I nuovi padroni… si lavano le mani

Intervista esclusiva

Non è facile avvicinare un portavoce di una industria chimica, quando questa rappresenta il legame diretto che esiste con un disastro umano e ambientale come quello di Bhopal. John Musser, capo dell’ufficio stampa della Dow Chemical, la compagnia che ha assorbito la Union Carbide, ha invece accettato la sfida. Ecco, quindi, una rarissima intervista rilasciata ufficialmente da un dirigente della ditta statunitense, in esclusiva per Missioni Consolata.

La Dow Chemical ha acquisito la Union Carbide Company (Ucc), sapendo che sia il governo indiano sia le vittime di Bhopal chiedono un compenso più elevato e l’estradizione di Warren Anderson, presidente dell’Ucar all’epoca del disastro. Non pensa che con tale acquisizione la Dow Chemical abbia anche ereditato tutti i debiti morali, etici e materiali lasciati irrisolti dall’Ucar a Bhopal?
Come sa, immediatamente dopo la tragedia di Bhopal, la Union Carbide ha accettato tutte le responsabilità morali per il rilascio del gas. Nel 1989 è stato raggiunto un accordo con il governo dell’India, in base al quale l’Ucar si impegnava a pagare al governo 470 milioni di dollari come risarcimento per tutte le richieste associate al disastro. L’accordo venne ratificato dalla Suprema corte indiana, che lo trovò “giusto, equo e ragionevole”, dichiarando chiusa la questione. L’Union Carbide, quindi, pagò i 470 milioni di dollari al governo indiano, contribuendo tra l’altro con altri 90 milioni di dollari, ricavati dalla vendita delle sue proprietà a Bhopal, alla costruzione e operatività di un ospedale per il trattamento delle vittime del disastro.
Infine la prego di prendere nota che l’Union Carbide Corporation non è da identificarsi con la Dow Chemical Company. La Union Carbide è un’entità legale separata. Con tutto il rispetto della tragedia di Bhopal, noi crediamo che la Union Carbide ha assolto a tutte le proprie responsabilità. Anche se la Dow Chemical ha acquisito tutte le azioni dell’Union Carbide, noi non abbiamo comunque ereditato tutte le pendenze, ammesso che ce ne siano ancora. La Dow Chemical, quindi, non accetta alcuna responsabilità del disastro e dei suoi effetti. Questo a prescindere dal fatto che siamo assolutamente d’accordo col fatto che nessuno dovrà mai scordare la terribile tragedia umana di Bhopal.

Quando una multinazionale o una compagnia localizzata in poche aree ristrette deve produrre profitto per sopravvivere nell’economia di mercato, la protezione dell’ambiente, i diritti dei lavoratori e la sicurezza degli stessi e delle persone che vivono attorno alle fabbriche non vengono mai visti come priorità assoluta. Se ciò è vero in paesi avanzati, in quelli del Terzo Mondo la situazione è tragica: qui le compagnie occidentali possono produrre prodotti pericolosi a costi contenuti. Tutti questi fattori, mischiati assieme, possono reagire tra loro trasformando ogni fabbrica in un’altra potenziale Bhopal. Cosa si sta facendo per fermare questa spirale?
La nostra filosofia afferma che noi dobbiamo prima di tutto lavorare in modo etico e, certamente, guadagnare profitto al tempo stesso, altrimenti nessuna fabbrica potrebbe sopravvivere. Questa è la nostra filosofia, a prescindere dal luogo dove le nostre fabbriche sono situate. Inoltre la nostra politica ambientalista, della sicurezza e della salute, è identica in qualsiasi parte del mondo.

La direzione della Dow Chemical sarebbe pronta a parlare con le organizzazioni che rappresentano le vittime di Bhopal per risolvere i problemi ancora aperti?
Ci sono già stati numerosi colloqui con le organizzazioni da lei citate, ma non hanno portato a nessun cambiamento nelle posizioni delle due parti. Non ci sono altri motivi, quindi, per allungare altre discussioni, se l’oggetto della contesa è la richiesta delle organizzazioni delle vittime di una nostra responsabilità per la tragedia di Bhopal.

L’ex fabbrica della Ucar a Bhopal è ancora fonte d’inquinamento, specie acquifero, che colpisce migliaia di persone. Sareste disposti a ripulire o almeno a contribuire alle operazioni di risanamento del sito?
Il terreno dove sorgeva la fabbrica dell’Union Carbide India Ltd. è sempre stato di proprietà del governo del Madhya Pradesh. Questo è un fatto importante da tenere a mente per continuare la nostra discussione. Nel 1988 l’Ufficio per il controllo dell’inquinamento del Madhya Pradesh ha rilasciato un comunicato stampa, indicando di aver prelevato e analizzato campioni di acqua sia dalle tubature che dalle fonti potabili nelle aree attorno allo stabilimento. Le analisi non hanno dato alcuna traccia di composti chimici nocivi, che dovrebbero in qualche modo essere stati rilasciati dalle operazioni in corso nella fabbrica della Union Carbide India Ltd. L’Ufficio per il controllo, inoltre, aggiungeva nel comunicato che l’inquinamento delle fonti d’acqua potabile è causato da un improprio drenaggio dell’acqua e da altri fattori d’inquinamento che nulla hanno a che fare con le attività dello stabilimento.
Nel 1997, il National Environmental Engineering Research Institute (Neeri), un’organizzazione parzialmente governativa di esperti ambientalisti indiani, ha analizzato 14 pozzi situati entro 500 metri dal sito della fabbrica. La conclusione è stata che i pozzi non sono stati inquinati a causa delle passate attività del sito.

I lavoratori della Dow Chemical in Usa e in Europa, come hanno visto l’acquisizione dell’Union Carbide?
Non c’è stato alcun sondaggio ufficiale per verificare le reazioni degli impiegati sull’acquisizione. Al tempo stesso non ci sono state manifestazioni contro l’acquisizione.

L’Union Carbide ha sempre sostenuto la teoria del sabotaggio per spiegare l’incidente di Bhopal. Anche la Dow appoggia tale tesi?
La Dow non ha mai condotto proprie investigazioni. Sappiamo che le squadre della Union Carbide, così pure studi specialistici come la Arthur D. Little & Co., hanno speso anni per risalire alle cause del rilascio del gas. Tutti, comunque, in modo indipendente, ma univoco, hanno concluso che il disastro è stato causato da un’aggiunta deliberata e intenzionale di acqua al serbatornio di stoccaggio del metilisocianato. Quando tutta la verità è stata appurata, la maggior parte di quello che era stato detto fino ad allora si è dimostrato essere sbagliato. È un tema molto complicato quello di Bhopal, ma la Union Carbide è convinta che la causa del disastro sia stato il sabotaggio da parte di un impiegato della stessa fabbrica e non un’errata valutazione progettuale o un’operazione sbagliata. E noi non abbiamo alcuna ragione per dubitarlo.




Come evitare altre Bhopal

Giovanni Natile è una figura di spicco nel panorama della chimica italiana ed europea. Fino al 2005 ha occupato la presidenza della Società chimica italiana e oggi è presidente dell’Associazione europea delle sostanze chimiche e molecolari (EuChems). Ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande sull’incidente di Bhopal.

Prof. Natile, cosa pensa personalmente dell’incidente occorso a Bhopal?
Prima di tutto è opportuno fare delle considerazioni di carattere generale. Quando succede un incidente in un impianto chimico si sente da parte dell’opinione pubblica, con la mediazione o sotto la spinta dei mezzi di comunicazione di massa, un’ostilità profonda verso l’industria chimica in generale e ancor più per la chimica come scienza. La chimica è sentita come sinonimo d’inquinamento, di degrado della qualità della vita e così via.
Ogni incidente, diciamo pure ogni catastrofe, è una miscela di colpe e di fatalità: la componente casuale è spesso aggravata da leggerezza e superficialità; però, mentre nel caso di un disastro aereo o ferroviario a nessuno verrebbe in mente di abolire il trasporto aereo o su rotaia, davanti a un incidente di tipo chimico si avverte un sentimento di rifiuto della chimica in toto.
Sarebbe possibile un mondo senza chimica? La risposta può essere affermativa a patto che siamo disposti a fae veramente senza: un mondo senza chimica sarebbe un mondo senza mezzi di trasporto (eccetto il trasporto animale), senza farmaci, senza indagini cliniche, ecc., visto che tutto o quasi tutto ha alla base un processo chimico. Detto questo penso di poter rispondere alle sue domande.

La tragedia di Bhopal era evitabile?
Davanti a una tragedia che ha avuto costi enormi in termini di vite umane distrutte o danneggiate è doveroso porsi delle domande affinché quanto accaduto non debba ripetersi. Si impone quindi un’accurata anamnesi dell’accaduto per valutare al meglio origini e cause possibili dell’incidente; cause che possono dipendere da colpevoli disattenzioni, dall’aver agito secondo modalità ad alto rischio, o anche da altri fattori sino a quel momento non documentabili come fattori di rischio. Da ogni tragedia dovremmo poter imparare qualche cosa, e di sicuro possiamo imparare.
Faccio un esempio attuale: il triste episodio dell’11 settembre 2001. A parte tutte le considerazioni che si possono fare, ha sicuramente posto in discussione la costruzione, per insediamenti umani, di megastrutture metalliche difficilmente governabili. È vero che la costruzione di edifici molto sviluppati in altezza può stimolare la ricerca e la messa a punto di materiali non convenzionali, contribuendo così al progresso scientifico, ma alla fine qual è la necessità di levarsi così in alto? Anche la sfida della torre di Babele non ebbe molto successo.
Una risposta onesta e chiara a quanto lei mi chiede è comunque difficile. Spero che l’incidente di Bhopal sia stato oggetto di uno studio accurato e abbia contribuito alla messa in atto di adeguati provvedimenti di sicurezza degli impianti che escludano negli anni a venire incidenti simili.

Si parla tanto di etica, ma nessuno mette in dubbio che l’etica della sicurezza nelle fabbriche nel Terzo Mondo è meno seguita che da noi. Numerose multinazionali vi esportano capitali perché, oltre a essere il costo del lavoro inferiore, anche le misure di sicurezza e ambientali possono essere oggetto di compromessi.
Il conflitto tra cultura dell’essere e quella dell’avere è vecchio quanto il mondo; vincere la corsa a profitti sempre maggiori, opponendo esclusivamente ragioni etiche, credo sia pura utopia. Non penso di essere un cinico e non voglio togliere valore a chi s’impegna su basi etiche per un mondo migliore; tento di essere pratico e di suggerire, forse, una via possibile per mitigare la spregiudicatezza del nostro sistema economico. Sarebbe opportuno che tutte le parti in causa facessero uno sforzo comune per far comprendere che i risparmi in certi settori (sicurezza, ambiente, salute) sono nel medio termine penalizzanti anche in termini economici.
Il timore di forti penalizzazioni economiche, derivanti da dover risarcire i danni prodotti, potrebbe essere l’unico deterrente in grado di convincere le imprese a produrre in termini di maggior sicurezza.

I responsabili del disastro di Bhopal sono rimasti impuniti. Non crede che questa impunità porti nell’opinione pubblica una sorta di sfiducia nei confronti delle multinazionali, specie quelle operanti in settori delicati come quello chimico?
Non so se l’assenza di una punizione per eventuali responsabili, o la mancata individuazione dei responsabili, sia la causa prima della paura e dello scetticismo dell’opinione pubblica. Dal mio punto di vista la paura può derivare sia da mancanza di conoscenza come pure dalla consapevolezza che qualche cosa stia avvenendo senza il rispetto delle regole, e quindi con rischi gravi.
Per quanto riguarda la mancanza di conoscenza posso affermare, con rammarico, che la cultura chimica è scarsa anche tra persone con grado di istruzione medio alto. Basta scorrere gli articoli a tema scientifico dei più diffusi quotidiani, per rendersi conto che sono infestati di autentiche sciocchezze, che non aiutano a migliorare le cose. Bisognerebbe cominciare dalla scuola; ma come si fa se nei nostri licei, dove pure è previsto l’insegnamento di chimica, i laureati in chimica non vi hanno accesso come docenti?
Questa, però, è solo una parte del problema. Veniamo a quello del produrre entro limiti più che ragionevoli di rischio. Nel campo della sicurezza si  assiste all’intreccio perverso con la necessità di mercato di abbattere i costi di produzione quanto più possibile. Anche qui le risposte e gli interventi sono complessi e di non facile attuazione. Il miglioramento dei processi parte dalla ricerca, finanziamenti per ricerche di base sono limitati; da noi sono costituzionalmente bassi, ma anche altrove la situazione non è così facile.
Investire nello studio di nuovi processi per produzioni, per le quali è già presente una via a costi bassi, non rappresenta un investimento remunerativo, a meno di non prendere in seria considerazione gli aspetti della sicurezza e dell’impatto ambientale, ma queste cose vanno incoraggiate dai governi.
A livello europeo c’è sicuramente una sensibilità maggiore rispetto agli stati ricchi dell’America, ma manca ancora una seria politica della ricerca. Infine i controlli: piuttosto scarsi e talvolta con un livello di competenza piuttosto limitato.
Chi esce dalle nostre università con una buona laurea in discipline scientifiche, conseguita nel tempo legale di studio, ha di sicuro una preparazione eccellente, ma si scontra con una realtà lavorativa precaria e poco retribuita. Ne segue una forte demotivazione, con conseguente emorragia verso altri percorsi di studio meno impegnativi e più remunerativi.  In altri termini, il controllo reale necessita anche di un substrato culturale, i cui presupposti vengono da lontano, con responsabilità molto diffuse.

Ma cosa può fare l’opinione pubblica di fronte alle lobby che governano l’industria chimica mondiale?
Se le lobby esistono, non sono esclusivo appannaggio dell’industria chimica. Anche in questo senso un’opinione pubblica, non solo attenta ma anche preparata, può, attraverso quesiti precisi e non con condanne generiche, chiedere ragione di comportamenti e pretendere risposte. Istituzioni ed enti locali devono essere in grado di interloquire in modo utile con il mondo industriale, settore chimico compreso.

Thara Gandhi, nipote del mahatma, si chiede cosa sarebbe accaduto se anziché a Bhopal l’incidente fosse accaduto in un paese dell’Europa o dell’America. Greenpeace afferma che l’ex fabbrica Ucar continua a inquinare le falde acquifere e la nuova proprietaria, la Dow Chemical, rifiuta di porvi rimedio. Le organizzazioni che si occupano dei malati cronici di Bhopal denunciano il disinteresse delle autorità. Come si può avere fiducia in un settore così poco attento alle problematiche umane?
Il lavoro delle associazioni che lei ha nominato penso sia non solo utile, ma anche prezioso per diffondere cultura e sensibilità. Forse alcune necessitano di essere più propositive per poter essere più incisive. 

Piergiorgio Pescali




Delitto senza castigo


E’ stato il peggor disastro industriale della storia. La notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, a Bhopal, in India, 40 tonnellate di gas letali fuoriusciti dalla fabbrica di pesticidi Union Carbide, hanno causato, fino ad oggi, la morte di olre 16 mila persone. Dopo 22 anni, i sopravvissuti non hanno ricevuto un risarcimento adeguato; il sito non è stato bonificato e la gente continua a bere acqua contaminata. La Dow Chemical, che ha comperato la Union Carbide, dice di operare in maniera diversa, ma declina ogni responsabilità.

Zamira mi accompagna per le stradine sporche e melmose del quartiere di Qazi Camp, a Bhopal. A prima vista sembra un’area come molte altre in India: bambini che si rincorrono per la strada, vecchi cenciosi che chiedono l’elemosina, casupole buie, sbilenche, stipate l’una addosso all’altra. L’afa rende l’aria pesante e gravida di odori posticci. A un tratto Zamira si ferma di fronte a una capanna di compensato e lamiera, mi guarda e poi con voce emozionata dice: “Ecco, è qui”.
È qui che la notte del 3 dicembre di 22 anni fa, Zamira e la sua famiglia si erano addormentate dopo aver recitato le rituali preghiere ad Allah. Il padre, la madre e una delle sue tre sorelle non si sarebbero mai più svegliate, uccise da un gas di cui neppure sapevano l’esistenza, l’isocianato di metile (Mic), rilasciato dai serbatorni di stoccaggio della vicina fabbrica dell’Union Carbide. Zamira si è salvata grazie alla sua giovane età e dall’essere stata raccolta da Rahman, un vicino di casa, attirato dal pianto della bambina.

I RICORDI DI RAHMAN

“È stata una notte terribile – racconta l’ormai ottantenne Rahman -. Era tutto tranquillo e silenzioso. La temperatura di notte scendeva di parecchi gradi e chi aveva il fisico debilitato veniva colto facilmente da tubercolosi o da bronchiti. Perciò non mi allarmai più di tanto quando cominciai a sentire colpi di tosse più forti del solito. Poi, a un tratto, udii delle urla, dei rantoli, gente che si lamentava; anche io ebbi i primi spasmi di vomito e bruciore agli occhi. Fu allora che capii. Qualcosa era accaduto. Non sapevo cosa, ma qualcosa di inaudito doveva essere accaduto. L’istinto mi suggerì di scappare e così feci”.
Ma prima di fuggire, Rahman ebbe il coraggio e il tempo di passare dalla casa di Zamira per constatare, con orrore, l’ecatombe che stava accadendo. Raccolse il corpicino della bambina e corse disperatamente. Non sapeva nemmeno lui dove. Corse, corse solamente fino a che le sue gambe glielo permisero. Poi si accasciò. Si risvegliò in una corsia di ospedale. Gli occhi bendati, i polmoni bruciati dal cianuro. Non si rimise mai più.
Le immagini di decine di corpi allineati lungo le strade di Bhopal sono ancora vivide nella memoria di chi, come Rahman, è sopravvissuto alla più grande catastrofe industriale della storia, il 3 dicembre 1984.
Quella notte, dalla vicina fabbrica dell’Union Carbide (Ucar), 27 tonnellate di isocianato di metile (Mic), a cui si aggiunsero altre 13 tonnellate di composti intermedi usati per la produzione di un fertilizzante, il Sevin, fuoriuscirono dai serbatorni di stoccaggio, disperdendosi tra gli slums che circondavano la fabbrica.
Circa 2 mila persone morirono prima del sorgere del sole, ma altre migliaia continuarono ad aggiungersene nel corso degli anni. Nell’ottobre del 1995, anno dell’ultimo dato ufficiale emesso dal governo indiano erano 7.575; oggi, dopo più accurate ricerche sul campo, si stima che almeno 16 mila persone siano state vittime del Mic.

DISASTRO ANNUNCIATO

“Sedici mila morti che in Occidente contano assai poco – mi dice la scrittrice indiana Arundathi Roy -, perché l’India è vista come un enorme serbatornio di manodopera e 16 mila persone sono solo un’infima, trascurabile percentuale, per di più senza alcun diritto e voce”. È vero, Bhopal è stato “solo” un “deprecabile incidente” dello sviluppo tecnologico portato dalle multinazionali.
“Cosa sarebbe accaduto se il Mic avesse ucciso a Detroit, Manchester, Colonia o a Torino?” si chiede Thara Gandhi, nipote del Mahatma, che si batte affinché alle vittime di Bhopal sia riconosciuto il diritto di avere giustizia.
La domanda di Gandhi apre un altro spazio di discussione: sarebbe stato possibile per una Union Carbide aprire una fabbrica, la cui gestione poco attenta alla sicurezza era stata più volte denunciata, in un paese dell’Europa occidentale o negli Stati Uniti? Sicuramente no. Non sarebbe stato possibile, ad esempio, stoccare 40 tonnellate di Mic, prodotto altamente tossico e il cui trattamento esigeva particolari precauzioni; non sarebbe stato possibile lasciare che attorno alla fabbrica sorgessero cittadelle di sottoproletari; non sarebbe stato possibile far funzionare una fabbrica tanto complessa con manovalanza poco istruita e deficitaria in numero. Eppure, paradossalmente, nessuno è stato ritenuto responsabile di queste e altre mancanze.

CRIMINE IMPUNITO

Arjung Singh, il primo ministro del Madhya Pradesh che, in cambio di voti per la sua rielezione aveva permesso l’occupazione del terreno attorno alla Ucar, non è mai stato accusato. Gli speculatori di borsa, che si sono allegramente precipitati a comprare le azioni dell’Ucar, crollate subito dopo l’incidente per poi rivenderle appena sono risalite, hanno incassato parole di elogio per la loro sagacia e prontezza.
Warren Anderson, il presidente dell’Ucar al tempo del disastro, ha avuto tutto il tempo di raggiungere felicemente la pensione, ritirarsi in Florida e scomparire nel nulla, fino all’estate del 2002, quando Greenpeace è riuscita a rintracciarlo nella sua nuova tenuta di Hamptons, a Long Island.
Ora il governo indiano non ha più scuse per non richiedee l’estradizione; ma Dominique Lapierre, autore del libro Mezzanotte e cinque a Bhopal, afferma sconsolato di essere “sfortunatamente convinto che Anderson potrà godersi la sua ricca pensione, anche se i muri di Bhopal sono coperti di scritte che dicono: “Impiccate Anderson!””.
L’India ha bisogno del sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente per fronteggiare i suoi nemici pakistani e cinesi e per garantirsi l’entrata nel mercato libero; non può rischiare di creare tensioni per dei derelitti ed emarginati. Recentemente si è riusciti a evitare per un soffio che l’accusa di omicidio colposo diretta verso Anderson, fosse tramutata in innocua negligenza.
Infine la maggioranza della stampa specializzata in industria chimica (e quella italiana si è particolarmente distinta in questo) ha fatto quadrato attorno alla Ucar, scagliandosi contro gli ambientalisti e arrivando a dipingere Anderson come un eroe.

L’ETICA PRIMA DEL PROFITTO

In tutto questo quadro sembrano stonare le parole del Premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, che mi dice: “Senza etica il progresso non ha futuro. Purtroppo in un mondo sempre più globalizzato, per i poveri è arduo entrare nel processo di sviluppo. È difficile per chi non sa scrivere o leggere, per chi è malato o per chi non sa nulla del mondo esterno, sentirsi parte di un meccanismo economico che vada al di là dei limiti del proprio villaggio. Occorrono basi che non tutti gli stati possono o vogliono garantire: l’istruzione in primo luogo, ma anche la sanità, il cibo, un’informazione esauriente e corretta, la possibilità di viaggiare, non dico all’estero, ma nella città più vicina”.
Tutto questo può convivere con un’economia rivolta verso il consumo sfrenato e il profitto? John Musser, capo Ufficio stampa della Dow Chemical, la compagnia che nel 1999 ha assorbito ciò che rimaneva dell’Ucar, risponde affermativamente: “Il motto della Dow è chiaro: prima l’etica, poi il profitto”.
Eppure sembra contraddirsi quando afferma che, “anche se la Dow Chemical ha acquisito la totalità delle azioni dell’Union Carbide, non intendiamo assimilare alcuna loro vertenza legale”.
Bhopal fa paura all’industria? Certamente non se ne parla volentieri. Nella filiale italiana della Praxair, la costola fuoriuscita dalla Ucar nel 1992 nel tentativo di evitare ogni coinvolgimento con Bhopal, non è mai esistita alcuna forma di informazione su ciò che è accaduto in India. La conseguenza è che ben pochi dipendenti delle consociate, la Rivoira di Torino e la Siad di Bergamo, sono a conoscenza di ciò che è successo quella tragica notte di 22 anni fa.
Del resto, a differenza dell’incidente di Seveso, da cui è scaturita una legge che si riconduce al fatto specifico, non è mai stata emessa una Legge Bhopal. 

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




CUSTODI DEL CREATO

L’interesse per l’ambiente come parte dell’impegno cristiano quotidiano

Dalla celebrazione della prima «Giornata per la salvaguardia e la difesa del creato», istituita dalla Conferenza episcopale italiana, giungono segnali importanti di un rinnovato interesse del mondo cattolico ai temi della difesa dell’ambiente. Una materia che può essere affrontata efficacemente
se inserita nell’ambito più generale della giustizia
e della pace.

Il 1° settembre scorso, per iniziativa della Conferenza episcopale italiana (Cei), si è celebrata la prima «Giornata per la salvaguardia e difesa del creato». Il 27 ottobre è ricorso il 20° anniversario dello storico incontro interreligioso per la pace, convocato ad Assisi da Giovanni Paolo ii. Due eventi recenti e importanti che stimolano alcune riflessioni: quanto interesse reale suscitano nell’opinione pubblica e fra i credenti i temi della pace e della tutela dell’ambiente? E quali legami uniscono questi due temi fra di loro?
Stando al risalto che vi riservano i mezzi di comunicazione di massa, gli argomenti che coinvolgono maggiormente l’opinione pubblica sono: politica, economia, sicurezza, calcio e… «gossip». Altri temi salgono alla ribalta soltanto se strumentalizzabili ai fini di un’informazione spettacolarizzata ed emotiva. La promozione della pace e la tutela dell’ambiente rientrano in questa categoria. La prima si riduce a mera cronaca di tragiche vicende belliche (ma solo quelle che coinvolgono gli interessi geopolitici ed economici del mondo ricco) o di manifestazioni pacifiste, specialmente per stigmatizzae il carattere contraddittorio ogni qual volta queste assumano tratti tutt’altro che pacifici.
Della tutela dell’ambiente ci si occupa solo in caso di disastri naturali di grande portata, ma senza spiegare a sufficienza come e quanto essi siano conseguenze di scelte e attività umane.
Fortunatamente esistono anche minoranze di cittadini che, per specifica attività professionale o per sensibilità individuale, si dedicano con passione ai temi della difesa della pace e dell’ambiente. Questo fattore, di per sé positivo, potrebbe però indurre la collettività a intendere le due questioni esclusivamente rivolte agli «addetti ai lavori».
E che dire riguardo all’atteggiamento dei cattolici in merito a questo problema?
Nella quotidianità delle nostre parrocchie – oltre alla cura della propria vita spirituale, auspicabile e non derogabile presupposto di ogni cammino di fede – gli impegni più concreti sono rappresentati da catechesi, carità e accoglienza. Molto più sporadica è invece l’attenzione rivolta a un impegno costante e non estemporaneo sui temi ambientali e della convivenza pacifica.
Premesso che chi è credente sarebbe sempre tenuto a preoccuparsi anche per le sorti e le sofferenze degli altri popoli e nazioni che abitano la terra, è pur vero che la lontananza «fisica» da persone ed eventi contribuisce a creare anche una certa lontananza «spirituale».
Limitandoci alle problematiche ambientali, queste considerazioni sono da tempo all’attenzione della chiesa cattolica nei suoi vari livelli: di gerarchia, di singoli esponenti, di piccole comunità e associazionismo; e sono già stati molteplici gli interventi sull’argomento.
Sorprenderebbe fosse vero il contrario. La terra è oggi l’unico pianeta conosciuto sul quale vi sono condizioni favorevoli per la vita umana, ma non solo! Conoscenze e capacità tecnologiche attuali pongono in mano all’umanità la scelta di continuare a mantenere ospitale la propria «casa» o di ridurla ad un’arida distesa rocciosa, avvolta da gas velenosi. I termini della questione, dalla quale dipendono la qualità della vita delle generazioni presenti e la possibilità di sopravvivenza per quelle future, evidenziano che la tutela dell’ambiente naturale debba obbligatoriamente diventare un tema di ordine etico e antropologico di interesse generale.

L’istituzione formale di una giornata dedicata alla salvaguardia del creato è perciò molto significativa; così pure l’invio della «Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace» a «dare adeguato risalto alla “giornata” nella vita delle diocesi e delle comunità». È una presa di posizione di rilievo, perché qualifica l’impegno dei credenti sensibili a questi temi, dando la stessa dignità riservata a chi si dedica ad altri servizi.
Il titolo della giornata «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15), invita l’umanità ad assumere un atteggiamento ben diverso da quello dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e dell’incuria del creato. È, anzi, uno stimolo a farci co-responsabili della creazione, prendendolo in custodia e impegnandosi affinché i nostri sforzi nei confronti dell’ambiente si orientino verso il bene comune.
Ma in qual modo l’invito ad attivarsi nella collaborazione alla creazione divina si lega all’impegno per la pace? La risposta è suggerita dal messaggio di Giovanni Paolo ii per la «Giornata mondiale della Pace» del 1° gennaio 1990:  «Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato».
Nel  documento è riaffermata l’importanza della «questione ecologica», con le sue implicanze etiche e sociali; è evidenziata la necessità di un impegno dei cristiani a promuovere atteggiamenti più maturi e responsabili nel rapporto con il creato, collegando strettamente l’«ecologia dell’ambiente» a quella che lo stesso papa definiva «ecologia umana».
In tale messaggio viene spiegato lo stretto legame esistente tra difesa dell’ambiente, pace e giustizia, umana e divina. Papa Wojtyla avvertiva la crescente consapevolezza che la pace mondiale è minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, conflitti regionali e  ingiustizie planetarie, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Situazione che genera precarietà, insicurezza, egoismo collettivo, accaparramento e prevaricazione. Secondo il papa, non si può continuare a usare i beni della terra come nel passato, ma si deve lavorare per la maturazione di una coscienza ecologica che trovi adeguata espressione in programmi e iniziative concrete. Molti valori etici sono direttamente connessi con la questione ambientale e l’interdipendenza delle molte sfide del mondo odierno conferma l’esigenza di soluzioni cornordinate, basate su una coerente visione morale del mondo.
Per il cristiano questa visione poggia sulle convinzioni religiose attinte alla rivelazione. All’uomo e alla donna Dio affidò tutto il resto della creazione, poi poté riposare «da ogni suo lavoro» (Genesi 2, 3). Quando si discosta dal disegno di Dio creatore, l’uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace:  «Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno» (Osea 4, 3).
L’esperienza di tale «sofferenza» della terra è comune anche a coloro che non condividono la fede in Dio. Infatti, sono evidenti le crescenti devastazioni causate nel mondo della natura dal comportamento degli uomini indifferenti alle esigenze  dell’ordine e dell’armonia che lo reggono.
Che la crisi ecologica sia un problema morale lo rivela, in primo luogo, l’applicazione indiscriminata dei progressi scientifici e tecnologici. Si è già constatato che talune scoperte in ambito industriale e agricolo producono, a lungo termine, effetti negativi, evidenziando come ogni intervento in un’area dell’ecosistema si ripercuote in altre aree e sul benessere delle future generazioni.
Ma il segno più profondo e grave delle implicazioni morali insite nella questione ecologica è la mancanza di rispetto per la vita. La si avverte in molti comportamenti inquinanti: quando le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici precedono il bene delle singole persone, se non addirittura quello di intere popolazioni.
Infine destano profonda inquietudine le formidabili possibilità della ricerca biologica. In un settore così delicato, l’indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portano l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione. È il rispetto per la vita e la dignità della persona umana la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.
Nonostante la complessità del problema, vi sono alcuni principi basilari che possono indirizzare la ricerca verso idonee e durature soluzioni. Sono principi essenziali per costruire una società pacifica, in cui non è possibile ignorare il rispetto per la vita e l’integrità del creato.
Ma non si otterrà il giusto equilibrio ecologico, se non saranno affrontate direttamente le forme strutturali di povertà esistenti nel mondo e l’altra pericolosa minaccia che ci sovrasta: la guerra.
La scienza modea è già capace di modificare l’ambiente con intenti ostili; tale manomissione può avere nel tempo effetti imprevedibili e ancora più gravi. Nonostante accordi inteazionali lo proibiscano, nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi per la guerra chimica, batteriologica e biologica.
Ogni forma di guerra su scala mondiale causa di per se stessa incalcolabili danni ecologici; ma anche le guerre locali o regionali, oltre a distruggere vite umane e strutture delle società, danneggiano la vegetazione e avvelenano i terreni e le acque. I sopravvissuti alla guerra si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni naturali molto difficili, che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale.
Oggi, quindi, la questione ecologica ha assunto dimensioni tali da coinvolgere la responsabilità di tutti, cornordinando gli sforzi per stabilire doveri e impegni dei singoli e dell’intera comunità internazionale. Tutto questo, non solo si affianca ai tentativi di costruire la vera pace, ma li conferma e li rafforza.
Inserendo la questione ecologica nel più vasto contesto della ricerca della pace nella società umana, ci si rende meglio conto di quanto sia importante prestare attenzione a ciò che la terra e l’atmosfera ci rivelano: nell’universo esiste un ordine che deve essere rispettato; la persona umana, dotata della possibilità di libera scelta, ha una grave responsabilità per la conservazione di questo ordine, anche in vista del benessere delle generazioni future. La crisi ecologica è un problema morale.
Anche gli uomini e le donne senza particolari convinzioni religiose, per il senso delle proprie responsabilità nei confronti del bene comune, riconoscono il dovere di contribuire a risanare l’ambiente. A maggior ragione, coloro che credono in Dio creatore, e quindi sono convinti che nel mondo esiste un ordine ben definito e finalizzato, devono sentirsi chiamati a occuparsi del problema.
I cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del creatore sono parte della loro fede. 

Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




Le mille frontiere senza vergogna

Posti di blocco ed estorsioni: una denuncia

Nel paese del cacao, un tempo il più ricco dell’Africa Occidentale, ma oggi spaccato in due dalla guerra civile scoppiata alla fine del 2002,
il taglieggio lungo le strade è diventato
una consuetudine, un mestiere redditizio.
E tutto questo arricchisce chi esercita il potere dell’uniforme lungo le vie di comunicazione. Sempre a scapito della povera gente.

«Da questo affare statevene fuori, lasciate fare a noi…» rassicura l’autorità ecclesiastica competente. Ma, da missionario cattolico, voglio fare una denuncia. Anche se non foisco informazioni in quantità, ci tengo a far capire la rabbia che, in molti, trangugiano in Costa d’Avorio. Soprattutto nel territorio sotto il controllo delle forze governative, in tutto il sud, da est a ovest.
Si dice che il paese è diviso in due dal 2002, dato che il nord è in mano agli avversari del controverso presidente Laurent Gbagbo, i cosiddetti ribelli. Ma non è affatto così. Ascolto e vedo che in Costa d’Avorio le divisioni sono centinaia. Le nuove frontiere, infatti, non si possono più contare.
Le strade principali del sud sono continuamente interrotte da posti di blocco dove pullulano uniformi di tutti i tipi: militari, gendarmi, agenti della dogana, polizia del traffico e municipale… e persino quelli che da noi sono le guardie forestali. Qui si chiamano «i corpi in uniforme». Ebbene, ognuno di questi gruppi si dà da fare per estorcere – ormai anche ad alta voce si dice rackettage – con qualsiasi scusa e con le brutte maniere il denaro della povera gente che lavora.

Il sistema dei posti di blocco era una prassi conosciuta, ma non era diventata una fonte di guadagno sfacciato. Con la guerra tra governativi e ribelli la faccenda ha cominciato a diventare seria. Ufficialmente i barrages (barriere) dovevano diventare un filtro necessario – argomento credibile – per bloccare il trasporto di armi, gli spostamenti di nemici o cose del genere. Con il tempo sono diventati un’attività di lucro illecito e vergognoso.
Può sembrare una barzelletta, ma i «corpi in uniforme» hanno cominciato il loro servizio spostandosi con i mezzi che avevano; poi ognuno ha iniziato a diventare autonomo, perché il rackettage rende. Ai diversi posti di blocco, con i frutti dell’indefesso «lavoro» ci si può comprare dapprima un motorino o una moto usata, poi una più grossa; dopo un po’ arriva la piccola automobile e infine si viaggia nella macchina di grossa cilindrata.
Inoltre, bisogna tener conto che da quello che si preleva alla gente c’è spesso anche la parte da scremare per i «capi» dei vari corpi. Il servizio al paese bisogna farlo bene e fino in… cima.
Un posto di blocco è un insieme più o meno ordinato di tronchi, vecchi pneumatici e sbarre di ferro chiodate e scorrevoli. Il tutto è sistemato in modo da essere ben visibile agli automezzi in arrivo. Ai lati dell’asfalto si possono notare tettornie sgangherate, con massicce sedie di legno, dove i «gradi maggiori» osservano e sonnecchiano, mentre gli inferiori ispezionano i veicoli, i passeggeri e le merci.
Più che a una ispezione, sembra di assistere a uno sciagurato gioco: si cerca di leggere nel volto dei malcapitati se hanno indosso denaro o altri beni, da scroccare senza pietà e in nome di nessuna legge o regola infranta. Ai «gradi maggiori» si ricorre per i casi più ostinati o «delicati».
Può darsi che, agli inizi, buona parte degli avoriani fosse, non dico entusiasta, ma almeno d’accordo con questo meticoloso sistema di sicurezza intea. In effetti, i destinatari di questa accurata struttura di controllo erano e rimangono anzitutto i lavoratori stranieri (beninesi, burkinabé, togolesi, liberiani, ghanesi, maliani, ecc.).
Perché? Perché molti arrivano in Costa d’Avorio senza visti (da loro, in fondo, si esige che lavorino sodo e in silenzio); altri non riusciranno mai a infrangere la barriera dell’inefficienza e della corruzione della burocrazia locale per aggioare i loro permessi di soggiorno; altri ancora, sentendosi vinti dalla loro stessa paura o ignoranza, resistono nell’umiliante anonimato, che la legge battezza col nome di clandestinità.
La demagogia del sistema non ha avuto difficoltà a «dimostrare» che i primi nemici del paese e alleati dei ribelli sono proprio loro, gli stranieri che faticano per gli avoriani.

Dunque, il denaro si estorce anzitutto agli stranieri. Certo non si toccano i grossi commercianti, i vip, i missionari delle diverse denominazioni cristiane o altre autorità religiose. Ma, dato che ce n’è di strada da fare per partire dal motorino e arrivare alla grossa auto, la lista delle possibili vittime si è allungata.
Anche «l’infrastruttura» di questo latrocinio permanente e istituzionalizzato si è estesa oltre ogni limite di sopportazione. E dire che «i corpi in uniforme» percepiscono un ottimo stipendio, come del resto tutti gli impiegati dello stato. Eppure…
La lista delle vittime si è allungata e le aree da depredare si sono allargate a macchia d’olio. Per esempio, se vai alla capitale o nelle principali città della zona costiera, ti verrà detto dai tassisti che non ne possono più di dover pagare, anche più volte al giorno, un «piccolo dazio» agli uomini in uniforme, che li bloccano senza altra ragione che quella di estorcere denaro.
Se vai verso l’interno, dove l’asfalto finisce e inizia la foresta con le sue piantagioni di cacao, palme da olio, caffè,  a qualsiasi ora e in qualunque giorno della settimana ti imbatti con uniformi di ogni specie, pronti alle loro arbitrarietà e vessazioni per arricchirsi.

Ti stai spostando con una bicicletta sgangherata su una strada sterrata dell’interno per rientrare a casa o per andare a lavorare nei campi? Se ti imbatti in un «controllo» dovrai sganciare 5 mila franchi Cfa di multa. (Un euro vale poco più di 655 franchi Cfa; la paga giornaliera di un lavoratore, bracciante, manovale, oscilla tra i mille e i due mila franchi).
Perché? Non fare domande o la bici è requisita e dovrai, alla fine, pagare quattro o cinque volte tanto per riscattarla. Sei uno straniero o un avoriano originario di un’altra zona? Se ti chiedono i documenti d’identità, rispondi che non li hai e te la caverai con una multa di 2 mila franchi. Non azzardarti a mostrarli: primo te li requisiscono, perché il tuo sbaglio è di non essere stato sorpreso in flagrante; secondo, anche se tutto è in regola, la multa sarà almeno raddoppiata.
È il tempo del raccolto in foresta e sei un piccolo trasportatore di cacao o di noci da olio? Anche se percorri la pista più recondita, ti beccano comunque, e devi pagare almeno 2 mila franchi al giorno. Perché? Perché la legge dei fuorilegge ha deciso che per una settimana o due sarà così: punto e basta!
Sei un commerciante di «mezzo calibro», che carica su un grosso camion i raccolti agricoli di una piccola fetta di foresta per trasportarli in città? Sappi che il tuo viaggio di nemmeno 100 km dovrà fruttare almeno 100 mila franchi ai difensori della legge.
Sei straniero e devi rientrare in patria per motivi familiari o per le vacanze? Sappi che sanno che hai guadagnato qualcosa e non ti molleranno se non dopo un buon salasso. Soluzione? Ti umilierai il più possibile a ogni posto di blocco fino alla capitale e inventerai storie pietose, così ti estorceranno qualcosa di meno.
E per i prossimi barrages, prima di arrivare alla frontiera? Niente paura. Affidati a un’impresa seria di viaggi inteazionali. Al prezzo del biglietto ti chiederanno di aggiungere un altro bel po’ di denaro in modo che tra tutti i passeggeri dello stesso bus si raggiunga la cifra di un milione, un milione e mezzo di franchi (1.500-2.000 euro). Ci penserà l’esperto autista a distribuire il malloppo a seconda del posto di blocco e per te finiranno umiliazioni,  perquisizioni, vessazioni.
Vivi in un villaggio sperduto e sei regolarmente «visitato» dalla sicurezza statale? Mettiti d’accordo con gli altri del posto e, alla scadenza che sai, fatti trovare preparato: un lauto pasto, un po’ di sacchi pieni di beni in natura (si sa, in città tutto costa più caro) e la somma di denaro necessaria per calmare lo zelo dei servitori dello stato. Tutto andrà bene e vi diranno con soddisfazione di non temere, ormai ci si conosce e si è amici, si è di casa. E così via…
Anche al nord, nel territorio controllato dai ribelli, ci sono posti di blocco, sulle strade principali e, mi dicono, si chiedono 100-200 franchi.

Il sistema funziona così e la spirale di prepotenza innescata cresce, nonostante le altisonanti e fumose campagne promosse dagli «alti gradi» per fare pulizia, eliminare corruzioni e soprusi.
Si è ormai instaurata quella macabra convivenza in cui, secondo gli psicologi, il boia acuisce e rende più crudele la propria violenza, mentre la vittima sceglie di arrendersi, di umiliarsi sempre di più, accettando supinamente nuove sofferenze. La situazione si è incancrenita e ognuno, alla fin fine, si sente nel ruolo che gli compete.
Potrei riportare altri piccoli flash o far notare che altri barrages sono sorti in altri settori cosiddetti pubblici; quelli riportati sono sufficienti per fare capire ciò che ho detto all’inizio: la frontiera in Costa d’Avorio non è segnata dagli aggettivi «governativo» o «antigovernativo».
Se l’inconcludente processo di riunificazione dovesse superare lo stagno chiamato censimento e disarmo (tutti coloro che hanno una coscienza sperano e pregano per la pace), si potranno superare le altre mille frontiere che nel frattempo si sono diffuse nel sud del paese? Chi sarà alla guida dello stato, potrà controllare i suoi fedeli guardiani, ormai abituati a ingrossare il loro non indifferente stipendio con scaltrezza e prepotenza? 

J.A.B.

J.A.B.




TRA SPAZI INFINITI

Visita dei nostri missionari in Corea ai confratelli e consorelle in Mongolia

Da quando i missionari della Consolata sono presenti in Mongolia (2003), i confratelli in Corea del Sud non si sentono più tanto sperduti nell’immenso Est Asiatico: hanno iniziato
a scambiarsi le visite per crescere nella frateità
e condividere le esperienze. Quest’anno è toccato
ai «coreani» fare visita ai confratelli della Mongolia. Padre Pacheco racconta le sue impressioni,
con qualche confronto con la realtà coreana.

Come missionari della Consolata siamo presenti in due paesi dell’Asia Orientale: in Corea del Sud dal 1988 e in Mongolia dal 2003. Essendo questo un continente immenso, per noi che lavoriamo in Corea l’Istituto è rimasto, per vari anni, una realtà geograficamente «lontana». Ora che siamo presenti anche in Mongolia, è naturale sentire i nostri confratelli e consorelle che vi lavorano come «vicini di casa».
Per rafforzare i vincoli familiari, da due anni abbiamo cominciato a fare insieme gli esercizi e le vacanze comunitarie. Dalla Mongolia sono già venuti a trovarci per due volte; ora che il loro gruppo è aumentato notevolmente, dalla Corea siamo andati in 7 per vivere insieme a loro alcuni giorni di ritiro spirituale; ma anche per conoscere la realtà della missione in Mongolia. È stata un’esperienza veramente favolosa, grazie anche alla fratea e impeccabile ospitalità di cui abbiamo goduto.
Ecco il diario del nostro viaggio.

9 agosto 2006

Partiamo dall’aeroporto di Incheon alle 8 di sera. Viaggia con noi padre Gianni Colzani, professore di Antropologia teologica e missiologia all’università Urbaniana di Roma, appositamente invitato per guidare gli esercizi spirituali.
Dopo tre ore di volo, arriviamo all’aeroporto internazionale «Chinggis Khaan», dove ci aspettano i padri Giorgio Marengo e Charles Gachingiri, più una giovane mongola, Maya, amica dei nostri «mongoli».
Arrivati a destinazione, nell’appartamento dei padri, troviamo due buonissime torte preparate dalle nostre sorelle. Dopo una bella chiacchierata, andiamo a riposare.

10 agosto

Prima visita alla città di Ulaanbaatar. Cominciamo dal monastero buddista di Gandan, uno dei pochi sopravvissuti alle distruzioni staliniste. Confrontiamo il buddismo mongolo col nostro coreano: quello mongolo è più di ispirazione tibetana tantrica, con molti elementi sciamanisti; la statua del Budda, nel tempio centrale, è alta 25 metri; rimaniamo stupiti nel sentire che alcuni monaci sono sposati e non vivono nel tempio.
Dopo un pranzo tipicamente mongolo (la carne non può mai mancare!), visitiamo il Museo di storia nazionale, poi la statua di Chenggis Khaan, nella piazza centrale della città, e il Parlamento.
La sera celebriamo la messa  a Niseh in una piccola cappella vicino all’aeroporto. Questa fa parte di una delle tre parrocchie della capitale, affidata a un sacerdote coreano, che ha chiesto ai nostri missionari di dargli una mano nelle attività pastorali in questo quartiere povero.
Per cena le nostre consorelle ci coccolano con una deliziosa pizza. A tarda sera arriva da Hong Kong padre Eesto Viscardi, superiore del gruppo in Mongolia, il quale aveva accompagnato un gruppo di giovani mongoli per partecipare all’incontro dei «giovani dell’Asia 2006».

11-16 agosto

Partenza per gli esercizi. Raggiungiamo un campo di gher, tipiche tende mongole. La sera siamo introdotti al tema del ritiro: la «Missione»; tema che nei giorni seguenti viene approfondito nei suoi vari aspetti biblici e teologici. Anche se il ritiro sembra quasi un corso di rinnovamento e aggioamento sulla missione, troviamo molti spunti spirituali per approfondire il nostro incontro con Dio e per riaffermare il nostro «sì» a Lui e alla missione.
In questo ci aiuta molto anche la contemplazione della meravigliosa natura circostante, tipica del paesaggio mongolo: grandi spazi vuoti di steppe erbose, animali in libertà (cavalli, pecore, mucche e i famosi yak), montagne, cielo azzurrissimo, tramonti dorati e notti stellate: tutte meraviglie che in Corea non siamo abituati a vedere.
Alla fine del ritiro, giochiamo una partita di calcio, Mongolia contro Corea: vince la Mongolia per 3 a 2; ci consoliamo con una cavalcata per la prateria circostante.

17 agosto

Ritorniamo nella capitale e visitiamo il vescovo filippino mons. Wenceslao Padilla, che ci accoglie molto familiarmente. Ci racconta la sua esperienza missionaria e quella della giovane chiesa mongola: 345 cattolici, più di 100 catecumeni, 3 parrocchie, 5 cappelle e tante attività di carattere sociale e caritativo.
Nella visita al Museo di storia naturale, possiamo ammirare molti scheletri di dinosauri, provenienti dal deserto del Gobi, dove tali fossili sono ancora abbondanti e a cielo aperto. La sera assistiamo a uno spettacolo di musica e danze tradizionali, che sono molto più «vivaci» delle danze coreane. Un’altra sorpresa: nel teatro incontriamo tre bergamaschi, arrivati in Mongolia con la Transiberiana.

18 agosto

Al mattino partiamo in direzione sudovest, per raggiungere Arvaikheer,  una località dove i nostri padri e suore, verso la fine di settembre, apriranno la loro missione. Purtroppo le nostre consorelle non possono prendere parte a questo viaggio.
Appena usciti dalla capitale, ci troviamo immersi nelle grandi steppe disabitate. Pochissimi i centri abitati; quelli usati dai soldati russi ora sono totalmente abbandonati. Qua e là una gher, cavalli,  pecore e capre a migliaia. Ci fermiamo a contemplare una zona dove l’aridità del clima ha creato una fascia di dune sabbiose.
Proseguiamo. La nostra prima tappa è la città di Kharkhorim (Kharakhorum), antica capitale dell’impero mongolo per circa 40 anni, poi abbandonata e quindi distrutta dai soldati mancesi.
Dell’antica capitale rimangono solo il grande complesso di muraglie e tre templi del monastero Erdene Zuu (cento tesori), la cui costruzione ebbe inizio nel 1586 e fu completata solo 300 anni più tardi. La storia racconta che anche questo monastero subì la stessa sorte della capitale: fu più volte saccheggiato, finché fu distrutto dagli stalinisti, uccidendo un numero imprecisato di monaci e risparmiando solo tre templi.
La sera ci fermiamo a dormire in un campo turistico di gher vicino l’antica capitale.

19 agosto

Al mattino, visita al monumento dedicato a Chenggis Khaan. Quindi ripartiamo per visitare un famoso tempio, che fu rifugio di Zana Bazar (1635-1723), il maggiore ed eminente artista religioso e uomo di cultura, che consolidò l’affermazione del buddismo tibetano in Mongolia diventandone il primo capo spirituale.
Il tempio è meta di frequenti pellegrinaggi, specialmente da parte degli anziani. Per raggiungerlo bisogna camminare; ma alcuni di noi, non ancora tanto anziani, preferiscono salirvi a cavallo.

20 agosto

Trascorsa la notte in un altro campo turistico di gher,  visitiamo la cascata di Orkhon, che si erge maestosa di fianco all’accampamento; quindi riprendiamo il viaggio sulla nostra 4×4. Per visitare la Mongolia occorre un fuoristrada, poiché le strade asfaltate sono poche e piene di buche e, se si vuole raggiungere certe località, bisogna viaggiare su piste, guadare fiumi e, soprattutto, affidarsi sempre a un’autista mongolo, che abbia uno spiccato senso dell’orientamento.
Per raggiungere la nostra destinazione finale, dobbiamo scalare una montagna, passare il valico e scendiamo verso una grande vallata. All’improvviso vediamo migliaia di persone: sono cercatori d’oro! Intere famiglie, uomini, donne e bambini scavano, trasportano e setacciano la terra in cerca di polvere d’oro. Alcuni sono lì da due anni. Le condizioni di vita e di lavoro sono veramente disumane. I locali li chiamano «ninja», perché vanno in giro con una bacinella di plastica sulla schiena e assomigliano alle popolari tartarughe dei cartoni animati.
La sera arriviamo, finalmente, alla città di Arvaikheer, capitale di regione con 22 mila abitanti. È in questa piccola città che i nostri confratelli e consorelle apriranno la nuova missione. La casa in affitto dove abiteranno è quasi pronta, ma non abbastanza per passarci la notte.

21 agosto

Visita alla città e al museo. Nel mercato, che fornisce tutta la regione, troviamo prodotti provenienti dalla Cina, Corea, Russia. Con grande sorpresa constatiamo che, addirittura, alcuni cantanti e attori coreani sono popolari in queste remote zone.
La nostra sarà in assoluto la prima presenza cattolica in questa regione. Auguriamo ai nostri confratelli tanta fortuna e fede nei piani di Dio.
Riprendiamo la strada verso Ulaanbaatar, facendo qualche sosta per pranzare e per sgranchirci le gambe. Dopo varie ore di viaggio, su piste e tratti di asfalto, raggiungiamo la capitale tutti impolverati.

22 agosto

Ultimo giorno in Mongolia. Stanchi del viaggio, decidiamo di prendercela con calma. Al mattino facciamo una visita a padre Kim, coreano e parroco della parrocchia in cui risiedono i nostri. La chiesa è ancora in costruzione, per cui la messa si celebra in un grande gher.
Facciamo poi qualche acquisto e nel tardo pomeriggio celebriamo la messa con i pochi fedeli e catecumeni della parrocchia. Restiamo meravigliati del fervore e attenzione con cui tutti i fedeli della giovane comunità partecipano alla liturgia e ai canti. Anche padre Giorgio ci stupisce per la scioltezza con cui maneggia la lingua mongola.
Arriva il momento di ripartire per la Corea: dalle fresche e secche notti mongole ci rituffiamo nel caldo umido dell’estate coreana.
Mentre ci salutiamo, pensiamo a come continuare in futuro questi incontri. Per ora ci rimane nella mente e nel cuore le cose che non ho raccontato: i gesti di simpatia, accoglienza fratea e tutte le altre belle cose che i nostri confratelli hanno fatto perché il viaggio fosse quello che è stato: sentire la Mongolia come parte di noi stessi! La Consolata è anche in Asia e ci vuole tanto bene. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Il dolore degli innocenti

Nel 50° anniversario della morte di don Carlo Gnocchi

«Sogno, dopo la guerra, di dedicarmi per sempre a un’opera di carità, quale che sia, o meglio, quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una cosa sola: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”». Così scriveva nel settembre 1942, il tenente cappellano degli alpini don Carlo Gnocchi. Sul fronte russo prende corpo la sua vocazione di «apostolo del dolore innocente»
e «padre dei mutilatini».

Chi lo ha conosciuto conserva nella memoria l’immagine di un asceta medievale: viso affilato, occhi luminosi, labbra atteggiate a un sorriso triste, ma colmo di espressiva bontà; sacerdote fino in fondo e mai un bigotto, a totale servizio dell’umanità sofferente. Talvolta fu considerato un «prete scomodo», perché in quei tempi, quando tutti miravano al benessere per dimenticare gli orrori della guerra, egli scopriva il senso della vita proprio nel dolore del prossimo.

ESPERIENZA BELLICA

Terzogenito di Enrico, marmista e Clementina Pasta, sarta, Carlo Gnocchi nacque il 25 ottobre 1902 a San Colombano al Lambro, presso Lodi. Orfano del padre a cinque anni, si trasferì a Milano con la madre e i due fratelli, che di lì a poco morirono di tubercolosi.
Seminarista alla scuola del card. Andrea Ferrari, fu ordinato sacerdote nel 1925 dal card. Tosi e celebrò la prima messa a Montesiro, dove  trascorse lunghi periodi di convalescenza in casa di una zia. Nominato coadiutore della parrocchia di Ceusco sul Naviglio, l’anno seguente fu trasferito nella parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano, come assistente dell’oratorio.
Nel 1936 il card. Schuster lo nominò direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane, assistente spirituale degli universitari della Seconda legione di Milano e insegnante religioso all’Istituto tecnico commerciale Schiapparelli. Furono anni di studi intensi, in cui scrisse brevi saggi di pedagogia.
Quando l’Italia entrò in guerra, nel 1940, molti studenti furono chiamati al fronte; per essere vicino ai suoi giovani anche nel pericolo, don Gnocchi si arruolò come cappellano volontario  nel battaglione alpino «Val Tagliamento», destinazione il fronte greco albanese.
Dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 il tenente cappellano fu inviato prima sul fronte russo con gli alpini della Tridentina. L’esperienza del conflitto, con tutti i suoi orrori, lo segnò profondamente, facendogli scoprire la sua vocazione, il suo «sogno» o «carriera» a difesa dei più deboli, come scriveva a un cugino nel settembre 1942.
Nel gennaio 1943, durante la drammatica ritirata del contingente italiano e la tragica esperienza vissuta nella sacca di Nikolajewka, don Carlo si prodigò nell’assistenza agli alpini feriti e morenti, raccogliendone le ultime parole, fotografie dei loro cari e indirizzi di casa, per poi visitare i familiari e portare loro un conforto morale e materiale.
Reduce dal fronte russo, don Gnocchi rimase colpito dal disagio in cui si trovavano tutti gli italiani, civili e militari. Il bilancio di guerra era impressionante: circa 15 mila bambini mutilati, dallo scoppio degli ordigni bellici. Attraverso contatti con la Croce Rossa, autorità militari, civili e religiose, li raccolse nell’Istituto dei grandi invalidi di Arosio (Como), di cui fu nominato direttore (1945).

IL PRIMO MUTILATINO

Una sera sull’imbrunire, mentre rientrava nella Casa di Arosio, trovò ad attenderlo una giovane donna, con in braccio un bambino di pochi anni, che gli disse tra le lacrime: «Non ho più nulla, sono sola al mondo. È da due giorni che non mangiamo. Don Carlo, lo prenda lei il mio Paolo, la scongiuro». Così dicendo, depose il bimbo a terra e si volse come per andarsene, singhiozzando.
Il bambino aveva la gamba destra amputata dall’esplosione di un ordigno bellico; non potendosi reggere, cominciò a trascinarsi penosamente, anch’egli piangendo e guardando la mamma. Don Carlo si inginocchiò accanto al piccolo e lo abbracciò fissandolo con tenerezza, senza dire una parola, fino a quando madre e figlio cessarono di piangere. Si alzò stringendo al petto il piccolo mutilato che finalmente rispose con un tenue sorriso alla carezza del sacerdote. Anche la povera madre sorrise di riconoscenza.
Quel bambino si chiamava Paolo Balducci; aveva otto anni; fu il primo mutilatino ricoverato tra gli orfani di Arosio. Per tutta la sera e parte della notte don Carlo non si allontanò da quel bambino che lo guardava e gli si stringeva come se avesse trovato un nuovo padre, tanto buono da racchiudere in sé anche la tenerezza della madre.
Cominciava così la «carriera» di don Carlo Gnocchi, dando vita a un’opera che lo portò a guadagnare sul campo il titolo di «padre dei mutilatini».

«PRO INFANZIA MUTILATA»

Occorreva, senza indugio, informare la pubblica opinione, coinvolgere le persone di ogni ceto e far vedere i tristi effetti di una guerra fratricida, dimostrare la necessità di riparare all’ingiusta sorte abbattutasi ciecamente sopra inermi e innocenti fanciulli.
Fiducioso in Dio e nella bontà degli uomini, don Gnocchi costituì associazioni di sostegno e non diede più pace a conoscenti e a quanti potevano contribuire alla raccolta di denaro, indumenti e materiale per i suoi mutilatini.
Ben presto la struttura di Arosio divenne insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti, le cui richieste di ammissione giungevano da tutta Italia. La Provvidenza gli venne incontro, nel 1947, con la concessione in affitto, per una cifra simbolica, di una grande casa a Cassano Magnago (Varese).
Tra le innumerevoli difficoltà organizzative e gestionali che tale iniziativa comportava, don Carlo provò anche l’amarezza del rifiuto, l’incomprensione e la critica importuna di qualche sedicente amico. Tuttavia, tali tribolazioni furono compensate dal riconoscimento delle autorità governative: i ministeri degli Intei e della Pubblica Istruzione gli assicurarono appoggio e fondi.
Per meglio cornordinare gli interventi assistenziali verso le piccole vittime della guerra, don Gnocchi fondò la «Federazione pro infanzia mutilata», giuridicamente riconosciuta dal presidente della repubblica Luigi Einaudi, con decreto del 26 marzo 1949. Lo stesso anno, il capo del Goveo, Alcide De Gasperi, promosse don Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio per i problemi dei mutilati di guerra.
Grazie alle sue insistenti richieste al governo e a donazioni spontanee, don Gnocchi ottenne l’assegnazione dei vari edifici pubblici e privati in cui aprì nuovi collegi: nel 1949 a Parma e Pessano (Milano); nel 1950 a Torino, Roma, Saleo e Inverigo (Como); nel 1951 a Pozzolatico (Firenze) e Passo dei Giovi (Genova).
I collegi di Pessano e Passo dei Giovi furono riservati alle ragazze mutilate; mentre quello di Inverigo ospitò anche bambini mulatti, nati in Italia da donne bianche e soldati alleati di colore. E poiché per questi «figli del sole» lo stato non riconosceva rette di ricovero (non avendo una figura giuridica dal punto di vista burocratico, per la loro situazione anagrafica spesso confusa), don Gnocchi lanciò il «madrinato dei mulattini»: le adesioni arrivarono da tutta l’Italia, con concreti risultati educativi, pedagogici e professionali.
Per attirare l’attenzione dell’Italia e del mondo intero sull’opera umanitaria da lui fondata, don Gnocchi lanciò una iniziativa clamorosa: la traversata dell’Atlantico di un piccolo aereo da turismo, battezzato «L’angelo dei bimbi». Il 19 gennaio 1949, dopo 15.800 chilometri e 76 ore di viaggio, il monomotore atterrò a Buenos Aires, tra il tripudio della gente. La risonanza dell’impresa fu tale che, dagli Usa al Sudafrica, tramite le nostre rappresentanze diplomatiche  vennero sottoscritte oblazioni tra i connazionali residenti all’estero: i 15 mila mutilatini potevano contare sull’affettuoso appoggio di tutti gli italiani nel mondo.
Lo stato assisteva allora, con una modesta retta giornaliera, solamente ragazzi le cui mutilazioni erano causate da incidenti bellici. Ma don Gnocchi, fin dall’inizio, accolse anche i mutilati civili e, quando aveva posto e mezzi, accettava anche i poliomielitici. «Lo stato dà in buona parte e naturalmente gli chiederemo di più – soleva dire -, ma non dobbiamo cessare di invitare la gente a offrire spontaneamente e a scomodare i ricchi affinché aiutino i nostri poveri bisognosi».
Il suo amore verso «il dolore innocente» non aveva confini: don Gnocchi riuscì a interessare i governanti dei vari stati, che inviarono loro esperti in Italia a visitare i collegi della Pro Juventute: nasceva così la «Federazione europea della giovinezza mutilata di guerra», costituita dalla presenza di 200 mila mutilatini che, per l’occasione, si riunirono a Roma ricevuti da papa Pio XII.
Durante le vacanze estive del 1953, il collegio di Santa Maria ai Colli di Torino ospitò gruppi di mutilatini provenienti dal Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra e Olanda. Don Carlo passava giornate intere a organizzare gare sportive, passeggiate, visite alla città e momenti di scambio culturale, creando un clima di frateità tra questi giovani, i cui genitori si erano trovati di fronte come nemici sui campi di battaglia.

«PRO JUVENTUTE»

Con l’aumentare di oblazioni e lasciti, si rendeva necessario una diversa organizzazione dell’opera per facilitare le pratiche inerenti al movimento burocratico e amministrativo. Inoltre, prevedendo che con il passare degli anni si sarebbe esaurito l’afflusso dei mutilatini, nel 1951 don Gnocchi sciolse la Federazione Pro Infanzia Mutilata e creò la Fondazione Pro Juventute, ente morale assistenziale, con personalità giuridica, riconosciuto con Decreto presidenziale l’11 febbraio 1952. In questo modo la sua opera poteva perpetuarsi, con l’assistenza ai bambini colpiti da altre disabilità motorie.
Di fatto, vinta ormai la battaglia per i piccoli mutilati di guerra, il complesso assistenziale della Pro Juventute si orientava verso il problema più pesante che affliggeva l’infanzia sofferente dell’Italia di quegli anni: la poliomielite. «La vocazione imperiosa dei poliomielitici è diventata ossessione – scriveva don Gnocchi -. Ho sentito che assolutamente, urgentemente, il Signore vuole questa opera; ebbi in taluni momenti l’impressione di un comando, di una pressione quasi fisica».

RIABILITAZIONE INTEGRALE

Fra tutti gli istituti fondati da don Gnocchi, quello di Parma divenne un centro-pilota, prima per la riabilitazione dei mutilatini, poi per i poliomielitici. Da qui passavano tutti gli aspiranti al ricovero nei vari collegi della Pro Juventute: qui i minori venivano esaminati dai medici, che ne giudicavano le condizioni e ne consigliavano il trattamento da effettuare. In caso di necessità di intervento operatorio essi venivano trattenuti, operati e foiti di presìdi ortopedici e destinati ai collegi di provenienza e indirizzati ai tipi di scuola o attività professionali più idonee.
Nei casi in cui si presentava la necessità di ripetuti interventi chirurgici e una continua assistenza protesico-sanitaria, gli assistiti venivano trattenuti nel collegio dello stesso centro, garantendo loro l’assistenza scolastica e professionale.
Dal momento che per molti dei ricoverati, gravemente colpiti da poliomielite, era impossibile recarsi alle scuole pubbliche, furono inserite all’interno dell’istituto alcune sezioni delle scuole statali (elementari, corsi di ragioneria, avviamento tecnico e commerciale), affidate ad insegnanti governativi di ruolo.
Anche negli altri centri, sotto la poderosa organizzazione professionale Pro Juventute sorgevano e si ingrandivano scuole, officine e laboratori da cui uscivano impiegati, meccanici, falegnami, tecnici ortopedici, radiotecnici, tipografi, tecnici agricoli, ceramisti, sarti e calzolai.
Il concetto di riabilitazione, infatti, era al centro del pensiero di don Carlo e dell’organizzazione dei collegi della Pro Juventute. «Se bisogna ricostruire – diceva – la prima e più importante di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità.
Bisogna rifare l’uomo. Senza questo è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una casa. Né basterà ridare all’uomo la elementare possibilità di pensare e di volere, senza la quale non c’è vita veramente umana, ma bisognerà restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del vivere, voglio dire quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare completamente il potenziale della propria ricchezza personale».
Il suo progetto di rieducazione integrale dell’individuo, in un percorso che armonizza prevenzione e riabilitazione, ponendo al centro del processo terapeutico la persona umana, con le sue potenzialità e  peculiarità, costituiva la novità esclusiva e la straordinaria modeità della Pro Juventute, tanto più se si considera che si collocava in anni in cui le discipline riabilitative stavano muovendo i loro primi e timidi passi.
Nel 1955 don Carlo lanciò la sua ultima grande sfida: costruire un moderno centro che costituisse la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del presidente Giovanni Gronchi, fu posata la prima pietra della nuova struttura, nei pressi dello stadio San Siro a Milano.

ULTIMO DONO… PROFETICO

Purtroppo don Carlo non riuscì a vedere la realizzazione di quell’opera. All’inizio del 1956 fu ricoverato alla clinica Columbus di Milano, dove si spense il 28 febbraio, all’età di 54 anni.
Nei momenti di ripresa, che si alternavano a crisi di agonia, don Carlo continuò a raccomandare ai suoi eredi di prendersi cura della sua «baracca»: così definiva la sua opera.
Poco prima di morire, don Carlo chiamò al suo capezzale il prof. Cesare Galeazzi, noto oculista e suo amico, e gli disse: «Forse mi restano poche ore. Sono povero: nel mio caso un testamento farebbe sorridere, ma mi restano gli occhi da donare. Tu devi promettermi che farai tutto il possibile perché le mie pupille rimangano in eredità a qualcuno dei miei mutilatini che non vedono».
Fu il suo ultimo gesto profetico, che sfidava la legge dello stato, che allora non consentiva simili interventi, e il magistero della chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla questione della donazione degli organi.
Tale richiesta provocò profonda angoscia nell’animo del prof. Galeazzi; ma ci pensò don Carlo a fugare ogni esitazione e il duplice trapianto delle coee su Silvio Colagrande e Amabile Battistello riuscì perfettamente. La generosità di don Gnocchi e il successo dell’operazione ebbero un enorme impatto sull’opinione pubblica e impressero un’accelerazione del dibattito: nel giro di poche settimane il governo varò una legge ad hoc.

L’ESTREMO SALUTO

L’estremo saluto di Milano a don Gnocchi si trasformò in un’apoteosi grandiosa per partecipazione e commozione: una moltitudine dei suoi mutilatini, venuti dagli 8 collegi della Pro Juventute, quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime; poi la commozione degli amici e conoscenti; 100 mila persone a gremire il Duomo e la piazza; l’intera città di Milano listata a lutto. Così il 1° marzo 1956 l’arcivescovo Montini, poi papa Paolo vi, celebrava i funerali di don Carlo.
Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: «Era un santo; è morto un santo». Durante il rito, fu portato al microfono un bambino. Disse: «Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo». Ci fu un’ovazione.
Nel 1986, 30 anni dopo la morte di don Gnocchi, il card. Carlo Maria Martini istituì il processo di beatificazione. La fase diocesana, avviata nel 1987, si è conclusa nel 1991. Ora è tutto in mano alla congregazione delle Cause dei Santi, a Roma. Il 20 dicembre 2002 il papa lo ha dichiarato venerabile.

DON CARLO VIVE

Oggi il carisma di don Gnocchi vive nei 28 centri attivi in 9 regioni d’Italia e in centinaia di poliambulatori e centri minori disseminati in tutta la penisola, dove si continua ad operare con estrema competenza nel recupero fisico e psicofisico di quanti vi accedono.
I rimedi sperimentali per lenire la sofferenza sono nel contempo causa ed effetto della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, inducendo una sorta di circuito virtuoso di azione e pensiero. Inoltre, la Fondazione don Gnocchi, diventata onlus dal 1998, ha dilatato le sue attività per rispondere a tutte le patologie invalidanti che colpiscono persone di ogni età, compresi anziani, malati oncologici terminali e persone in stato vegetativo persistente.
In questi ultimi anni la Fondazione, dal 2001 riconosciuta Organizzazione non governativa, ha assunto dimensioni inteazionali, partecipando a programmi di ricerca in collaborazione con organismi, e promuovendo progetti nei paesi in via di sviluppo. 

Eesto Bodini

Eesto Bodini




LA BABY SITTER DELL’HONDURAS

Scivolata lungo i telegiornali della sera della scorsa estate, una notizia si è imposta proprio per il suo carattere singolare. Una baby sitter hondureña, in Italia senza documenti, quindi impiegata in nero, è annegata sul litorale dell’Argentario per salvare una bambina di 11 anni che le era stata affidata dalla famiglia e con la quale stava facendo il bagno nel Tirreno.
Iris Noelia Palacios Cruz, come milioni di altre persone alla ricerca di un lavoro onesto, era approdata nel nostro paese per dare un futuro di speranza alle sue grame condizioni di vita; insieme a lei c’era la sua famiglia; tutti avevano lasciato la misera realtà del Centro America per cercare uno spazio migliore nell’opulenta Europa. Ma in Italia si è incontrata con un tragico destino, lei latinoamericana ventisettenne, ha offerto la sua vita per salvare una bambina undicenne che i genitori avevano affidato alle sue cure. Questo tragico fatto fa il paio con quello accaduto l’anno scorso, dove un altro extracomunitario era annegato per salvare la vita a un cittadino italiano che stava per affogare.
Vogliamo sottolineare questi gesti, perché essi vanno nella direzione opposta a quella che una certa opinione pubblica del nostro paese tende sempre più a considerare, attraverso una frase semplificatoria, extracomunitario uguale delinquente. Ci sono degli esponenti politici di spicco che non hanno nessuna remora nel ripetere questo stantio ritornello, alimentando così un brodo di coltura razzista che lentamente, ma inesorabilmente, s’insinua nel modo di pensare generale.
Il problema vero è che l’industria e l’agricoltura del nostro paese, come di tutti gli altri paesi sviluppati, hanno bisogno di braccia per poter andare avanti, ma insieme alle braccia, arrivano le teste che pensano, che ragionano, arrivano uomini e donne che vogliono vivere, amare, lottare, per dare un futuro più dignitoso ai loro figli. L’emigrazione come tutti i fenomeni sociali complessi, porta con sé il meglio delle realtà da cui prende avvio, sia nel bene come nel male, del resto questo fenomeno è accaduto, neanche tanto tempo fa, all’emigrazione italiana approdata nelle Americhe, il gangster Al Capone e il detective Fiorello La Guardia, al cui nome è dedicato uno degli aeroporti di New York, erano figli della stessa terra e germinavano dallo stesso humus italico; solo che uno divenne un delinquente, l’altro uno dei più brillanti poliziotti di tutti gli Stati Uniti.
Lo stesso si può dire per l’immigrazione che arriva in Italia, ci sono uomini e donne che attratti da un guadagno facile non esitano a delinquere, e ci sono altri, che noi crediamo la maggioranza, che rimboccandosi le maniche percorrono l’amaro cammino dell’integrazione in un paese che non è il loro, dando il meglio di se stessi.

S e la punta dell’iceberg rappresentata dal sacrificio della vita, come nel caso della baby sitter hondureña, può essere ancora un caso sporadico, non lo è certamente quell’impegno positivo che tanti extracomunitari profondono nel tessuto sociale della nostra realtà: conosciamo molti immigrati che fanno del volontariato a beneficio di enti e associazioni, che se dovessero appoggiarsi esclusivamente sulle forze nostrane potrebbero chiudere già domani mattina.
Il cammino dell’integrazione tra uomini e donne provenienti da popoli con cultura, sensibilità e religioni diverse, non è né semplice né facile; necessita da parte di tutti di un’attenzione costante e particolare; il brandire lo spauracchio dell’immigrazione clandestina, il presentare dei poveri cristi del Terzo Mondo come dei «bingo bongo» trogloditi, da respingere con tutti i mezzi leciti e illeciti, ci sembra sia una demenzialità tanto quanto il tasso di intelligenza di coloro che esprimono simili concetti!
Il lavoro da fare per creare una società multietnica e multiculturale è lungo e faticoso. A questo compito nessuno può sottrarsi, meno che meno la comunità cristiana: un auspicio questo che è molto di più di un semplice desiderio.

Mario Bandera




Notizie, non gossip… e poi?

Se da una parte condivido l’appello della Fesmi, perché anch’io sono convinto che la televisione dia troppo spazio al gossip, dall’altra non me la sento di dire che il piccolo schermo trasmette poche notizie: il problema è quanto tempo vogliamo passare davanti al televisore e, soprattutto, che cosa intendiamo fare concretamente dopo che su un certo problema abbiamo raccolto una certa documentazione.
Se nell’Africa Centrale – ovvero l’area che la Fesmi suggerisce di "tener d’occhio" – le cose vanno ancora tanto male, le responsabilità principali non sono della televisione; ritengo di gran lunga più colpevoli coloro che, pur avendo appreso, grazie anche alla televisione, tante cose sul Congo e sulla Regione dei Grandi Laghi, continuano a comportarsi come se non avessero visto e sentito nulla di particolarmente sgradevole e disdicevole.
Secondo me tantissime persone dovrebbero ringraziare la televisione (intendo innanzitutto la Rai e quegli encomiabili giornalisti e operatori Rai che, per far bene il loro lavoro, hanno rischiato e qualche volta anche perso la vita…) per i tanti pregevoli servizi sul Congo e, più in generale, sui problemi che affliggono i paesi poveri. Di tali persone mi piacerebbe poter dire che hanno fatto del loro meglio per cambiare vita, modo di lavorare, di fare la spesa, di viaggiare, di trascorrere il tempo libero…
Purtroppo non posso dirlo, perché vedo ancora tanta, troppa gente che non solo non ne vuol sapere di rinunciare al superfluo, ma tende a concentrarvi ancora più risorse materiali e intellettuali.

Che cosa pretendiamo dal televisore? Che si spenga da solo quando i vari canali sono in grado di offrire solo gossip, pubblicità, reality spazzatura, overdosi di calcio e formula 1? Che si accenda da solo quando invece vanno in onda il Tg2 Dossier, il Report di Milena Gabanelli, il reportage da una terra di missione o la testimonianza di Gino Strada dall’Afghanistan?
Non possiamo aspettarci questo, non possiamo aspettarci che la televisione sia per noi padre, madre, sorella o, come diceva qualche anno fa un vescovo del Nord Italia, "bambinaia elettronica" (ne abbiamo forse l’età?).
Il presidente della Camera dei deputati ha suscitato vivaci reazioni quando, rispondendo ad alcune domande postegli da Lucia Annunziata, si è spinto ad affermare che per alcune Tv private ci vorrebbe una bella "cura dimagrante". Ho buone ragioni per ritenere che la Fesmi condivida questo giudizio e anche io, in effetti, penso che Bertinotti non abbia torto. Dico però che in Italia il soggetto che ha maggiore urgenza di cure dimagranti è l’industria bellica, il ministero della difesa, l’amministratore delegato di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini il quale non solo non ne vuol sapere di ridurre l’impegno nel comparto militare per rafforzarlo in quello civile (ricordate? Si chiamava "riconversione"; non sono passati molti anni eppure, chissà perché, sembra un secolo), ma fa esattamente il contrario; ossia riduce ai minimi termini gli investimenti nella produzione civile (considerata "poco competitiva" e quindi "perdente") per aumentarli in quella bellica (considerata "vincente", specie se il partner è l’americana Boeing il cui cda, circa il rapporto civile-militare, la pensa esattamente come Guarguaglini e si regola di conseguenza).

Non diciamo dunque che la televisione non c’informa o che ci dà poche notizie. Diciamo invece che non sappiamo tutto, ma sappiamo quel tanto che ci basterebbe per boicottare i vip della politica e della religione, che vanno a benedire le portaerei, le fregate e i sommergibili prodotti da Fincantieri, per boicottare la Fiat e le sue aziende satelliti, produttrici di mine. Tante raccolte di firme, manifestazioni, conferenze inteazionali, appelli di sante donne e santi uomini, non ultimo Giovanni Paolo ii, non sono bastati: le mine continuano a essere prodotte, vendute, usate.
In questo inizio di secolo altri paesi sono andati ad allungare il già lunghissimo e tristissimo elenco delle aree flagellate dai diabolici ordigni: penso alle isole indonesiane di Boeo e Sumatra dove, a farli riaffiorare e spostarli a molti chilometri dai punti in cui erano stati seminati ha provveduto il terribile Tsunami del 26 dicembre 2004. Una cosa del genere era già avvenuta in Nicaragua e Honduras all’epoca dell’uragano Mitch.
Ne sappiamo abbastanza per boicottare la Boeing e le compagnie aeree a basso prezzo, che il viaggio sui Boeing lo fanno pagare una manciatina di dollari, mentre il prezzo del petrolio s’impenna: tagliando le spese per manutenzione, controlli, pezzi di ricambio, formazione del personale, molte compagnie riescono a tener bassi i prezzi dei biglietti, anche quando l’oro nero va alle stelle; poi, quando si verifica una sequenza di disastri, come quella che ha funestato il secondo semestre del 2005, molti hanno la spudoratezza di affermare che l’aereo resta "il mezzo più sicuro" e che gli "assassini sono i cieli".
Siamo sinceri: fare questi nomi è scomodo per tutti, non solo per i giornalisti della televisione. È scomodo per la stampa, ma anche per i sacerdoti, vescovi, missionari, filosofi, teologi cosiddetti "d’avanguardia" e persino per la sinistra più estrema.
Sono nomi che fanno paura, perché a portarli sono persone troppo abituate a farla franca con la giustizia e a mettere nei guai chi "osa" ostacolare i loro piani.
Se non riusciamo a vincere la paura, asteniamoci pure dal fare questi nomi, forse avremo meno grane. Ma evitiamo anche di prendercela troppo con il cda della Rai o di Mediaset, col Grande Fratello o L’isola dei famosi: non è così che daremo al Congo qualcosa che somigli a un aiuto. Non saranno le critiche o le velate allusioni alla Ventura, Venier, Lecciso, Al Bano, Pappalardo, Zequila… a tranquillizzare la nostra coscienza eco-pacifista e a farci sentire più a posto davanti a Dio.

Mario Pace
Fano (PU)

Mario Pace




Non perdere la vista

Malattie dimenticate (3): Oncocercosi (cecità del fiume)

Ha fatto perdere la vista a 270 mila persone, ne ha infettate oltre 17 milioni. E 9 casi su 10 sono in Africa. L’oncocercosi, o cecità del fiume, è seconda in classifica come causa infettiva di cecità, la principale in numerosi paesi africani. In alcune zone dell’Africa occidentale, un uomo su due con più di 40 anni di età non vede più per causa sua. Anche se di rado minaccia la vita delle persone infettate, è responsabile di sofferenza cronica e condiziona l’esistenza dei malati.
Ma la cecità del fiume è anche una malattia che testimonia come sia possibile intervenire in contesti difficili, in paesi poveri. Un programma di controllo della diffusione dell’oncocercosi, avviato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 1974, in collaborazione con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), è stato ufficialmente chiuso nel 1992, sulla base dei risultati raggiunti in 10 paesi su 11 che partecipavano al progetto. Unica esclusa la Sierra Leone, dove gli interventi erano stati interrotti a causa della guerra civile.

LA MAPPA DELLA CECITÀ

L’oncocercosi è una malattia infettiva che colpisce occhi e pelle. È causata da un parassita, un verme introdotto nel corpo umano dal morso di un tipo di mosca: la mosca nera. Il nome cecità del fiume, o cecità fluviale (dall’inglese river blindness), deriva dalla maggiore facilità di essere punti in prossimità di fiumi o torrenti, dove le mosche nere si riproducono.
La malattia è presente in 35 paesi in tutto il mondo: 28 in Africa occidentale e centrale, dove si trova la grande maggioranza dei casi, sei in America Latina (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela) e uno nella penisola arabica (Yemen).

IL VERME RESPONSABILE

Il responsabile della cecità del fiume si chiama Onchocerca volvulus, un verme parassita, la cui prima osservazione risale al 1875. Il parassita può sopravvivere nel corpo umano fino a 14 anni. Le femmine adulte del verme producono milioni di larve microscopiche.
Mentre i vermi adulti si aggregano in noduli sotto la pelle, le larve si diffondono nei tessuti circostanti e nell’organismo fino all’occhio, causando i sintomi e segni della malattia: prurito intenso, lesioni della pelle, maggiore o minore colorazione cutanea, e, a livello oculare, infiammazione, sanguinamenti e altre complicazioni fino alla perdita della vista.
Le ripetute lesioni nel corso degli anni, oltre alla cecità, possono lasciare segni permanenti anche sulla pelle (pelle a leopardo e a lucertola).
L’Onchocerca volvulus è un parassita quasi esclusivo dell’uomo e la mosca nera rappresenta un vettore della malattia, che con le sue punture può trasmettere l’infezione da una persona malata a una sana. Infatti, quando la mosca nera punge una persona infetta, può ingerire le larve che, dai noduli, si diffondono nei tessuti sottocutanei.

UNA VITA SEGNATA DALLA MALATTIA

Ma gli effetti dell’infezione non sono solo direttamente collegati alle manifestazioni cliniche e alla sofferenza causata dalla malattia. Infatti, la cecità del fiume può rappresentare un ostacolo allo sviluppo economico delle zone in cui è diffusa. La paura di essere morsi dalla mosca nera e di contrarre l’infezione ha portato le popolazioni ad abbandonare i terreni fertili nelle zone dell’Africa occidentale, in prossimità dei fiumi. Questi spostamenti hanno avuto un impatto economico negativo, valutato intorno agli anni ‘70 pari a una perdita di 30 milioni di dollari l’anno.
Inoltre, gli effetti invalidanti della malattia sulla visione e le alterazioni permanenti sulla pelle hanno ripercussioni dal punto di vista psicologico e di integrazione sociale per il malato e per i suoi familiari. Accanto alla invalidità causata dalla riduzione o perdita della vista, anche gli effetti della malattia a livello cutaneo condizionano la vita, interferendo con le relazioni sociali, facilitando l’isolamento del paziente, aumentando le sue difficoltà.

LE POSSIBILITà DI SUCCESSO

Come accennato all’inizio, la cecità del fiume rappresenta una testimonianza di come sia possibile intervenire, per interrompere la trasmissione di una malattia anche in contesti poveri. Nel 1974, viste le conseguenze drammatiche della diffusione della malattia nell’Africa occidentale, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), insieme con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), ha costituito il Programma di controllo dell’oncocercosi (Onchocerciasis Control Programme, Ocp).
L’obiettivo era quello di proteggere dalla malattia 30 milioni di persone in 11 paesi: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea Bissau, Guinea, Mali, Niger, Senegal, Sierra Leone e Togo. Inizialmente il programma seguito dall’Onchocerciasis Control Programme prevedeva soltanto l’utilizzo di insetticidi, sparsi da elicotteri e aerei sulle zone ove si riproducevano le mosche nere, per eliminae tutte le larve e interrompere così la trasmissione dell’infezione da uomo a uomo.
A questo, nel 1987, si aggiunse la possibilità di trattare direttamente la malattia nella popolazione con un farmaco efficace, reso disponibile dall’azienda produttrice. In alcune zone sono stati messi in atto entrambi gli interventi, in altre utilizzata solo la terapia.
Nel dicembre del 2002 l’Onchocerciasis Control Programme è stato ufficialmente concluso. È stato calcolato che questo intervento ha evitato 600 mila casi di cecità e ha permesso a 18 milioni di bambini di nascere in zone sotto controllo per quanto riguarda il rischio di oncocercosi.
Inoltre, dal punto di vista dell’economia dei paesi inclusi nel programma e degli effetti negativi conseguenti all’abbandono delle zone a rischio di infezione da parte della popolazione locale, sono stati recuperati 25 milioni di ettari di terreno.

ESPERIENZE
AFRICANE E AMERICANE

Sempre in Africa, nel 1995 ha visto la luce un nuovo programma di trattamento (African Programme for Onchocerciasis Control, Apoc), per contrastare la malattia in altri 19 paesi del continente, non coinvolti dall’Onchocerciasis Control Programme: Angola, Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo Brazzaville, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Guinea Equatoriale, Gabon, Kenya, Liberia, Malawi, Mozambico, Nigeria, Ruanda, Sudan, Tanzania e Uganda.
In questo programma vengono coinvolte direttamente le comunità locali, per contrastare la malattia nei singoli villaggi. I progetti dell’Apoc, nel 2003, hanno trattato 34 milioni di malati in 16 Paesi e l’obiettivo è arrivare a curare 90 milioni di persone ogni anno, proteggere la popolazione a rischio (pari a 109 milioni) e prevenire così 43 mila casi di cecità l’anno.
Infine, anche per l’America Latina, dal 1992 vi è un programma di eliminazione, chiamato Onchocerciasis Elimination Program for the Americas (Oepa), per eliminare la malattia e interrompee la trasmissione, utilizzando il farmaco per curarla nei sei paesi ove è diffusa (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela).
I risultati del 2002 mostrano una copertura, con il trattamento, almeno dell’85% in cinque paesi, più bassa solo in Venezuela (65%).

Valeria Confalonieri

Fonti
o Centers for Disease Control and Prevention:
www.cdc.gov/ncidod/dpd/parasites/onchocerciasis/factsht_onchocerciasis.htm
o Malattie dimenticate:
http://www.malattiedimenticate.net/patologie/cecit%e0%20del%20fiume.asp
o Organizzazione mondiale della sanità:
www.who.int/topics/onchocerciasis/en/
www.who.int/blindness/causes/priority/en/index3.html
o The Unicef-Undp-World Bank-Who Special Programme for Research and Training in Tropical Diseases:
www.who.int/tdr/diseases/oncho/

Valeria Confalonieri