quale i taleban rappresenterebbero la quinta colonna del governo di Islamabad.

BUDDHA… DECAPITATO

Seguendo questo copione, i mass media ci hanno sempre mostrato i taleban come un’accozzaglia di invasati integralisti islamici dediti alla coltivazione dell’oppio che si divertono, di tanto in tanto, a distruggere statue.
Eppure, secondo il rapporto dell’UN Drug Control Programme del 2000, i taleban avevano interrotto quasi completamente la coltivazione d’oppiacei, rassicurati anche dalla promessa fatta nel 1998 dall’allora sottosegretario al Dipartimento di stato Usa, Karl Inderfurth, di alleggerire le sanzioni contro Kabul, assieme a un pacchetto di aiuti di 3 miliardi di dollari per i contadini che avrebbero acconsentito di trasformare i loro campi d’oppio in coltivazioni alternative.
"I taleban hanno mantenuto i loro impegni, ma non hanno mai visto un solo dollaro promesso, ricevendo in cambio un inasprimento delle sanzioni Onu" ha confessato in seguito un alto funzionario europeo dell’Onu a Kabul.
È in questo contesto che è venuta a inserirsi la vicenda dei Buddha di Bamiyan, distrutti solo dopo che una delegazione dell’Unesco era giunta nella capitale afghana, offrendo al governo milioni di dollari per evitare la distruzione delle statue. "I taleban saranno criminali, ma quando qualcuno prima nega dei soldi promessi, che sarebbero serviti a scopi umanitari, poi offre quegli stessi soldi per salvare delle pietre, anche il governo più razionale di questa terra può perdere la pazienza" spiegò allora desolato un diplomatico di un paese occidentale in visita a Kabul.

Piergiorgio Pescali

Taleban del Waziristan (Pakistan)

GUERRA CONTRO I FANTASMI

Arroccate tra le montagne, le popolazioni del Waziristan sono state una spina nel fianco del governo coloniale inglese. Gelose delle proprie tradizioni tribali e religiose,
continuano ad essere tartassate dall’esercito pakistano,
perché sospettate di dare rifugio al Mullah Omar e Osama bin Laden.

Dal villaggio di Tormandi si innalzano le voci delle donne che intonano i noha (lamenti) in onore ai parenti uccisi durante gli attacchi pakistani nel Waziristan. È un brutto giorno per incontrare Arianfar, il pathani conosciuto 15 anni fa.
Allora era un mujahedeen che, declamando i versi dell’eretico mistico Bayazid Ansari, combatteva per liberare i fratelli afghani dall’occupazione sovietica; oggi è un malik, uno dei capivillaggio più influenti della regione, come dimostra anche la lunga barba tinta di rosso che porta con fierezza.
E continua a combattere, Arianfar; la sua jihad non conosce tregua, ma i vecchi alleati di un tempo si sono trasformati nei nemici di oggi. Il nuovo satana da esorcizzare per purificare il dar al-islam (casa dell’islam) non è più l’ateismo comunista, bensì il capitalismo occidentale. "Non è la vostra fede che rifiutiamo, ma i valori su cui fondate la società" mi dice.
Non siamo d’accordo quasi in nulla, Arianfar e io; ma la lontananza geografica e ideologica non ci ha impedito di continuare a coltivare la nostra sacra amicizia. È stato lui, nel 1989, a rischiare la propria vita per guidarmi attraverso i villaggi della regione, eludendo un accerchiamento sovietico che stava stritolando il gruppo di mujahedeen a cui mi ero aggregato.
E ancora, è stato Arianfar a scorazzarmi attraverso l’Afghanistan dei taleban poche settimane prima dell’11 settembre 2001. E subito dopo i primi attacchi statunitensi, Arianfar mi ha accolto nella sua casa, tappezzata di manifesti di La Mecca, bin Laden e Abd ul-Ghaffar Khan, il fondatore del Khuda-i-Khidmatgar (Partito dei servi di Dio), che negli anni Trenta lottava perché il Pashtunistan fosse annesso all’Afghanistan.

Sin dal 1996 il panchayat (consiglio di villaggio) di Tormandi si era schierato a favore del governo del Mullah Omar, così come avevano fatto tutti gli altri villaggi della Federally Administered Tribal Area (Fata), una regione di 27.200 kmq, formalmente appartenente al Pakistan, ma dove Islamabad non ha mai potuto esercitare alcun controllo effettivo.
I 6 milioni di tribali che abitano la Fata, hanno in comune con i pashtun afghani la storia, letteratura, commercio, etnia e, soprattutto, il pashtunwali, il ferreo codice di regole sociali, la cui trasgressione porta alla morte, ma che, al tempo stesso, garantisce la completa solidarietà dell’intera comunità. Grazie a esso l’ospite, è sacro e intoccabile, sia esso un occidentale miscredente o un militante di al-Qa’ida.

Tutto questo ha permesso di creare una sorta di stato cuscinetto talebanizzato, dove la dirigenza islamica afghana e quella di al-Qa’ida, protette dai malik pathani, si sono potute rifugiare sin dalle prime fasi della guerra innescata dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Aiutati e difesi dalla popolazione, i membri di diverse formazioni terroristiche facenti capo all’organizzazione di bin Laden, hanno trovato tra i villaggi del Waziristan ripari sicuri, sino a quando l’esercito pakistano, pressato dalle insistenze degli Stati Uniti, ha deciso di rompere gli indugi e attaccare massicciamente l’intera zona.
Ma gli stessi soldati pakistani hanno più volte lamentato la completa inaffidabilità delle informazioni raccolte tra la popolazione.
"Stiamo combattendo contro delle ombre" è la frase più ricorrente tra i militari di Islamabad. Nulla di più normale tra queste montagne, dove il nome del presidente Musharraf viene storpiato in Busharraf, e dove domina il Muttahida Majilis-e-Amal, una coalizione di sei partiti islamici ortodossi, fortemente critica verso il presidente pakistano, che nelle elezioni del 2002 ha conquistato 45 seggi all’Assemblea nazionale, divenendo il terzo partito del paese.

L’ambasciatore statunitense in Pakistan ha dichiarato che i principali dirigenti taleban si muovono senza problemi all’interno del suolo pakistano, organizzando gli attacchi contro i soldati della coalizione. Gli stessi servizi segreti pakistani, lungi dall’essere stati epurati degli elementi pro-taleban, giocherebbero una carta determinante in questa partita. Le loro infiltrazioni nelle forze armate, vedono malvolentieri un Pakistan troppo remissivo nei confronti dell’Occidente e dell’India.
I recenti accordi sulla questione del Kashmir avrebbero indotto i jihadisti a innescare una nuova offensiva contro un governo considerato secolare. Quattro tentativi di assassinare Musharraf in nove mesi, l’arresto del padre della bomba atomica pakistana e la forte opposizione dei pathani all’offensiva del Waziristan dimostrano quanto convulsa sia l’atmosfera nella nazione.

P.P.

Piergiorgio Pescali




Solo cattivi «studenti»?

Presentati all’opinione pubblica come l’incarnazione del "male", i taleban sono cresciuti grazie all’addestramento dei servizi segreti pakistani, agli armamenti americani e ai finanziamenti sauditi.


Nella seconda metà degli anni Novanta, dalle zone meridionali dell’Afghanistan, cominciò a farsi conoscere un movimento chiamato con il nome di taleban, forma plurale della parola persiana taleb, studente. Secondo molti osservatori questi guerriglieri, armati oltre che di kalashnikov anche di una ferrea fede islamica, nacquero all’improvviso, senza avere un apparente background storico e senza possedere una profonda cultura politica.
Questa tesi, sposata dalla maggior parte dei media occidentali e che ha indotto la maggior parte dei commentatori a dipingere il gruppo islamico come una banda di terroristi senza arte né parte, viene smentita da alcuni documenti resi noti recentemente dalla Cia e dai servizi segreti russi, nonché da testimonianze di ex agenti dell’Isi, i servizi segreti pakistani.
In base alle prove raccolte, l’origine dei taleban si dovrebbe far risalire ai primi anni Ottanta, quando Sultan "Imam" Amir, un agente dell’Isi addestrato dai Berretti Verdi statunitensi a Fort Bragg, nella Carolina del Nord, iniziò a organizzare, con i finanziamenti della Cia, la resistenza ai sovietici. Per assoldare il maggior numero di guerriglieri, Amir attinse anche studenti di teologia islamica nelle madrase, ottenendo immediatamente la loro incondizionata fedeltà e garantendosi quell’appellativo di imam, che lo elevava a un rango di rispettabilità assoluta.
I cospicui aiuti militari e finanziari da parte dell’Occidente, che per l’intero decennio degli anni Ottanta fecero rifiorire l’economia pakistana, cessarono quasi completamente nel 1989, anno in cui Mosca concluse il ritiro delle proprie truppe dal territorio afghano.
L’allora presidente del Pakistan, Benazir Bhutto, al fine di evitare un tracollo economico che avrebbe inevitabilmente portato il caos sociale e politico nel paese, cercò di inventarsi la carta della riapertura della Via della Seta che, dal Pakistan collegasse le repubbliche dell’Asia Centrale attraverso l’Afghanistan.

Il primo convoglio di trenta camions, carichi di medicinali e di alimenti, partì il 29 ottobre 1994 dal Pakistan diretto alla volta del Turkmenistan. Lo guidava Sultan "Imam" Amir, ma una volta entrato in territorio afghano, un signore della guerra locale, Niyaz Wayand, attaccò la carovana catturando Amir. Fu questa la svolta che fece scatenare la reazione a catena che portò, quattro anni più tardi i taleban a scacciare il governo Rabbani da Kabul.
Per liberare il loro protettore, gli studenti si organizzarono sotto la direzione di un veterano della guerra contro i sovietici: il mullah Omar. In pochi giorni riuscirono a sconfiggere Niyaz Wayand e a liberare Amir. L’esaltazione del successo e la convinzione di lottare per una giusta causa, il ripristino della legge islamica in un paese devastato dalla guerra civile, convinsero i taleban a non abbassare le armi.
Kandahar fu la prima vera prova del fuoco e la città cadde ben presto nelle loro mani. Il Pakistan, che fino ad allora sovvenzionava senza grossi risultati Hekmatyar contro le forze di Massud e Rabbani, si accorse che questi studentelli, se adeguatamente appoggiati e addestrati, avrebbero potuto risolvere la questione afghana a suo favore.
Infatti, la dirigenza del presidente Rabbani al potere a Kabul, era formata principalmente da funzionari di etnia tagika (Massud stesso è tagiko) e questo, sommato allo stato di perenne conflitto in cui versava l’Afghanistan, impediva alle classi pashtun di commercializzare le loro merci con i coetnici oltrefrontiera, paralizzando l’economia del Pashtunistan pakistano.
Al tempo stesso, la compagnia multinazionale petrolifera statunitense Unocal, che dal 1992 cercava di convincere il riluttante Rabbani a concedere il passaggio sul territorio afghano dell’oleodotto per trasportare il petrolio dal Mar Caspio ai porti pakistani, vide nel nuovo movimento studentesco una valida alternativa per raggirare l’impasse frapposta da Kabul.
La Casa Bianca, allettata dalla prospettiva di ridurre l’importanza geopolitica dell’Iran nella regione, diede il pieno appoggio affinché mullah Omar riuscisse a potenziare il suo esercito. Islamabad spedì Sultan Amir a Herat sotto la copertura diplomatica di console generale. In realtà Amir aveva il compito di fungere da tramite tra l’Isi, governo pakistano e Unocal.

Perché Rabbani non abbia espulso Amir dal paese, quando i taleban non erano ancora quel movimento di massa che avrebbe conquistato il potere a Kabul, non è ancora chiaro.
In una recente intervista Massud mi ha dato una sua spiegazione, a sette anni di distanza: "Avevo più volte suggerito a Ismail Khan (allora comandante della regione di Herat, ndr) di espellere Amir da Herat, ma lui non mi ha mai ascoltato, credendo fino alla fine che Sultan Amir fosse un sant’uomo, dedito alla causa dell’islam. Non credette a una sola parola di ciò che gli dicevo".
L’ubriacatura di successi ottenuti dai taleban, convinsero la dirigenza, nel marzo 1995, che fosse giunto il momento di sferrare l’attacco finale a Kabul, ignorando i consigli dell’Isi, che non considerava maturi i tempi. La disubbidienza di Omar costò al movimento degli studenti il loro quasi totale annientamento: le truppe di Massud distrussero le avanguardie taleban a Kabul (8 e 16 marzo 1995) e successivamente a Herat (23 marzo 1995).

Fu in questa fase che entrarono in gioco Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (Eau). Dapprima il principale nuovo finanziatore dei taleban fu il petroliere saudita Turki bin Faisal, attratto dalla prospettiva dell’oleodotto, ma verso la metà del 1996, l’impasse militare convinse bin Faisal a chiudere i rubinetti verso l’Afghanistan.
I taleban si trovarono, per la seconda volta nel giro di poco più di un anno, a lottare per la loro stessa sussistenza. Fu solo nell’agosto 1996 che Osama bin Laden accettò di prendersi cura del movimento, il quale, da quel momento, non ebbe più l’appoggio della Casa Bianca.
Il 27 settembre 1996, i 3 milioni di dollari concessi da bin Laden ottennero i loro frutti: Kabul, oramai distrutta da quattro anni di guerra civile, cadde nelle mani degli studenti islamici. Pakistan, Emirati Arabi Uniti e la stessa Arabia Saudita furono i soli paesi che riconobbero il nuovo governo afghano.
Ironia della sorte, l’Arabia Saudita si è trovata per 5 anni ad appoggiare un governo che ospitava Osama bin Laden, un cittadino saudita a cui Ryad ha tolto il passaporto. Giochi afghani.

Piergiorgio Pescali

Osama bin Laden

Osama bin Laden è nato nel 1957 in Arabia Saudita. La sua carriera militare inizia nel 1979, quando aderisce al movimento dei mujahedeen afghani contro l’Armata rossa. Con l’aiuto degli Stati Uniti, della Cia e del Pakistan, costituisce una formazione militare composta esclusivamente da arabi che lottano in nome della jihad. È il primo nucleo di quella che, anni dopo, diventerà il gruppo noto come al-Qa’ida (la base), responsabile secondo Washington degli attentati a obiettivi militari e diplomatici in Africa e Medio Oriente.
Dopo una serie di successi militari contro i sovietici, Osama bin Laden torna in Arabia Saudita, dove inizia a denunciare la corruzione politica, finanziaria e religiosa della casa reale. La definitiva rottura con il mondo occidentale e con il regime di re Fahd, avviene nel 1990, quando Riyad acconsente alle truppe alleate di stanziarsi in Arabia Saudita per lanciare i loro attacchi contro l’Iraq.
Non che bin Laden appoggiasse Saddam Hussein, che, anzi, annovera come uno dei suoi nemici, ma il dispiegamento di una forza militare straniera in territorio islamico per attaccare altre popolazioni musulmane, viene visto come un tradimento religioso imperdonabile.
Così, nel 1991, è costretto a fuggire in Sudan assieme a un gruppo di fedelissimi reduci dalla guerra dell’Afghanistan, i cosiddetti "arabi afghani". In Sudan riorganizza il suo impero economico, commercia con paesi europei, tra cui l’Italia. Per la sua inflessibile denuncia alla famiglia reale saudita, perde il passaporto e, nel maggio 1996, dopo essere stato il principale artefice finanziario della vittoria taleban, si trasferisce in Afghanistan da dove lancia la sua fatwa antiamericana.
In Afghanistan Osama gestisce diversi campi di addestramento interdetti perfino ai taleban, in cui vengono istruiti elementi destinati chi a combattere contro l’opposizione afghana di Massud, chi a esportare la jihad nel mondo. Da questi "non luoghi", veri e propri stati nello stato, sarebbero stati organizzati i più spettacolari attacchi contro basi militari e diplomatiche americane: le esplosioni alle ambasciate Usa di Kenya e Tanzania nel 1998, che causarono 224 morti, l’attacco del 12 ottobre 2000 contro la nave da guerra Cole nello Yemen e, naturalmente, gli attacchi simultanei dell’11 settembre 2001.
Nonostante l’Fbi abbia posto sulla testa di bin Laden una taglia plurimilionaria e il Pentagono abbia condotto diverse incursioni aeree in territorio afghano con la speranza di colpirlo, Osama rimane una primula rossa. La sua inafferrabilità contribuisce a creare un alone di mistero "religioso" attorno alla sua figura.
C’è chi dice che sia già morto da anni, a causa delle sue precarie condizioni di salute; c’è chi invece afferma che continua a nascondersi tra le montagne pakistane; e chi, infine, afferma che bin Laden abbia un accordo con il governo statunitense.

Piergiorgio Pescali




GIOCHI DI GUERRA …PERMANENTE

INTRODUZIONE

"Al passaggio dei marines le donne si toglieranno il burqa e gli uomini si taglieranno la barba" si diceva quando il presidente degli Stati Uniti lanciò contro il regime dei taleban la campagna militare "giustizia infinita", poi ribattezzata "libertà duratura".
A 5 anni dalla fine della guerra, in Afghanistan si continua a combattere e morire; il terrorista Osama bin Laden non è stato catturato; il Mullah Omar è diventato una primula rossa; il paese è diviso in zone di influenza, controllate dai "signori della guerra" delle varie etnie; la libertà religiosa è apostasia condannata con la pena capitale; la pace un miraggio… Le donne continuano a indossare il burqa e gli uomini a coltivare le loro barbe.
Dopo 10 anni di guerra contro i russi e altrettanti di guerra civile tra le varie fazioni religiose ed etniche, l’Afghanistan continua a essere uno dei paesi più poveri del mondo, che sopravvive solo grazie agli aiuti inteazionali; la popolazione non sa più in chi sperare e, le donne soprattutto, continuano ad essere discriminate e vittime di ogni tipo di violenza.
Quale futuro per l’Afghanistan? Con questo dossier non intendiamo dare risposte risolutive, anche perché non ne abbiamo. Vogliamo offrire alcune testimonianze, raccolte prima del famigerato 11 settembre, per aiutare a comprendere il groviglio di "giochi" strategici e geopolitici, economici e finanziari che, sommati alle componenti storiche, etniche e religiose della società afghana, continuano ad alimentare nel paese un clima di paura.

Giochi di guerra … permanente

Uno dei paesi più poveri al mondo: 652 mila chilometri quadrati di aridi deserti, intervallati da aspre montagne che raggiungono i 7.500 metri, nessuno sbocco al mare. I suoi 26 milioni di abitanti rappresentano un mosaico di una decina di diverse etnie tra cui prevalgono i pashtun (38% della popolazione), i tagiki (25%), gli hazari (19%) e gli uzbeki (6%). Quattro bambini su cento non raggiungono l’anno di vita e, se la fame, le malattie, la guerra, le mine antiuomo permetteranno loro di superare i 45 anni, si possono considerare fortunati, perché vuol dire che hanno già superato il limite medio di vita nel loro paese (in Italia possiamo sperare di vivere fino a 78 anni).

DI GUERRA IN GUERRA

Questi semplici dati mostrano quanto l’Afghanistan sia marginale nella vita economica della regione centroasiatica. Eppure la sua posizione geografica, posta strategicamente al centro di una rete di passaggi obbligati, che dall’Asia sudorientale si dirigono in Medio Oriente e poi in Europa, ha imposto il controllo di questo stato per garantire la stabilità di un’intera regione che, espandendosi dall’India, raggiunge le coste mediterranee dell’Asia occidentale passando per le regioni turcofone del Centro Asia, un tempo appartenenti all’Unione Sovietica e ancora oggi considerate sotto l’influsso politico ed economico di Mosca.
Gran Bretagna e Russia zarista combatterono per tutto il xix secolo una guerra per il controllo del territorio afghano, conclusasi con il ritiro degli eserciti di entrambe le potenze, incapaci di fronteggiare le tribù che difendevano i loro territori. Nel gennaio 1842, il comandante delle truppe afghane, Akbar Khan, sterminò un’intera divisione di 28.500 soldati della Corona, lasciando in vita solo un soldato di sua maestà perché riferisse alla regina la terribile sconfitta.
Ma anche l’Afghanistan, da quel conflitto, ironicamente chiamato "grande gioco", uscì menomato: dopo aver perso Peshawar nel 1834 a opera dei Sikh, nel 1859 anche il Belucistan, l’unica regione che permetteva allo stato di avere uno sbocco al mare, passò sotto controllo britannico.
L’indipendenza, avvenuta nel 1919 e la successiva ascesa al trono del re Zahir Shah nel 1933 permise al paese di ritrovare una relativa stabilità, scoprendo una nuova fonte di guadagno economico: il turismo alternativo. Negli anni Sessanta, dall’Europa e dagli Stati Uniti giungevano a migliaia i "figli dei fiori", attirati dal commercio semilegalizzato di oppiacei e marijuana, comprati nei bazar di qualsiasi villaggio a prezzi irrisori.

GLI INTRIGHI DELLA GUERRA FREDDA

La situazione afghana, così come oggi la stiamo vivendo, comincia a delinearsi nel 1973, quando Daud, cugino del re, compie un colpo di stato e proclama la repubblica. Il progressivo avvicinamento di Kabul a Teheran, allora filoamericana, convince Mosca che Daud deve essere sostituito: nel 1978 il comunista Taraki prende il potere.
I successivi mesi vedono il rapido deterioramento della situazione: le lotte intee tra le fazioni del Partito comunista afghano, l’uccisione di Taraki, la crescente espansione islamica che minacciava, anche dal suo interno, le repubbliche centroasiatiche sovietiche, indussero l’Armata rossa a varcare, il 27 dicembre 1979, il fiume Amur Dharya, portando una nazione, sino ad allora semisconosciuta all’opinione pubblica europea, al centro dell’attenzione mondiale.
Il territorio afghano si trasformò, in breve tempo in un grande campo di azioni militari nel contesto della guerra fredda. I due giocatori, Usa e Urss, manovravano le pedine (i mujahedeen e il governo di Kabul) a seconda delle loro convenienze.
È in questo periodo che Osama bin Laden, un miliardario saudita di origine yemenita, aderisce al movimento dei mujahedeen afghani contro l’Armata rossa. Con la consulenza militare e l’appoggio finanziario degli Stati Uniti, della Cia e del Pakistan, costituisce una formazione militare composta esclusivamente da arabi che lottano in nome della jihad. Ad addestrare questi volontari, chiamati arabi afghani, sono i Sas britannici. È il primo nucleo di quello che, anni dopo, diventerà il gruppo noto come al-Qa’ida.
Il 15 febbraio 1989, a seguito degli accordi di pace, l’Armata rossa abbandona l’Afghanistan, lasciandosi alle spalle 40-50.000 propri soldati morti, ma portando con sé il germe della dissoluzione dell’Unione Sovietica, che giungerà nel giro di un paio d’anni.

DAI MUJAHEDEEN AI TALEBANI

Appare subito chiaro che la forte divisione all’interno della guerriglia afghana farà ripiombare la nazione in una nuova, sanguinosa, guerra civile. E così è. Sparito il nemico esterno, ora le fazioni si combattono tra loro e solo il 15 aprile 1992 i mujahedeen raggiungono Kabul, destituendo il governo comunista di Najibullah e innalzando a presidente Burhannudin Rabbani, leader della Jamiat-i-Islami. Accanto a lui c’è Ahmed Shah Massud, il "leone del Panshir". I due sono legati da un rapporto di parentela, il miglior sigillo per rendere un’alleanza tra afghani indistruttibile: Rabbani, infatti, ha sposato la sorella di Massud.
Il governo non ha l’appoggio dell’etnia maggioritaria afghana, quella dei pashtun, e neppure del Pakistan, che non ha mai accettato Massud, e tantomeno degli Usa, dove il presidente Bush padre è particolarmente sensibile alle questioni petrolifere. Nel 1991, un anno prima della presa di Kabul da parte di Massud, Bush aveva lanciato la guerra contro l’Iraq, camuffandola come conflitto morale e definendola più volte una "crociata".
Ed è proprio il petrolio la causa prima della nascita dei taleban. I giacimenti del Mar Caspio, tra i più ricchi al mondo, fanno gola a molti; ma sono inutilizzabili se non si porta il greggio al mare, dove può essere stivato nelle superpetroliere. Non solo, ma gli oleodotti, passando in uno stato piuttosto che in un altro, possono determinare il peso geopolitico dei singoli governi.
L’Iran degli ayatollah rappresentava la soluzione più ovvia e meno costosa, ma la profonda avversione statunitense verso il governo di Teheran, faceva preferire l’opzione afghana. C’era un solo problema: il governo Rabbani-Massud, rifiutando ogni accordo con le fazioni dei mujahedeen, manteneva il paese in uno stato di guerra permanente, che impediva alle compagnie petrolifere di mettere in pratica i loro progetti.
Kabul, che durante il periodo sovietico era stata risparmiata dai bombardamenti, nonostante fosse ora ridotta a un ammasso di macerie dagli attacchi di Gulbuddin Hekmatyar, armato dal Pakistan e dagli Usa, resisteva. Occorreva trovare un’altra soluzione, che non si fece attendere.
Nel sud del paese esisteva da tempo un movimento di studenti delle madrase islamiche, i cosiddetti taleban (da taleb, studente), di etnia pashtun, che avevano già dato prova di abilità militare, conquistando la città di Kandahar alla fine del 1994. Per il Pakistan rappresentavano una valida alternativa all’impasse della lotta intea dei mujahedeen, mentre la Casa Bianca li allevava in funzione antiRabbani.
Una delegazione taleban giunse anche negli Stati Uniti per discutere sul futuro governo afghano e i loro rappresentanti ebbero colloqui con i dirigenti della Unocal, la compagnia petrolifera Usa che aveva vinto l’appalto per l’oleodotto, sconfiggendo i concorrenti argentini della Bribas.
Dapprima il principale finanziatore dei taleban fu il petroliere saudita Turki bin Faisal (in ottimi rapporti con Osama bin Laden), attratto dalla prospettiva dell’oleodotto; ma verso la metà del 1996, l’impasse militare cui Massud costrinse gli studenti islamici, convinse bin Faisal a chiudere i rubinetti verso l’Afghanistan. E nell’agosto 1996 a Faisal subentrò Osama bin Laden, che accettò di prendersi cura del movimento, il quale, da quel momento, non ebbe più l’appoggio della Casa Bianca.
Il 27 settembre 1996, i 3 milioni di dollari concessi da bin Laden ottennero i loro frutti: Kabul, oramai distrutta da 4 anni di guerra civile, cadde nelle mani degli studenti islamici. Massud e Rabbani si ritirarono al nord, dove vive la maggioranza dell’etnia tajika, controllando il 15% del territorio.
I taleban, dal canto loro, ricostruirono la società modellandola su leggi coraniche. La vita degli afghani venne scandita dai proclami del Ministero della Promozione e della Virtù, il quale si assicurava che tutti gli aspetti del vivere quotidiano fossero coerenti con le affermazioni del Corano.

"BUONI" E "CATTIVI"

Al tempo stesso questo stereotipo che dipingeva i taleban come dei rozzi trogloditi invasati di Dio (o "drogati" di religione, riferendo la famosa frase di Marx), veniva a cadere una volta che ci si allontanava dalla città. Come accade nei regimi assolutistici, la capitale rappresenta la vetrina dell’ideologia di regime che si vuole offrire al mondo e il dogmatismo teocratico dell’Emirato islamico, a Kabul, diviene legge assoluta.
Eppure, almeno al sud, tra le popolazioni pashtun gli studenti trovavano ampi consensi e, ancora oggi, la conquista di Kabul da parte delle forze dell’Alleanza, non ha risolto le questioni aperte da anni: la profonda divisione etnica che separa le varie componenti della nazione, la facilità con cui i diversi comandanti militari cambiano campo da un giorno all’altro, il vivo ricordo delle violazioni dei diritti umani e degli stupri commessi dai militari di Massud su donne e bambine, pende come una spada di Damocle sulla pax afghana.
I media hanno mostrato una guerra i cui contendenti sono sempre stati divisi da una linea netta: da una parte i "buoni" (l’Alleanza settentrionale), dall’altra i "cattivi" (i taleban), conniventi col terrorismo, odiati dal popolo e dalle donne, barbari incivili che hanno riportato la società ai tempi del medioevo.
La realtà è assai diversa; non esistono "buoni", non esistono "cattivi". Ci sono solo afghani che devono fare i conti con la loro storia, la loro cultura, la loro tradizione. Ed è anche per questo che le donne, pur nella loro libertà, continueranno a portare il burqa.

Piergiorgio Pescali

Scheda storica

II millennio a.C.: il territorio dell’Afghanistan diventa un "carosello" di popoli migratori, soprattutto ariani.
VI secolo a.C: buona parte del territorio è annesso all’impero persiano di Ciro il Grande.
328 a.C: Alessandro Magno conquista Bactria (attuale Balkh); alla sua morte passa alla dinastia seleucide.
250-180 a.C: nasce e si espande il regno greco-bactriano, poi passato all’impero nord-indiano Maurya.
I-III secolo d.C: tribù scite creano il regno di Kusana, con importanti centri culturali; la "via della seta" favorisce il commercio tra Roma, India e Cina.
240-VIII sec.: Kusana sotto l’impero persiano sassanide.
642-1747: conquista araba e islamizzazione dell’Afghanistan, governato da varie dinastie locali.
1219-1227: invasione e distruzioni di Gengis Khan.
1360: l’Afghanistan è conquistato da Tamerlano.
XVI-XVIII sec.: Afghanistan diviso in tre parti: nord sotto i discendenti uzbeki di Tamerlano; ovest sotto la Persia; est sotto l’impero Moghul.
1719-1729: Khan Nasher, dei pashtun ghilzai, sconfigge i persiani e controllano l’intera Persia.
1730: afghani ricacciati dal persiano Nadir Shah; i pashtun durrani principali dominatori dell’Afghanistan.
1747: re Ahmed Durrani unifica il paese, che comprende anche Kashmir, Belucistan e Panjab.
1808: trattato anglo-afghano; inizia il "grande gioco" tra la Russia zarista e la Gran Bretagna in Asia Centrale.
1839-1842: prima guerra anglo-afghana, conlusa con la distruzione di un’intera armata britannica.
1844-1901: regno dell’emiro Abdur Rahman Khan.
1878-1880: seconda guerra anglo-afghana, conclusa con il trattato di Gandomak: Abdur si occupa di affari interni; l’Inghilterra controlla la politica estera.
1880-1901: russi e britannici fissano i confini del moderno Afghanistan; metà dei pashtun rimangono nell’attuale Pakistan. Abdur Rahman è assassinato; gli succede il figlio Habibullah.
1919: assassinio di Habibullah (troppo filo-britannico); il successore Amanullah scatena la terza guerra anglo-afghana; nel trattato di Rawalpindi, l’Afghanistan ottiene l’indipendenza e esce dall’isolamento.
1927: Amanullah introduce riforme sociali per modeizzare il paese, sull’esempio di Ataturk in Turchia.
1929: capi tribali e religiosi conservatori costringono il re ad abdicare. Il cugino Muhammed Nadir Shah avvia riforme più graduali; ma è assassinato nel 1933.
1933-1973: regno di Mohammed Zahir Shah, 19ne figlio di Nadir, che concede alcune libertà politiche e promulga una costituzione più liberale e democratica (1964). Nasce il Pdpa (Partito democratico popolare dell’Afghanistan), comunista e legato all’Urss.
1973: colpo di stato di Mohammed Daud (cugino e cognato del re), abolizione della monarchia e proclamazione della repubblica. Re Zahir si rifugia in Italia.
1978: Daud è deposto e assassinato; il Pdpa instaura un regime militare-socialista, che scatena la rivolta popolare.
1979: intervento russo occupa militarmente tutto il territorio e installa un nuovo governo. Inizia l’opposizione armata dell’Unione islamica, composta da varie fazioni di guerriglieri islamici (mujahedeen), sostenuti da Usa, Pakistan, Cina, Iran, Arabia Saudita.
1988: accordi di pace tra Afghanistan, Usa, Urss e Pakistan. Osama bin Laden organizza al-Qa’ida.
1989: l’Armata rossa si ritira; ma continua la guerra civile dei mujahedeen contro Najibullah.
1992: Abdul Rashid Dostum si allea con Ahmad Shah Massud e proclamata la Repubblica Islamica, presieduta dal moderato Burhanuddin Rabbani, rifiutato dagli integralisti guidati da Gulbuddin Hekmatyar.
1994-1996: i Taleban (studenti islamici) insorgono contro l’anarchia e assenza di pashtun nel governo; in pochi anni controllano il 90% del paese e instaurano un governo integralista: una vera dittatura islamica.
1998: Rabbani e il generale Massud si ritirano nella valle del Panjshir e danno vita all’Alleanza del Nord (An), riconosciuta dall’Onu come governo legittimo.
2001: 3 settembre, Massud è assassinato; 11 settembre attacco terroristico alle Torri Gemelle a New York; 7 ottobre Usa e coalizione di alleati invadono l’Afghanistan; 13 novembre l’An entra a Kabul e pone fine al regime Taleban.
27 nov.- 5 dic., conferenza interafghana a Bonn, affida ad Hamid Karzai la presidenza dell’amministrazione provvisoria.
2002: l’ex re Zahir Shah convoca una Loya Jirga, che elegge presidente Karzai, non riconosciuto dai "signori della guerra" che controllano quasi tutto il paese.
2004: approvazione della nuova Costituzione (gennaio); prime elezioni dirette della storia dell’Afghanistan (ottobre): Karzai è riconfermato capo dello stato, ma controlla appena la capitale; il resto del paese è diviso in zone di influenza dei vari "signori della guerra".

Piergiorgio Pescali




Radio Americhe

José Carlos, Sania, Maria Helena, Alvaro: ognuno di loro con un percorso esistenziale diverso, ma con in comune la provenienza latinoamericana. Ogni domenica mattina si ritrovano in uno studio radiofonico di Torino, dove assieme conducono una (bella) trasmissione di informazione e cultura latinoamericana.
Il titolo del programma è intrigante: "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces". "Trópico" fa riferimento alla collocazione geografica di gran parte dell’America Latina, mentre l’aggettivo "utópico" vuole ricordare la voglia di sognare di molti popoli latinoamericani, quel "realismo magico" di cui si sono fatti interpreti grandi scrittori come Gabriel García Márquez, Isabel Allende, Laura Esquivel e molti altri. "Voz de tantas raíces" nasce invece da una poesia diffusa durante le ricorrenze per i 500 anni (1492-1992) dalla conquista dell’America: "En un amanecer de luchas milenarias, despierta America, canta voz de tantas raíces", "In un’alba di lotte millenarie, alzati America, sii voce di tante radici".
Anche per questo ci sarebbe piaciuto titolare questo servizio "Radio America", ma non abbiamo voluto rischiare fraintendimenti: nel mondo, "America" è quasi sempre sinonimo di "Stati Uniti". Con grande (e comprensibile) disappunto di coloro che vivono a sud degli Usa.
Nelle pagine seguenti abbiamo dato spazio alle storie autobiografiche di José Carlos, Sania, Maria Helena ed Alvaro (stranieri, anzi "extracomunitari"…!) perché – una volta tanto – c’è un lieto fine. E questo è un bel segnale di speranza, ancorché piccolo, per un’Italia che, oltre le sue leggi punitive (in primis, la Bossi-Fini), fatica a trovare una sintonia con gli immigrati.

Paolo Moiola

Radio Flash, storica radio di Torino, ogni domenica ospita una trasmissione dedicata all’America Latina. Nulla di particolare, se non fosse che
i quattro conduttori sono latinoamericani. Così, un programma radiofonico – "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces" – diventa ben più di un esempio
di integrazione. È la dimostrazione che, in un’Italia dove la convivenza tra immigrati e italiani è ancora irta di ostacoli, l’arricchimento reciproco
è auspicabile, ma soprattutto possibile.

José Carlos, dal Nicaragua

PER SUPERARE L’INDIFFERENZA

Ricordo la vecchia entrata dell’unico Mc Donald’s che c’era a Managua: un via vai di uomini con mitra semiautomatici alle spalle e bambini in braccio… Sono arrivato in Nicaragua nel 1986, proveniente da Cusco in Perù, dove sono nato, e ho trovato un paese in rivoluzione per tante cose e in guerra per molte altre… Il Nicaragua è stata la mia seconda casa, una casa sempre minacciata dalla controrivoluzione, che dal nord, dall’Honduras, dalle montagne, bombardava e bruciava i raccolti alla frontiera. Mentre in città arrivavano notizie di possibili interventi militari nordamericani, l’embargo alimentava la carestia e nei supermercati gli scaffali restavano immobili, ma sempre vuoti.
Per strada la gente si guardava negli occhi con rispetto: erano tutti complici di una sfida collettiva al padrone del cortile di casa… La guerra esalta il peggio di noi, ma allo stesso tempo può riscattare l’invisibile che abbiamo dentro: forse per questo sono diventato inevitabilmente nicaraguense.
Ho assistito alla fine della rivoluzione sandinista in concerto con la caduta del muro di Berlino. Per 10 anni il Nicaragua è rimasto sospeso nel tempo e si è ritrovato all’inizio degli anni Novanta – dopo 10 anni d’embargo -, vestito come alla fine degli anni Settanta, quando era cominciata la rivoluzione. Le macchine, le radio, gli abiti, tutto era passato di moda da un decennio quando questo piccolo paese dell’America Centrale si svegliò da un sogno di cui aveva deciso soltanto l’inizio.

Nel 2000 sono partito per l’Italia con un sacco di idee e progetti, una sindrome condivisa da tutti gli emigrati. A Torino ho fatto lo studente operaio, imballando ricambi di tutti i tipi. Per un anno, ho lavorato in un capannone della periferia torinese per una cornoperativa gestita da alcuni mafiosi, che ci pagavano una miseria mentre, soddisfatti della loro perfetta abbronzatura, si guardavano allo specchio della nuova Jaguar. Questa fabbrica assomigliava più a una maquila centroamericana, che ad una fabbrica della ricca Italia. In inverno entravo alle 5:30 "prima del sole" e a volte ci obbligavano a fare degli straordinari fino alle 16:00 quando il sole ormai se ne stava andando… In quei giorni l’unica luce che vedevo era quella che ogni tanto si rifletteva sulle scatole.
Oggi, dopo quasi 6 anni e tanti lavori diversi, sono alle prese con gli ultimi esami universitari della laurea in studi inteazionali.

Mi sono avvicinato alla radio per caso. Alvaro Duque, colombiano, mi invitò a Visión latina, la trasmissione radiofonica da lui condotta all’epoca, per presentare una mostra fotografica sulla povertà estrema che avevo visto nella discarica di Managua, la capitale nicaraguense dove ero tornato dopo anni d’assenza, insieme alle note da cui è uscito il mio primo articolo, pubblicato proprio su questa rivista nell’aprile 2005. A quella prima volta in radio, seguirono altri miei interventi in trasmissione: per parlare del Salvador e poi degli indigeni del Guatemala. E siccome non c’è 3 senza 4, un giorno Alvaro mi chiamò per offrirmi un microfono in una nuova trasmissione. Io accettai senza pensare molto ai perché: semplicemente mi sembrava fosse un’opportunità da non rifiutare. Era, allo stesso tempo, una gran responsabilità, giacché non si trattava più di cucinare pizze, bensì qualcosa di più malleabile ma anche delicato, necessario per vivere e per riflettere: l’informazione, servita con quella trasparenza che viene abitualmente calpestata dai grandi comunicatori da… "centro commerciale".
Io credo che la radio, come la carta stampata, dovrebbe essere sinonimo di comunità educativa, di educazione popolare che inviti all’autocoscienza critica e non all’indifferenza collettiva. Così, sulla base di queste convinzioni, il 26 di marzo ho iniziato a fare lo speaker nella prima puntata di "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces".

Nello studio di Radio Flash tutte le domeniche, verso le dieci e quindici – a volte un po’ assonnati – si corre, si rilegge e si corregge quello che partirà per le onde radio: voci, parole, denuncie, improvvisazioni e molte volte agitazione, in un tutto che arriva fino alle persone che ci ascoltano.
Quando sta per finire il notiziario di radio popolare verso le 10:40 e suona la canzone dell’inizio del programma, la sensazione della prima volta entra in studio e invisibile, si siede in una vecchia poltrona che è di fronte a noi, quasi fino alla fine del programma, ma ad ogni domenica decide di andarsene prima, so che un giorno non verrà più… quando parlare in radio per me sarà diventato leggero come ascoltarla.
Durante il programma, da dietro la consolle, Alvaro ci mostra dei cartelli di colori diversi – simili a quelli dell’arbitro in una partita di calcio – con cui ci suggerisce o ci dà i tempi: invita a domandare se siamo nel corso di un’intervista e il personaggio dall’altra parte del telefono passa tutti i semafori in rosso o – come si dice in Nicaragua – "va como carreta en bajada" (va come un carretto in discesa), oppure a cercare di chiudere il discorso o il tema che stiamo trattando, se ci si avvicina "Conexão Brasil", il segmento in lingua portoghese tenuto da Sania, l’amica brasiliana nostra compagna d’avventura.
Abbiamo trovato una sorta d’equilibrio all’interno del collettivo di Trópico Utópico. Ognuno di noi quattro concepisce la comunicazione in modo diverso, ma le basi del programma si confanno bene alle nostre idee e al nostro sentire.

José Carlos Bonino

Sania, dal Brasile

PER SFATARE I LUOGHI COMUNI

Sono nata e vissuta fino a 17 anni nella piccola e tranquilla città di Laguna, nel sud del Brasile. Dei miei ricordi di quel periodo posso dire che convivevo con la tranquillità del luogo e le disparità regionali presenti nel paese, senza molte possibilità di crescita personale attraverso qualche esperienza. Solamente quando partii per Florianopolis, la capitale dello stato, per entrare all’Università (facoltà di ingegneria ambientale), uscii dal blocco mentale nel quale prima vivevo e cominciai una vita di scoperte ed esperienze positive e negative, che contribuirono alla mia formazione personale e professionale.

Nel 2005 sono venuta in Italia con l’obiettivo di conoscere una nuova cultura e fare nuove esperienze per un tempo determinato, più o meno 3 anni. Nella condizione di immigrata non ho avuto molti problemi, a parte quelli che all’inizio penso abbiano tutti: difficoltà per la lingua, trovare un lavoro d’accordo con la formazione ottenuta nel paese di origine, burocrazia nelle pratiche civili, ecc. Comunque, poiché sono facilmente adattabile alla diversità, posso dire che mi trovo bene in Italia, paese eccezionale per natura, cultura e persone.
La mia venuta in questo paese ha anche cambiato il mio rapporto personale con il Brasile. Da lontano guardo il mio paese in un modo diverso da prima, trovandolo ancora più bello e ancora più da amare.
Il Brasile, paese in via di sviluppo, vasto quanto un continente e con circa 180 milioni di abitanti, è descritto a livello internazionale come il paese del carnevale, del calcio, dell’Amazzonia e della criminalità. Però, chi lo conosce veramente, sa bene che è un paese fantastico in tanti sensi, ben oltre quelli codificati nei luoghi comuni. È certo che, a causa della sua condizione socio-economica, ci sono tanti problemi e molte cose da fare per svilupparlo in modo equanime e sostenibile. Tuttavia, dopo 500 anni dall’occupazione europea, pian piano il paese sta trovando una propria autonomia per consolidare la sua identità nel mondo.

L’opportunità di partecipare al progetto di comunicazione radiofonico di "Trópico Utópico" mi ha dato la possibilità di avvicinare Torino alla cultura brasiliana. Con la rubrica Conexão Brasil io cerco di trasmettere, pur in uno spazio temporale ristretto, notizie interessanti dal Brasile, informazioni di utilità generale, divulgazione della lingua portoghese e musica brasiliana di qualità. Insieme a Carlos, Maria Helena ed Alvaro, gli amici che in un’atmosfera multiculturale conducono il programma, molto umilmente tento di legare il Brasile al contesto latinoamericano e nel contempo di inserirlo in una scala globale.

Sania Fortunato

Maria Helena, dalla Colombia

UNA FOTO IN TASCA, UN SOGNO NEL CUORE

Per poter raccontare la mia vita ho dovuto fare ricorso alla cassetta dei ricordi (una vecchia scatola da scarpe in cui conservo amori, defunti, amici e sogni) dove ho dunque trovato lo spunto per scrivere: una di quelle foto che si conservano con diffidenza nei sacri album della famiglia; una di quelle foto perfette in cui tutti sono belli ed ordinati, pronti per la messa; una di quelle foto che, quando arriva il momento di partire, ti prende il desiderio di rubarla, di prenderla dal reliquiario del passato senza chiedere il permesso ad alcuno.
Io lo feci, poco prima di prendere la mia valigia per partire in direzione dell’ Italia. "La foto in blu" è stata per me per molti anni l’amuleto, la connessione con la mia verità, il mio conforto e la mia tristezza. In essa sta tutta la mia famiglia vestita di blu. Colore che non ha niente di che spartire con il colore del partito conservatore colombiano. Non siamo una prole "de godos" (nomignolo dato ai conservatori, ndr). Fu soltanto una casualità.
La nonna Emelina sta nell’angolo sinistro, appare in piedi e dà la sensazione di sostenere gli altri, di tenerli, quasi che fossimo sul punto di cadere da qualche parte. Cercando come sempre di raddrizzare il quadro storto della mia famiglia, compito a cui si dedicò fino alla sua morte. A lato di Emelina, seduto in poltrona, sta il nonno Pedro Nel, un vecchio rigido ed impenetrabile; un uomo di verità, grande, brutto e formale, direbbero a casa mia. In ordine decrescente di grandezza stiamo noi, i bambini: mio fratello Juan Carlos, tanto magro da sembrare morto di fame; il cugino Wardo, piccolino, carino fin dalla sua venuta al mondo; per ultima, ci sono io, progredendo pian piano nell’arte sottile degli sguardi civettuoli. La foto non è completa, mancando Beatriz, mia madre, che stava facendo la foto con la vecchia macchina fotografica ereditata da mio padre Silvio, unico avere che ci lasciò prima di andarsene.
Io sono Maria Helena, nata 36 anni fa a Cali, Colombia, la città che molti di noi chiamiamo "la succursale del cielo". Per quanto mi riguarda, debbo confessare che del cielo ha ben poco, anzi ha più dell’inferno con l’umidità, le zanzare e i mafiosi di tuo. Sono cresciuta in un quartiere popolare, con il nome di un eroe della patria, Atanasio Girardot. Un luogo povero, di strade sterrate, di bambini e cani randagi. Ricordo che trascorrevo molte ore a giocare per la strada, dopo i compiti della scuola. Credo che giocai finché arrivò la modeità anche là, attorno agli anni Ottanta: strade asfaltate, bordelli agli angoli, la prima televisione, la scuola superiore in un collegio di monache. Con il passare degli anni, vidi come i miei amici d’infanzia, con sogni differenti dai miei, si trasformarono in ladroni, sicari, trafficanti, e addirittura mafiosi di grido. Hoy todos estan bajo tierra: oggi tutti stanno sotto terra. Di quella generazione siamo rimasti in pochi, quelli di noi che si sono salvati dalla polveriera nella quale si era convertito il barrio Atanasio Girardot.
A 16 anni avevo terminato la scuola superiore e a 17 stavo seguendo il mio primo anno nella facoltà di sociologia dell’Università pubblica della mia città. Partecipai a tutte le assemblee studentesche che ci furono, a tutte le rivolte, fino alla protesta per la sparizione del mio compagno di banco. Tuttavia, Marco non ricomparve più ed io scoprii, con dolore, che la soluzione non stava nel lanciare pietre o nell’insultare la polizia o di trasformare in carne da cannone i miei compagni di lotta.
Mi dedicai quindi a studiare, a lavorare con la gente del mio quartiere, a viaggiare in autostop per il mio paese. Così scoprii un’altra Colombia: quella dei neri del Pacifico con la loro musica, la magia e il "biche" (una specie di grappa locale fatta dalla canna da zucchero, ndr); quella degli indios con il loro odore, il silenzio e lo sguardo perso; quella dei contadini con la loro generosità; quella della selva e delle grandi città.
Distinguere tra i miei doveri professionali e il mio impegno politico è il tallone d’Achille della mia esistenza. All’epoca, mi ritrovai così compromessa in situazioni che posero in pericolo la mia tranquillità. Questo perché la Colombia è un paese dove regna l’impunità, dove è meglio tacere che denunciare. A causa dei miei problemi e alcuni momenti di orrore e morte che non potevo cancellare dalla mia mente, decisi di andarmene da lì, di lasciarmi tutto alle spalle e ricominciare in una nuova terra. Così, grazie all’aiuto di amici di Florencia che facevano ricerche per la tesi in scienze politiche in collaborazione con l’Università del Valle dove io lavoravo, iniziai la mia avventura in senso opposto a quella di Cristoforo Colombo.
Arrivai in Italia nel 1998. Nei miei primi anni da emigrata provai quella sensazione leggera e strana che ti offre l’essere niente e nessuno. È come essere morto pur essendo in vita. Per sopravvivere, a Firenze ho pulito case, servito ai tavoli, venduto articoli di cuoio e souvenir al mercato di San Lorenzo a nordamericani e giapponesi. Fino a quando l’anonimato e la voglia di tornare a "giocare alla sociologa" mi fecero impazzire, come – è così che si dice in Colombia – "si la tierra bajo los pies me picarà", se la terra sotto i piedi mi pungesse. Nel 2001 ripresi dunque in mano la valigia per andare nel nord Italia per seguire un corso di mediazione interculturale, l’unica porta che mi sembrava fattibile da attraversare. Toai a lavare piatti e a pulire case però questa volta con un sogno: lavorare in quel laboratorio sociale che è Torino.
Da 4 anni lavoro come educatrice nel mondo della cooperazione. Ho lavorato con gli adulti in difficoltà, con le donne vittime della tratta, con i drogati, con ex carcerati, con adolescenti e con stranieri come me.
In tutto questo andare e venire di progetti e belle esperienze sono arrivata alla radio e mi sono fermata. Credo che l’importanza di questo progetto risieda nella sua stessa natura, nella sua caratteristica di relazione immediata con coloro che ci ascoltano, indipendentemente dal fatto di parlare in spagnolo, in portoghese o in italiano.
Il nostro programma radiofonico è fatto di amore, di sacrifici, di ore di lavoro e di tanta voglia di continuare. Trópico Utópico è per me parte del sogno che non ho potuto sognare nella mia terra.

Maria Helena Granado

Alvaro, dalla Colombia

STACCARE LE ETICHETTE CHE DEFORMANO IL MONDO

Quando mi sono chiesto che cosa avrei potuto scrivere in poche righe su un´esperienza di migrazione come la mia, forse poco significativa e, ad ogni modo, atipica, mi è venuto in mente il fatto che in questo processo di viaggi e scoperte che è in definitiva la migrazione, ho infranto, non sempre con successo, alcuni degli stereotipi che si hanno in mente come conseguenza dell´habitat in cui uno si è formato e come risultato dell´informazione che ognuno di noi, volontariamente o senza volerlo, ha acquisito.
La prima cosa quindi che potrei raccontare o, per meglio dire, confessare è che quando mi capitò l´occasione di venire in Italia (in quell´epoca stavo conoscendo quella che è ora mia moglie, un´italiana del Piemonte), io preferii viaggiare in Francia. A Parigi, precisamente, dove mi fermai un paio di mesi. Nella mia testa si annidava l´idea semplice e banale di un’Italia piena di "bulletti spocchiosi", di persone interessate esclusivamente al calcio o alle auto di ultima generazione, di gente poco affidabile e con modi di fare in stile mafioso. Insomma, uno stereotipo, una caricatura.
In fondo, lo stesso che causò in me disillusione nella "ville lumière": il mondo pieno di pensatori con la pipa che io avevo immaginato riempire le strade del quartiere latino, in realtà era costituito in maggioranza da tronfi i quali, anziché intonare i bei testi della Chanson, cantavano rap e altri ritmi in inglese. Oh, la là!

Quando arrivai in Italia, alcuni anni più tardi, finalmente scoprii, diciamo, un´altra Italia. Anzi, per essere più precisi, altre Italie: l’Italia della solidarietà, l´Italia che si preoccupa per quanto succede in Africa o in America Latina (a proposito, quante cose ho imparato della parte del mondo da dove provengo, a partire dalle varie visioni italiane sul tema!).
Quando mi trasferii definitivamente in Italia, quattro anni fa, lo feci dopo aver deciso di vivere con Franca. Ed ecco qui un altro stereotipo infranto: si emigra fondamentalmente per ragioni economiche o politiche e le altre migrazioni si dice che siano meno dolorose. In realtà sono semplicemente diverse, però non per questo meno traumatiche. La migrazione comporta sempre un abbandono e soprattutto un confronto permanente con l´altro e pertanto un processo di apprendimento per cercare di convivere con la diversità. Uno scenario nel quale, per vivere e non solo sopravvivere, è necessario lottare contro queste semplificazioni mentali che frequentemente ci creiamo noi esseri umani per (mal) intendere certe situazioni.
In questo gioco di incasellare tutto in comode etichette deformanti e di andare per le strade della vita con una specie di spada con la quale si tagliano strette definizioni (che non tengono in considerazione altri aspetti, che si dovrebbero invece considerare), ci troviamo imprigionati quasi tutti noi emigrati. E che dire di chi, senza neanche essere stato costretto a sperimentare la vita in un altro posto, considera il suo piccolo mondo come l´unico territorio possibile dell´universo?

E così, come una goccia in quell’oceano che è l’abbattere stereotipi, nasce Trópico Utópico. Poiché l´America Latina è sì musica, balli e festa, però è anche una realtà straziante che vogliamo mostrare. Per parte sua,l’Europa non è sempre l´Eden e non per tutti la vita qui è facile. I latinoamericani (e altri stranieri venuti dalle periferie del mondo) devono abbandonare i propri figli e i propri compagni di vita per lavorare spesso in case di anziani che, a loro volta, vivono in solitudine a causa del frequente abbandono affettivo da parte delle proprie famiglie. L’America Latina non è una sola, bensì sono tante e spesso sconosciute. E forse solo all´estero iniziamo a conoscere le sue molteplici facce.
Concludendo, Trópico Utópico vuole dare visibilità a questa e ad altre Americhe, che trascendono lo stereotipo dei bei fianchi in movimento, dei "caudillos" redentori, tanto idolatrati qui, ma che secondo me a volte ci fanno più male che bene. Il nostro programma vuole combattere questa battaglia contro gli stereotipi, poiché credo che, se la storia deve servirci per apprendere, non per questo deve segnarci in modo tanto definitivo.

Alvaro Duque

Bonino, Fortunato, Grananda, Duque




Sabbie mobili nel nord Mali

Armi leggere, droga e transito di immigrati. Questi i traffici della regione desertica di Kidal. Ma soprattutto milioni di dollari d’investimento per cercare il petrolio. Un tenente colonnello tuareg diserta e si dà alla macchia. Poi attacca l’esercito regolare e si ritira tra le dune. Ecco come 100 uomini riescono a intavolare negoziati inteazionali con il governo. In un paese tra i più poveri del mondo.

Bamako. Un’unica strada collega il sud con il nord del Mali. Una striscia di asfalto, molle gran parte dell’anno a causa del caldo infeale, così dritta che pare tracciata con il righello. Lascia il fiume Niger a Bamako, la capitale, per ritrovarlo a Gao, 1200 km dopo. Ma il contesto è cambiato: dal clima saheliano parzialmente umido, passando dal semi arido si è arrivati al deserto; dai popoli neri bambarà, dogon e altri ancora, siamo arrivati nella terra dei tamasheq, meglio noti in Occidente come tuareg, e i loro schiavi bellà.
Questo asfalto ha visto intensificarsi il traffico dopo il 23 maggio scorso. E non di mezzi qualsiasi, ma di blindati e camion militari carichi di truppe. Vanno nelle regioni del nord: Gao, Kidal, Menaka. Da quel giorno, infatti, sembra si sia risvegliata la ribellione tuareg, che aveva insanguinato l’area (estendendosi anche in Niger) agli inizi degli anni ’90.
Il capo tradizionale tuareg, e tenente colonnello Hassan Fagaga, si era già lamentato a fine 2005 con il presidente della repubblica, Amadou Toumani Touré (chiamato popolarmente Att). Secondo lui, gli accordi del ’92 non erano stati rispettati. Le promesse di Att non gli bastano e così a febbraio Fagaga diserta con alcune decine di uomini e si rifugia nelle dune a nord di Kidal. È il suo gruppo che all’alba del 23 maggio attacca due campi militari a Kidal, facendo 6 morti e numerosi feriti e prendendo la città in ostaggio. Nelle stesse ore, il capitano Moussa Bah, comandante di una base a Menaka (località 300 km ad est di Gao), attacca la sua stessa caserma e svuota l’arsenale. Sono passate due settimane da un approvvigionamento dei magazzini dell’esercito in armi leggere e 12 giorni dalla visita del capo di stato a Timbuctù (Tombouctou), dove ha lanciato il gigantesco "Programma d’investimento per lo sviluppo delle regioni del nord" (Pidrin): quasi 26 milioni di euro.
Il Mali è uno dei paesi più poveri del mondo, con il Pil pro capite medio di 370 dollari, la speranza di vita ferma a 41 anni e il tasso di scolarizzazione al 32%. Non si muove dagli ultimi posti (174 su 177) della classifica di sviluppo umano dell’Onu. I maggiori prodotti di esportazione sono l’oro, (che comunque vede una diminuzione della produzione) e il cotone. Quest’ultimo sebbene in aumento come quantità (il Mali è il primo produttore africano) è penalizzato dal corso dei prezzi sul mercato mondiale, in particolare dalle sovvenzioni all’esportazione dei paesi industrializzati.

Senza fissa dimora

Le popolazioni tamasheq, di origine berbera, non hanno mai accettato i confini degli stati. Sono presenti in diversi paesi sahariani (oltre al Mali, Mauritania, Niger, Algeria, Libia), ma quelle che contano sono le grandi famiglie e i loro capi tradizionali. Sono popoli nomadi, che ieri si spostavano con i cammelli e oggi vogliono continuare a farlo con le 4×4 e il telefono satellitare. Abituati a un ambiente estremo, spesso sono armati, e il loro stile di vita è molto diverso da quello dei neri, che utilizzano anche come servi. Nel nord del Mali le famiglie dell’Azawad iniziarono nel 1990 la ribellione armata che vide una tregua negoziata nel 1992, con la mediazione dell’Algeria. La vera fine della guerra fu sancita a Timbuctù, mitica città nel deserto, nel marzo 1996, dalla cerimonia della "fiamma della pace", quando l’arsenale ribelle fu bruciato. Integrazione delle milizie nell’esercito regolare, maggiore autonomia per le regioni del nord e, soprattutto, investimenti per lo sviluppo sono i principali contenuti dell’accordo. Ma nel 2000 il capo tuareg Ibrahim Ag Bahanga non è soddisfatto. Secondo lui gli impegni dello stato non sono stati onorati, diserta e si dà alla macchia. Attacca una postazione dell’esercito e fa ostaggi. L’ambasciatore d’Algeria media e ottiene soddisfazioni delle rivendicazioni del capo, anche molto personalistiche (come lo statuto di comune per il suo villaggio natale).

Militare e democratico

Amadou Toumani Touré, è presidente della repubblica dal maggio 2002, quando fu eletto democraticamente. Da allora, il suo governo non ha una vera opposizione, in quanto tutti i maggiori partiti lo hanno sostenuto. Att aveva già preso il potere con un colpo di stato militare nel 1991, per mettere fine alla dittatura di Moussa Traoré, durata, sotto forme diverse, dal 1968. Si apprestò a preparare una transizione civile, e un anno dopo fu eletto Alpha Oumar Konaré (attuale presidente della commissione dell’Unione africana), che ottenne poi un secondo mandato. Alpha appoggiò la candidatura di Att nel 2002. Un tale panorama politico vedrà una facile rielezione di Att a maggio 2007, anche se questi non si è ancora candidato ufficialmente.
Il presidente, conosce bene la "questione" tuareg: nel ’90 comandava proprio le truppe nel nord.
Ora Fagaga accusa il governo di non aver rispettato i patti. Soprattutto quelli sull’investimento allo sviluppo. "Di fatto il nord è considerato la zona più depressa del paese – ci racconta Marco Alban, rappresentante di una Ong italiana che da anni è presente in Mali – e il governo invita tutti i grandi finanziatori a intervenirvi. Le più grosse Ong, come Oxfam, Medici senza frontiere, e agenzie dell’Onu, come il Programma alimentare mondiale, hanno progetti in queste regioni". Ma, continua, "resta comunque difficile avere un buon impatto sulle condizioni di vita a causa della vastità del territorio e della dispersione della popolazione, e ancora più complicato è misurarlo se si volesse fare una valutazione. Sono, inoltre, in corso di elaborazione studi che probabilmente ridisegneranno la mappa della povertà nazionale e indicheranno altre zone come prioritarie per i progetti di lotta contro la povertà".

Rivendicazioni che ritornano

I nuovi (ma vecchi) ribelli chiedono di essere reintegrati nell’esercito, ma senza carichi penali e, soprattutto, lo statuto speciale per la regione di Kidal, che già gode di una certa autonomia (è l’unica delle otto regioni del Mali ad avere un governatore eletto e non nominato dal governo). Questo vorrebbe dire una gestione fiscale autonoma e un miglioramento dell’accesso al voto (cosa non semplice, visto che qui si vive in poche famiglie disperse tra le dune). Att sa che se Kidal ottenesse l’autonomia la reclamerebbero anche le altre due regioni del nord: Gao e Timbuctù. E questo è un forte rischio per l’integrità nazionale. "In effetti se dividessimo il Mali all’altezza di Mopti dove c’è una specie di strozzatura sulla carta geografica – confida un osservatore internazionale – otterremmo due paesi molto diversi. Uno sahariano, desertico e l’altro saheliano – sudanese".
Capita, di questi tempi, di incontrare sul volo Bamako – Parigi energumeni un po’ grezzi, con i volti bruciati dal sole e i calzoncini corti. Parlano solo inglese, con un forte accento australiano. Non è un caso: da quando si è scoperto il petrolio in Mauritania (il primo grosso giacimento nel 2001), una mezza dozzina di compagnie petrolifere (canadesi, malesi, sud africane e soprattutto australiane) stanno investendo milioni di dollari per setacciare 800.000 chilometri quadrati di deserto maliano, prontamente diviso in lotti e dato in concessione dal governo. Con il prezzo attuale del barile di greggio le ricerche sono economicamente giustificate. Le analisi preliminari danno indici positivi, dicono gli esperti, ma al momento non ci sono certezze. Ecco perché Att, durante la sua visita a Timbuctù ha detto: "Se il petrolio sarà trovato apparterrà alla nazione intera". Di dividersi quindi, non se ne parla.

La risposta di Att

Lenta, ma solida, la risposta agli attacchi di maggio. In tre giorni blindati e truppe dell’esercito regolare sono arrivate a Gao, Kidal, Menaka. "Intoo a Gao c’è un cordone di blindati, mentre è sconsigliato, dallo stesso governatore, muoversi al di fuori della città" ci conferma una fonte sul posto. I ribelli sono fuggiti, portandosi via molte 4×4 rubate a servizi statali e a privati, e una buona quantità di armi leggere. "Il forte rischio è la militarizzazione del nord – continua – già in atto che ha come conseguenza certa il dilagare del banditismo". La gente del nord ha lasciato le città all’arrivo dell’esercito regolare (in questo caso composto prevalentemente da etnie del sud) per il timore di ritorsioni come quelle della precedente guerra, quando si era scatenata una vera caccia al tamasheq. Le popolazioni sono poi rientrate, vista la situazione calma ma permane la tensione. Il rischio di frizioni etniche è comunque reale. Anche in seno all’esercito, composto da neri e da "pelle rossa" (come sono chiamati i tuareg, dalle popolazioni del sud, a causa della loro caagione più chiara), che non si possono sopportare.
Nel resto del paese la gente vede l’ennesima ribellione come un continuo chiedere senza in realtà alcun desiderio di integrarsi nella società maliana, di far parte della nazione.
Ma la maggior parte dei tamasheq del nord hanno capito che la guerra non è la via giusta. Molti ex capi della ribellione di dieci anni fa preferiscono oggi la politica, che grazie al decentramento ha visto eleggere sindaci e consiglieri comunali tra le grandi famiglie della zona.
La società civile di Gao e Timbuctù si sta impegnando a fondo per far capire ai loro "fratelli" come questa scelta delle armi sia sbagliata. "Si sono fatte riunioni e delegazioni di associazioni vanno a Kidal dalle altre due regioni, per spiegare che in questo modo si rischia di annullare tutto quello che è stato ottenuto con le precedenti lotte" ricorda Alban. "È chiaro, d’altro lato, che se Kidal avesse lo statuto speciale, anche loro lo rivendicherebbero".

Tra Libia e Usa

Alla ricorrenza del Mouloud (nascita di Maometto) quest’anno, a Timbuctù un’imponente celebrazione è stata finanziata da Gheddafi. Con gran dispendio di risorse, mezzi e persone, la Guida (come è chiamato il leader Libico) era presente lo scorso aprile nella città detta dei 333 santi dell’Islam. Anche Att c’era, e con lui capi di stato di Senegal, Mauritania, Niger e Sierra Leone. Ma il padrone di casa ebbe un ruolo di secondo piano. Gheddafi organizzò un incontro con i capi tradizionali e chiese "l’unione sacra dei popoli del Sahara, per difendere questa terra benedetta contro gli invasori stranieri". Rilanciò l’idea di una nuova entità geopolitica: "Dobbiamo creare una Carta di Timbuctù per fare del Sahara una grande famiglia". Una sorta di stato dei popoli del deserto, di cui lui sarebbe a capo.
"Già nel 2005 si erano tenuti incontri dei leader tradizionali del Sahara in Libia". Ci racconta la nostra fonte: "Gheddafi ha anche incontrato Fagaga a Timbuctù e questo senza invitare il governo maliano". Molti vedono dunque un ruolo destabilizzante della Libia nella zona. A marzo è stato aperto un consolato libico proprio a Kidal, con l’obiettivo di seguire un investimento in sviluppo di 50 milioni di dollari. Ufficio che ha chiuso pochi giorni prima dell’attacco.
Capita, sempre in questi giorni, di vedere la notte decollare dall’aeroporto di Bamako un grosso cargo quadrimotore grigio con la scritta "Us Air Force". Nulla di strano, vista la presenza di basi Usa nel nord del Mali, nell’ambito del programma Pan-Sahel, che prevede un appoggio americano, soprattutto con istruttori, ma non solo (si parla di alcune centinaia di soldati solo in Mali), agli eserciti dei poveri paesi saheliani. Uno dei programmi di sicurezza finanziati dal Pentagono dopo gli attacchi del 2001.

Rischio inteazionalizzazione

Nella stessa zona sono in effetti presenti e organizzati Gruppi salafisti per la predicazione e il combattimento, terroristi molto attivi anche in Algeria. Furono loro a rapire 14 turisti europei nel deserto algerino nel 2003 e nasconderli in Mali.
Il rischio e la paura di molti di un’inteazionalizzazione della guerra con implicazioni Usa e paesi sahariani è remoto ma reale.
"Kidal è oggi anche l’incrocio di traffici molto redditizi: armi leggere, droga e immigrati fanno scalo nella cittadina tra le dune. E queste sono altre componenti di rischio". Racconta un osservatore.
In Niger, intanto, il presidente Mamadou Tanja, è preoccupato degli avvenimenti del vicino. Nel suo paese la presenza tamasheq è importante e la storia recente simile. A giugno invita a colloquio un ex capo della ribellione e rappresentanti degli ex combattenti. Rinnova le promesse su indennizzi e reintegrazione e vara un programma di maggior contatto tra le autorità ed ex ribelli.

Alla ricerca di una soluzione

Att vorrebbe risolvere il conflitto in casa, come una questione intea all’esercito maliano, con una mediazione diretta governo-ribelli. Ma si accorge ben presto che non è possibile, gli stessi capi tuareg chiedono un mediatore esterno. L’Algeria, già forte dell’esperienza degli anni ’90 e della risoluzione dell’incidente Ibrahim Ag Bahanga del 2000, accetta la difficile missione. Alcuni osservatori paventano l’opzione militare: "Il governo maliano ha già concesso larga autonomia, e con la decentralizzazione amministrativa il potere locale è in mano ai tamasheq. Altra cosa sarebbe lo statuto speciale che il presidente non concederà. Per questo se le posizioni dei ribelli si induriranno, il conflitto potrebbe protrarsi".
Ma è dei primi di luglio la notizia che le delegazioni governativa e ribelle, incontratesi ad Algeri, hanno firmato un accordo di massima. I tuareg rinuncierebbero allo statuto speciale, mentre il presidente Att si impegna ad aumentare ulteriormente gli investimenti allo sviluppo nelle tre regioni nel nord, (in prevalenza a Kidal), con un pacchetto di 70 milioni di euro. Impunità garantita ai disertori, che potranno reintegrare l’esercito.
Su questa strada, ai 40 gradi all’ombra che caratterizzano l’inizio della stagione delle piogge, leggiamo una scritta a grossi caratteri sulle case della cittadina di San, a 400 km dalla capitale: "L’uomo propone, Dio dispone". Una certezza questa per la gente del Mali, come certo è che la "questione tuareg" non finisce qui.

Marco Bello

Una radio da … 1.200 euro

Siamo nella città vecchia di Mopti, nei pressi del porto fluviale sul Bani, affluente del Niger. Da qui partono piroghe e barconi variopinti, carichi di gente e mercanzie per la mitica Timbuctù, più a nord, nel Sahara. Poco lontano un’antenna svetta su una casa fatiscente. Al primo piano in due stanze dall’intonaco scrostato c’è gran fermento. Ci troviamo a Radio Jamana Mopti, una delle voci più ascoltate in zona, anche dal mondo rurale.
Questa Radio fa parte della cornoperativa editoriale Jamana, che conta una decina di emittenti in tutto il paese. Jamana pubblica anche uno dei rari quotidiani del Mali, Les Echos, un mensile in lingua bambarà e libri. È il più grosso gruppo editoriale del paese e, guarda caso, fu diretto da Alpha Oumar Konaré, che divenne poi presidente della repubblica per due mandati consecutivi dal ’92 al 2002.
Radio Jamana Mopti fu creata a fine 1997, ci racconta Aliou Djim che ne è stato direttore dalla fondazione ai giorni nostri. Ora lui andrà a dirigere Radio Benkan, sempre di Jamana, a Bamako.

Promozione culturale

Aliou racconta che "la missione principale delle radio Jamana, sparse soprattutto all’interno del paese, è la promozione delle lingue e della cultura locali". Per questo, ad esempio, a Mopti Radio Jamana trasmette in sette lingue, di cui sei locali (bozo, fulfuldé, dogon, sonrahi, bambarà, tamasheq) e il francese. "Inoltre, si investe molto ad accompagnare la massa rurale in tutto quello che è lo sviluppo". Questo vuol dire, di fatto, veicolare i messaggi delle Ong e delle organizzazioni di base, che siano esse locali, nazionali o inteazionali. "Se ad esempio una Ong vuole far pervenire un messaggio in tutto il cercle (provincia, ndr) di Mopti al più gran numero di beneficiari, nello stesso momento noi realizziamo una trasmissione in più lingue". La radio si propone come supporto in comunicazione tra Ong e contadini. E vendendo questi servizi trae anche il suo sostentamento.
"La maggiore sfida attuale è assicurare la nostra perennità. Ci autofinanziamo con le prestazioni al 100%, mentre l’apporto della cornoperativa Jamana si limita all’installazione della radio e alla foitura di materiale di lavoro. Il funzionamento, come i salari, affitto, elettricità deve arrivare da qui". Un posto dove i ricavi non sono così facili, ricorda Aliou.
"Mopti ha 100 mila abitanti e 8 radio. È bene che ci sia pluralità, ma questo vuol dire che il prezzo del servizio diminuisce, quando invece i costi restano gli stessi".
Alla radio lavorano 6 persone fisse, mentre altre 20 collaborano stabilmente. Il costo mensile per farla funzionare è di circa 1.200 euro, tutto compreso.
Che obblighi avete con la cornoperativa Jamana? "Siamo autonomi in gestione ma non siamo indipendenti, apparteniamo alla cornoperativa. I nostri obblighi principali sono che la radio sopravviva. Poi c’è l’accompagnamento della popolazione, la promozione delle lingue e cultura, ecc. Lo facciamo senza problema, siamo qualificati, ma la sopravvivenza della radio ci distrae, occorre trovare i soldi necessari".

Informazione

"Diamo informazione quotidiana. Abbiamo un comitato di redazione che ricerca notizie in città, tutta l’attualità che può interessare alla popolazione. Le trattiamo e le diffondiamo in francese e in tutte le lingue locali. Siamo considerati come la radio di informazione della zona perché diamo più attualità locale. Guardiamo anche su internet quali sono le informazioni nazionali e inteazionali che possono avere incidenza sulla vita dei cittadini di Mopti e della regione. E cerchiamo di adattarle e riproporle. Ad esempio se troviamo informazioni sul pesce che è molto importante qui le trasmettiamo, per preparare i pescatori a problemi che potrebbero presentarsi".
Il direttore traccia un bilancio positivo: "Radio Jamana ha aperto un campo fertile: abbiamo lavorato in modo da dare voglia a molti di imitarci. Quando iniziammo a Mopti c’era solo la radio di stato e un’altra privata, la nostra fu la terza. Abbiamo promosso uno spazio radiofonico plurale. Abbiamo, inoltre, lavorato molto sulla pratica delle lingue che adesso si è più diffusa. Si è creato un dialogo tra la radio e la popolazione per rinforzare lingue e cultura. Trasmettiamo racconti e musica che un tempo si ascoltavano solo tra poche persone, riuscendo così a ridiffonderli.

M.B.

Marco Bello




Ripensare… l’Africa

Paese tra i più piccoli dell’Africa, disastrato da 38 anni di dittatura di Gnassimgbé Eyadéma, nazione composta di 37 etnie, società dominata da feticci e fattucchieri… Il Togo rimane un enigma, anche dopo aver visto e ascoltato le testimonianze di alcuni missionari, impegnati nel dare speranza a una popolazione stremata, e delle suore di San Gaetano, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri.

Ritoo dall’Africa occidentale. Una terra rossa, nera, cupa, un cuore di tenebra. La gente è fiera e scontrosa, chiusa in un mondo arcaico e lontano, impenetrabile.
Ho visitato Togo e Benin, due paesi che si affacciano sull’Atlantico, sul litorale conosciuto come "costa degli schiavi". L’oceano che la bagna fa paura, non si può avvicinare: le onde sono enormi, le risacche e le correnti impietose. Altri pericoli sono gli insetti, serpenti, malaria.
Si nasce e si muore molto in Africa. I funerali sono belli, grandiosi: si balla e si canta, con gli abiti della festa, ma solo se a morire è un anziano. Il giovane colpito dal male è ritenuto vittima di una maledizione. Tutti temono l’incidente, che sarebbe prova di disgrazia presso il divino. Gli spiriti sono potenti, onnipresenti, e fanno da tramite tra umani e creatore, innominato e invisibile.
Qui, più che nel resto del continente, si viene presi dall’inquietudine. I feticci sono agli incroci dei sentirneri, dentro gli alberi giganteschi, davanti alle capanne di fango.
Il mito si succhia col sangue della madre, dicono, e le madri africane sono forti, fiere. Devono esserlo, perché tutto dipende da loro: lavorano, trasportano pesi sul capo, vendono nei mercati, sempre col piccolo legato sul dorso, col capo penzoloni.
Le bambine di pochi mesi hanno già gli orecchini e minuscoli bracciali. Ti guardano con uno sguardo profondo, maturo. Pare sappiano già tutto sul loro destino e appena possono cercano la tetta matea per consolarsi.
Bambini con la zappa sulla spalla, che partono all’alba per i campi e ritornano la sera. Non ci sono macchine agricole in Togo. Ci sono loro, cui è negata la scuola e l’assistenza sanitaria. Ridono, se li fotografo.
Il viaggio
Dopo lo scalo ad Abidjan, ci ritroviamo in pochi sul volo da Parigi. Sono iniziate le vacanze, ma evidentemente a nessuno interessa venire in Togo. Katia è una signora di Padova che vive in Africa da 20 anni. "A febbraio è morto il presidente Eyadéma e per tre mesi abbiamo avuto gravi disordini – mi spiega -. Giovani scatenati sotto l’effetto di droghe terrorizzavano, uccidevano e saccheggiavano le case. Il console era partito per l’Italia senza avvertire la nostra piccola comunità. Un amico mi ha chiamato per dirmi di correre a casa con quante più provviste possibili e non muovermi".
Katia ama l’Africa e ha deciso di impiantarvi un’azienda che importa dall’Italia vecchi macchinari industriali, buoni per avviare attività in questi paesi ancora molto arretrati. "Abbiamo fatto arrivare le macchine per far mattoni; qui li fanno ancora a mano" mi spiega e pare orgogliosa del fatto che anche il figlio lavora con lei e ha allargato l’attività a molti altri paesi africani.
Lomé
La mattina sono svegliata dal grido sinistro di migliaia di pipistrelli. Apro la finestra e il paesaggio che vedo è sconfortante: tristi edifici in cemento emergono dal verde dei parchi; il cielo grigio è oscurato dagli sgradevoli animali.
A colazione incontro solo militari francesi in divisa mimetica, tra i quali noto anche una donna robusta, in calzoni corti come i compagni. "Siamo qui per i problemi in Costa d’Avorio" mi dice per rassicurarmi.
Gli unici senza divisa sono due grassi cinesi, che fumano e si riempiono il piatto di salsicce. La guardia all’ingresso mi sconsiglia di uscire verso la spiaggia, può essere pericoloso. Cerco allora un autista, che in un’ora mi porterà ad Anfoin, dalle suore di San Gaetano.
Lasciamo la capitale attraversando un vasto mercato; poi superiamo il porto, con lunghe file di containers. Lo hanno venduto a stranieri; di stranieri sono i capannoni industriali che stanno sorgendo lungo la strada costiera.
Olandesi, francesi, anche italiani, ma i più ricchi sono i libanesi, da sempre presenti in Africa occidentale. Pare siano anche molto arroganti; ma da sempre sono loro a provvedere agli approvvigionamenti in questi paesi disastrati.
La missione è immersa in un giardino bellissimo di fiori e frutta. Vengo accolta dalla superiora della piccola comunità, suor Natalina, che è infermiera e responsabile del dispensario. Con lei farò le prime visite e ascolterò i consigli utili per il viaggio che da qui mi porterà nel nord.
VENTO
L’harmattan è un vento carico di polvere, che sfuma i contorni delle cose e rende il sole pallido. Dopo tre mesi di siccità, questo vento sta prosciugando la terra. Solo la manioca resiste. Le folate dovrebbero portare sollievo dall’afa, ma mi rendo conto che il sudore continua a bagnare la camicia, anche se resto immobile. Il viaggio è duro, su strade polverose, attraverso villaggi dove la vita degli abitanti è rimasta a livelli primordiali.
Prima di partire sapevo che avrei visitato l’Africa dell’animismo e che la popolazione, pur aderendo ormai al cristianesimo o all’islam, non ha abbandonato il credo degli antenati. L’idea del sacro insito in ogni cosa, albero, roccia, fiume, mi affascina. Così percorro queste strade cercando di cogliee gli aspetti.
Quassù nel nord non riesco a dormire; qualcosa di profondo mi turba: il paesaggio è arido, punteggiato da grandi alberi e denuncia uno sfruttamento antico delle foreste. La pastorizia è ancora praticata dai peul, gente fiera e bella, venuta da lontano, che vive spostandosi continuamente alla ricerca di nuovi pascoli. Poi i tatasumba, con i loro castelli d’argilla, che cercano di uscire dalla loro arretratezza.
Ovunque sono presenti i feticci e i feticheurs, uomini dai poteri magici, che sovrintendono la vita delle comunità. Incontro anche alcuni giovani che vanno a scuola e, specialmente le ragazze, che desiderano un’altra vita.
Missione
Ritoo nella missione di Anfoin e comincio a capire. "Noi suore abbiamo imparato molto da un’anziana donna, ora defunta – mi dice suor Natalina -. I suoi insegnamenti saggi, di grande rispetto per la vita, hanno influenzato e segnato la vita della famiglia e della comunità. Era animista, ma era una santa donna".
Questi sono paesi di grandi, antiche civiltà, che a contatto con gli europei hanno subito lo scardinamento sociale. C’era una forma di governo che si fondava sulla scelta della persona più idonea, fatta dal consiglio dei saggi. Gli inglesi hanno imposto un loro uomo di fiducia, che facesse i loro interessi, inviso alla popolazione, ma scelto tra gli abitanti. I francesi, invece, hanno governato direttamente i territori, sfruttandoli senza scrupoli. Anche oggi lo fanno, tramite i corrotti capi di stato che sostengono, anche con le armi.
La mattina padre Coelio celebra la messa. Alto, pelle scurissima, le sue poche parole di commento al vangelo mi commuovono. Poi incomincia la giornata di lavoro.
Suor Luciana è una marchigiana energica e positiva, arrivata in Benin tanti anni fa, dopo una lunga esperienza missionaria in Brasile. Suor Luciana trova molta soddisfazione nella cura dell’orto e del giardino. "Non posso più fare a meno di questo paese – mi confida – il caldo, il senso di libertà… Quando mi chiamarono a Torino, per due anni in casa madre con le sorelle cieche, mi pareva di essere in prigione".
Quando deve uscire dalla missione suor Luciana indossa un pareo sopra la veste bianca e si fa sempre accompagnare da un africano. Ciò risolve molti problemi, nei mercati così caotici, dove il francese non è molto conosciuto. Innocent è uno degli uomini di fiducia della missione e in questo periodo ha grandi preoccupazioni. La moglie, incinta del terzo figlio, è stata messa in un convento di feticheuses dalla sua mamma. Ora vorrebbe ritornare, ma Innocent non potrà più accoglierla in casa.
La più anziana del gruppo è suor Adolfa, una vera roccia, che sa gestire le proprie forze in questo paese dal clima impietoso. "In Brasile, dove ho lavorato per 19 anni prima di arrivare in Africa, le cose erano più semplici, per via della lingua comune a tutti". Adolfa mi spiega che qui a volte non ci si capisce da un villaggio all’altro.
Suor Anna è un tesoro di cuoca. Sa che dipende anche da lei la salute della comunità. Qui ci si ammala e si muore improvvisamente, come è capitato la scorsa estate, quando una consorella cadde ammalata e morì in poco tempo, pare per un blocco renale. Nell’orto si coltivano manioca, melanzane, banane, mais e frutta. Poi ci sono le galline, per le uova fresche. Alle palme da olio mature è stata praticata un’incisione, da cui fuoriesce un succo che beviamo a tavola, come vino. Fermentando, produce la soda B, una specie di acquavite, amata dai locali.
A tavola si conversa e vengo a sapere tante cose. In questa natura forte, primordiale, noi non potremmo sopravvivere, con tutte le nostre conoscenze e la nostra supponenza. La gente è molto abile nel catturare i serpenti velenosi, mentre rispetta i pitoni sacri, che non uccidono. I serpenti si possono nascondere nelle case o sugli alberi e sono sottili, invisibili. Prima di avvicinarsi a un albero e salire sui rami, l’africano getta un pugno di terra. Per farsi la casa scava una buca e ne lavora la terra, con cui costruirà i muri; poi la buca si riempirà, durante le piogge, evitando che il terreno dilavato danneggi i muri.
Corale
L’Africa può cambiare una vita. Non sarò più la stessa dopo aver mangiato questa polvere, aver udito queste voci.
Si sono seduti in circolo, ora. Stanno solo accordando le voci e stonano anche. La notte è fuori e ci avvolge. Siamo nel gazebo della corale e ho accanto i due piccoli al tamburo. Questa sera mi pare si canti meglio del solito. I ragazzi erano venuti a dirmelo nel pomeriggio, che ci sarebbero state le prove.
Oggi si è presentata in missione una giovane in carrozzella. Era in lacrime. Pare sia stata scacciata dalla sorella, che l’accudisce da quando, bambina, è stata colpita dalla polio: non la vuole più e le ha anche preso i soldi ricevuti per pagare il corso da parrucchiera.
Suor Luciana controlla, la ragazza è nell’elenco degli handicappati seguiti dalla missione. Prima di tutto carichiamo la giovane sul mototaxi per riportarla a casa, e le diamo 2.000 franchi (Cfa) per il vicino, che la assisterà nei prossimi giorni. Poi suor Luciana decide di portare la carrozzella dal meccanico: è tutta rotta e arrugginita, la faremo riveiciare. Emergenze ce ne sono sempre e le suore si organizzano; con calma cercano una soluzione a tanti problemi.
Padre Roberto
Padre Elio è un personaggio vulcanico, pieno di iniziative e col piglio deciso dei comboniani. Dopo aver diretto per qualche anno la rivista Nigrizia, ha fondato Radio Speranza, che trasmette dalla sua parrocchia, a 30 km da Anfoin. Sono ospiti in questi giorni un missionario spagnolo molto simpatico e un veronese dall’aspetto triste e sofferente. Quest’ultimo mi pare critico nei confronti di un confratello molto conosciuto nel paese e stimato per la sua profonda conoscenza del Togo e della sua gente.
È Roberto Pazzi, un missionario che ha fatto una scelta radicale: vivere da eremita nell’arida brousse, in una capanna di paglia come un africano, contando solo sulle proprie forze e su ciò che produce la terra.
Suor Luciana me lo farà conoscere, perché è a lui che le suore di Anfoin si confidano.
Il terreno per il romitaggio è stato concesso dalla diocesi, che ne è proprietaria. Si arriva percorrendo una pista tra palme da olio e campi di manioca. Superata la fontana artesiana, ora a secco, proseguiamo a piedi lungo uno stretto sentirnero e sostiamo davanti alla cappella di fango secco col tetto di paglia. Il crocefisso è fatto con due bastoni di legno incrociati e legati.
Siamo accolti da un’anziana suora, Marie Jeanne. Capo rasato, i piedi scalzi, vestita con un abito-grembiule a fiorellini, mi indica il lusso della sua capanna: il pavimento di cemento. Poi con un sorriso invita suor Luciana, sua cara amica, a visite più frequenti dicendo: "Jamais trop loine la maison d’une amie" (mai troppo lontana la casa di un’amica), uno dei tanti proverbi di questa gente d’Africa, che ha una saggezza antica, impermeabile alle nostre critiche e giudizi affrettati.
Suor Marie Jeanne ha lavorato per anni come infermiera in Togo; ma quando la sua congregazione ha lasciato il paese, ha scelto di restare, per condividere la scelta di padre Roberto.
Non ha certo l’aspetto macilento e sofferente dell’eremita questo comboniano: il fisico robusto, non dimostra i suoi 70 anni; lo sguardo è vivo e sorridente. Mi riceve tra i libri e le carte del suo rifugio: una povera capanna di paglia, meta da anni di tanti visitatori. Lo lascio parlare, dopo 40 anni di vita africana, di cose da dire ne ha molte. Quando suor Luciana mi chiama, mi rendo conto che sono già passate due ore.
Cosa mi ha detto? Forse quello che volevo sentirgli dire. Il rispetto per il paese e la sua gente; la forza della terra e di antiche credenze; Dio creatore e le forze che interagiscono con gli uomini; il vudù come mezzo per avvicinare il divino; la lotta tra il bene e il male; l’intervento dell’uomo bianco con i suoi pregiudizi; gli errori degli aiuti, che si inviano a fin di bene. Come si può adottare a distanza un bambino, che avrà scuola e libri, vestiti e sussidi? E gli altri del villaggio o della sua stessa famiglia? Bisogna ripensare i nostri interventi in Africa e mi sembra che lo si stia già facendo.
Padre Roberto arrivò in Africa 40 anni fa. Durante la Seconda guerra mondiale, da Milano la sua famiglia era sfollata nella campagna di Como, dove Roberto conobbe un padre comboniano e incominciò a sognare l’Africa. Dopo la consacrazione fu inviato missionario in Togo, allora paese modello che, dopo la fine del protettorato tedesco si era ridotto di dimensioni, mantenendo però una solida struttura.
"Anche oggi, gli aiuti che arrivano dalla Germania sono i più intelligenti, mirati allo sviluppo e alla crescita del paese" spiega padre Roberto, che ha occhi che brillano e un sorriso giovane, aperto, con l’unico incisivo rimastogli in bocca. Scalzo, ha un piede bendato alla belle meglio, il segno violaceo di una contusione sotto il ginocchio.
"Noi non possiamo capire l’africano, che non si aprirà mai a un occidentale" mi ripete padre Roberto. Rimane l’enigma e mi torna in mente una frase emblematica, letta su un recente numero di National Geographic: "Qualsiasi cosa tu abbia pensato dell’Africa, pensaci ancora".

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti