«Vogliamo un’auto e una lavatrice»

Quando milioni di cinesi avranno un’auto e una lavatrice, che sarà del mondo? Se è giusto che anche i cittadini di Pechino abbiano quanto noi abbiamo avuto, è altrettanto certo che le conseguenze su un pianeta già al collasso saranno devastanti. E le soluzioni (ammesso che ci siano) non sono a portata di mano. Nel frattempo, i paesi occidentali sono invasi da prodotti cinesi, spesso fabbricati in condizioni inaccettabili. Concorrenza sleale? Macché, è il sistema neoliberista occidentale che ha introdotto le giustificazioni economiche: deregolamentazione, libera circolazione dei capitali, concorrenza, consumo senza produzione…

L’aspirazione gigantista cinese è ben comprensibile viaggiando lungo la nuova rete autostradale che si sta sviluppando nel paese per migliaia di chilometri: una ragnatela di corsie, arditi viadotti, tangenziali che sembrano voler contenere ipertrofiche megalopoli che ingoiano progressivamente gli anelli d’asfalto appena inaugurati da funzionari di partito con l’elmetto in testa.
Una rete sovradimensionata che sta avvolgendo il paese ma che per il momento vede percorrerla, una volta usciti dalla città, rare automobili, di solito i grossi Suv dei nuovi ricchi che possono permettersi il sacro rito del casello autostradale.
Se oggi le autostrade sono praticamente deserte, fra pochi anni saranno percorse da milioni di automobilisti che, abbandonata la bicicletta, potranno dirsi anch’essi cittadini modei e sviluppati; il boom industriale strappa alla povertà (ma qui bisognerebbe capire cosa si intende con questo termine) milioni di cinesi ogni anno e al momento sono circa 100 milioni coloro che vivono con relativa agiatezza.
Percorrere la nuova autostrada che collega Shanghai con il suo aereoporto è un balzo nel futuro della Cina: quattro corsie che corrono in una giungla suburbana di zone industriali variamente colorate: capannoni gialli, azzurri, grigi (molti quelli delle aziende italiane) si susseguono come tanti mattoncini che compongono un’unica nebulosa urbana su cui incombe un cielo lattiginoso e plumbeo. Questo nastro d’asfalto è una soddisfazione: di giorno le auto riempiono le corsie quasi fossero il sangue delle vene di un organismo, un frenetico fluire di acciaio, gas di scarico, uomini e donne al volante di vecchie carcasse e nuove fuoriserie provenienti da paesi lontani. Ogni tanto, il fluire delle automobili è superato a sinistra dal nuovo treno a levitazione magnetica, una specie di missile simile ad una giostra, forse una dimostrazione di tecnologia per impressionare il turista, o meglio ancora il giornalista o l’uomo d’affari occidentale appena sbarcato nell’«impero di mezzo».

La Cina è tecnicamente pronta all’invasione delle automobili e in generale lo è per qualsiasi altro oggetto di consumo.
La restante parte del mondo lo è in egual misura? La restante parte del mondo è pronta ad accettare (facendo un rapporto all’occidentale tra popolazione e numero di prodotti) seicento milioni di nuove auto, quattrocento milioni di lavatrici, e altre decine di miliardi di pezzi tra computer, cellulari, televisori, condizionatori, lavatrici, nuove case…?
Il mondo è già in overdose di estealità negative legate all’industrializzazione di massa occidentale (vedi «Una sola madre terra», su Missioni Consolata), il premio Nobel James Lovelock, con molti altri scienziati, parla ormai apertamente di estinzione di massa dell’essere umano entro 100 anni a causa di un cocktail ben assortito di cambiamenti climatici, scarsità di risorse e relative guerre.
Un processo non futuribile ma reale, già chiaramente visibile al giorno d’oggi ed in fase avanzata, sostiene lo scienziato inglese ideatore della famosa teoria scientifico-economica che prende il nome di Ipotesi Gaia.
Nonostante questo, che il mondo sia o meno pronto al mortale abbraccio cinese all’american way of life non ha alcuna importanza. L’ingranaggio è partito e fermarlo non sarebbe né giusto né possibile.
«La lavatrice non è un diritto solo per gli occidentali!». Parole sacrosante avute in risposta ad una domanda provocatoria posta a qualche cinese con reazioni emotive che andavano dall’indignato, al furibondo, ovviamente.
Le grandi megalopoli cinesi sono mostri che viaggiano intorno ai venti milioni di abitanti, oltre questa soglia gli urbanisti sostengono che vi sia un collassamento generale delle fognature, dell’ordine pubblico e del trasporto.
In Cina ne esistono almeno quattro ed una di esse, Qongqing è giunta a quota 25 milioni. Girarle non è un’esperienza entusiasmante. La stessa Shanghai è un guazzabuglio di grattacieli, templi del commercio ricoperti di mattonelle bianche, raccordi autostradali su più livelli, un banale tentativo di scimiottare, Parigi, New York, Londra: affoga nell’inquinamento e nel caos. I vecchi quartieri coloniali vengono abbattuti per far posto a grattacieli che dopo dieci anni appaiono già vecchi. Il trionfo del kitch e del cattivo gusto, del grezzo gigantismo assurto a bellezza.
Il tempo della rivoluzione culturale della «banda dei quattro» sembra non essere finito.
Ogni anno 20 milioni di cinesi abbandonano le campagne e si inurbano alla ricerca di lavoro nei cantieri edili, o come camerieri, commessi, manovali nei mercati etc: sono questi uomini e queste donne che provengono dalle sperdute regioni della campagna a carburare la tumultuosa crecita del paese.
La pelle crepata dal sole nei campi, e i lineamenti tradiscono la loro provenienza dalle lontane province cinesi: Inner Mongolia, Sichuan, Tibet…
Sono carne da cannone nel grande balzo moderno cinese: loro non contano nulla nel conteggio del prodotto nazionale lordo, non rientrano in nessuna statistica tanto da non essere nemmeno un costo per le aziende quando si infortunano o muoiono. Chi protesta viene cacciato, tanto il serbatornio di fuggitivi dalle campagne verso la terra promessa vista nella televisione comune di qualche ristorantino sperduto è infinito.
Sono svariati milioni i cinesi utilizzati come schiavi per produrre la merce che poi il consumatore estero, di solito lamentoso «per la scarsa qualità», acquisterà a prezzi stracciati non solo nei nuovi templi pagani (i centri commerciali), ma anche nelle raffinate boutique dei centri storici a prezzi ben più elevati.

Qualche numero. Il 75% dei lavoratori cinesi migranti (milioni di persone, forse 20) non viene pagato, molti di loro come forma estrema di protesta si suicidano.
Ogni anno muoiono 6.000 minatori. Sono decine di migliaia i bambini che lavorano come schiavi nelle fabbriche.
I manifestanti sono spesso considerati rivoltosi che attentano all’ordine sociale del paese, una minaccia da stroncare con qualsiasi mezzo. Ma il vigoroso sviluppo economico non trova sostegno solo nello sfruttamento delle masse ma anche in selvaggio utilizzo dell’ambiente e delle risorse.
Il 90% dei fiumi cinesi è avvelenato, uguale situazione per il 70% delle acque sotterranee.
La Cina brucia un miliardo e settecento milioni di tonnellate di carbone ed è il quinto consumatore mondiale di petrolio (entro pochi anni diventerà il secondo). Sulla Cina grava una cappa di smog solforosa che copre praticamante tutto il paese e che trasportata dai venti arriva fino in Europa e negli Stati Uniti.
In un recente libro scritto dal ministro per l’economia Giulio Tremonti vi è un accorato appello a invertire questa situazione con mezzi drastici, fosse anche con un nuova politica protezionista.
Il ministro però non parte da una visione olistica, ma da un assunto economico nazionalista. In sintesi: il consumatore occidentale nel suo delirio onnivoro a basso prezzo made in China sta distruggendo l’economia europea perché fa sì che gli imprenditori esportino capitali e conoscenza tecnologica in Cina ed importino povertà.
La teoria deregolamentatrice degli anni Novanta che va sotto il nome di globalismo o globalizzazione, ha portato a questi risultati. Gli imprenditori occidentali hanno accolto felicemente questa deregolamentazione transnazionale massiccia, che ha fatto piazza pulita della figura del lavoratore con cui contrattare onerosi aumenti di salario, o peggio il miglioramento delle condizioni di lavoro, o peggio del peggio la diminuzione dell’orario a parità di paga.
Tutti retaggi di stampo comunista non assimilabili da un sistema economico moderno e competitivo, dicevano.
Finito in soffitta il lavoratore, in Europa è assurta la figura del consumatore, ovvero colui che spende il proprio denaro, sempre più spesso facendo ricorso ai debiti, per riempirsi la vita di cose di per sé inutili (come dice il famoso pubblicitario Frederic Beigebeder «chi è felice non consuma») ma che una potente campagna di marketing ci fa vedere come indispensabili.
Il consumo senza produzione è il meccanismo diabolico che sta tenendo in piedi le obese economie occidentali di servizio e finanziarie, totalmente drogate.
Un esempio: tutti i telefonini che avete in casa, il primo, il secondo, il terzo, le macchine fotografiche, i dvd, i televisori etc. etc. sono prodotti in Cina. Nessuno di quei pezzi di plastica e microchip è prodotto da italiani.
La parola magica per questo processo è stata competitività: ovvero il lavoratore dipendente italiano, francese, tedesco, … è entrato in diretta competizione con il cinese che vive nelle condizioni di cui sopra. Non così i proprietari dei mezzi di produzione che hanno invece approfittato delle occasioni date dalla libera circolazione dei capitali: il capitale trova sempre la migliore allocazione possibile, dopo tutto è il suo mestiere.
È evidente che solo il ricorso al debito può sostenere i consumi in questa situazione e infatti paesi come l’Italia navigano a vista in un mare di stagnazione economica.
Grande impulso a queste dinamiche economiche, viste come la panacea di ogni problema, è stato dato dai governi degli anni Novanta partendo dagli Usa (Clinton), passando dalla Francia (De Villepein), Italia (Prodi, D’Alema, Amato), Germania (Schroeder), Inghilterra (Blair)…
Tale politica ha trovato sponda negli imprenditori, giustamente ansiosi di aumentare il saggio di profitto ma soprattutto dai sindacati che da sempre lottano per difendere i lavoratori…
Al tempo, fine anni Novanta, andava di moda dire che «se il mare del capitale si fosse alzato, tutte le barche sarebbero cresciute».
Ma la storia talvolta compie capriole. Chi avrebbe mai pensato che un ministro iperliberista dell’economia come Giulio Tremonti definisse «deliranti» le politiche economiche di Wto, Fmi, World Bank, degli anni Novanta mentre il cosiddetto popolo noglobal si trovasse ad aver ottenuto inaspettatamente quello per cui protestavano a gran voce: la riduzione della povertà nei cosiddetti paesi i via di sviluppo.
Il mondo vive quindi un periodo caratterizzato da una potente «redistribuzione» della ricchezza. Gli italiani, i francesi, e gli altri stanno un pizzico meno bene, mentre sempre più asiatici smettono di coltivare riso e inurbandosi migliorano le loro condizioni di vita. Molti sono usati come schiavi, altri si emancipano: ubi major minor cessat nel 2006?

Il problema, che nessuno vuole guardare perché semplicemente non risolvibile, è che per sostenere il ritmo di crescita cinese siamo di fronte ad un vigoroso affondo contro l’ecosistema planetario, visto solo come capitale naturale con cui alimentare la crescita materiale.
La Cina urbana è un incubo che dovrebbe far tremare i polsi ai governi mondiali che invece se ne rallegrano. Lo stile di vita all’americana è un’ossessione che pervade ormai la vita di centinaia di milioni di cinesi che vivono per poter avere la stessa vita di uno statunitense o europeo.
È bene sottolineare che questo desiderio è sacrosanto, ma diventa un pericolo in funzione della finitezza delle risorse naturali (chi sostiene che il concetto di risorsa non esiste perché è l’ingegno umano a creare le risorse attraverso le tecnologie si scontra inesorabilmente con il primo e secondo principio della termodinamica che, ahinoi, lasciano poco spazio a bislacche fantasie di moti perpetui o energie infinite)
Quante foreste bisognerà abbattere, quanto pesce pescare, petrolio e carbone bruciare, etc per soddisfare un paese di 1,3 miliardi di persone che cresce al ritmo del 10% annuo?
E dato che l’economia è una coperta corta (se tiri da una parte si scopre l’altra) le potenze occidentali saranno veramente disposte a cedere le residue risorse strategiche ai cinesi vogliosi di vivere nel benessere materiale, lo stesso nel quale hanno sguazzato per sessant’ anni statunitensi, francesi, tedeschi, italiani etc?
Qualsiasi cosa accada esistono dei feedback negativi che investiranno il pianeta.
Eppure quello che è un vero disastro per tutti è vissuto come una conquista, come una possibilità di crescita. Un’illusione tipica delle società che collassano, le prove lasciate dagli abitanti dell’isola di Pasqua, dai Maya o dagli abitanti della Groenlandia ne sono un esempio.
La locomotiva Cina ci sta portando tutti su una montagna russa altissima e noi siamo o sull’apice o all’inizio della discesa. Auguri.

3a puntanta. Le precedenti puntate di questo reportage dalla nuova Cina sono state pubblicate a dicembre 2005 e gennaio 2006. Gli articoli sono reperibili su questo sito internet.

Giacomo Mucini




LAVORARE INSIEME, LAVORARE BENE

L’obiettivo numero otto tira le fila dell’impegno del millennio. Se ciascuno non compie la sua parte, nessuna meta viene raggiunta.

Se i primi sette obiettivi di sviluppo del millennio non fossero bastati per sentirsi chiamati in causa in prima persona a difesa dei diritti per tutti, l’ottava meta richiede nero su bianco l’impegno dei paesi più sviluppati nei confronti di quelli più poveri. Lo sviluppo dell’economia, della salute, dell’istruzione, della distribuzione di servizi e opportunità uguali per tutti dipende dal lavoro dei governi dei paesi poveri, con l’aiuto e il sostegno di quelli dei più ricchi. L’obiettivo numero otto rappresenta il sigillo degli impegni presi all’inizio del millennio, come a dire che il raggiungimento dei primi sette dipende dall’impegno di tutto il mondo, ciascuno per la sua parte.

Impegno e sostegno

Le nazioni più e meno sviluppate stringono dunque una sorta d’alleanza, perché la strada verso i primi sette obiettivi del millennio sia percorribile da tutti. I paesi poveri lavoreranno per sostenere le economie, per assicurare lo sviluppo e sostenere le necessità umane e sociali.
Dal canto loro, le nazioni più ricche sosterranno questo sforzo e questo lavoro, con diverse azioni. Viene richiesto loro di aumentare gli aiuti allo sviluppo e a ridurre con rapidità il debito estero dei paesi poveri. Nel settore dell’economia e delle esportazioni, si domanda una maggiore attenzione alle difficoltà di chi ha un’economia meno sviluppata a proporsi, garantendo regole commerciali più eque. Le nazioni ricche sono chiamate anche a cornoperare nel risolvere la questione dell’impiego dei più giovani e dell’accesso ai farmaci essenziali, oltre che a migliorare la disponibilità di nuove tecnologie, con un loro trasferimento nelle zone più povere.
Questi alcuni esempi dei passi indicati, per dare la possibilità alle nazioni meno sviluppate di costruirsi un’economia e un commercio, di avere uno sviluppo autonomo, di offrire un futuro alla popolazione, adulti e bambini, maschi e femmine. Soffermandosi per esempio sulla questione dell’occupazione dei giovani, non può essere dimezzata la povertà entro il 2015 (primo obiettivo), se non si sostiene il mondo del lavoro e non si offrono possibilità di impiego.
Fra il 2003 e il 2015 ci si aspetta che entrino nel mondo del lavoro circa 514 milioni di persone in più. La capacità di assorbire questo aumento dipende dagli sforzi compiuti per una politica di impiego, per la formazione di opportunità lavorative per i giovani: nei paesi più poveri la probabilità di un giovane di essere disoccupato è tripla rispetto a un lavoratore più anziano.

buone intenzioni
sulla carta

Secondo un rapporto 2003 del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), i paesi che potrebbero sostenere finanziariamente lo sviluppo delle nazioni più povere sono più ricchi ora di un tempo; nonostante questo, i fondi destinati alla cooperazione internazionale si sono ridotti. Eppure, per ottenere gli obiettivi del millennio, sarebbe sufficiente lo 0,5% del prodotto interno lordo (Pil) dei 22 paesi più ricchi, pari a 100 miliardi di euro l’anno.
Nel lontano 1970 le nazioni ricche si erano prese l’impegno (ribadito a Monterrey nel 2002) di destinare lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione internazionale: a oggi la percentuale raggiunta viaggia intorno allo 0,2%.

Difficile commercio

Sul tema degli scambi commerciali fra paesi ricchi e poveri, la perdita annuale di questi ultimi dovuta alle barriere doganali supera i 100 miliardi. Per esempio, i dazi sull’esportazione di Africa, Asia e America Latina nell’Unione Europea arrivano al 162% del prezzo del grano.
Un altro ostacolo alle esportazioni è rappresentato dai sussidi, che diminuiscono la competitività dei prodotti dei paesi poveri: nell’Unione Europea una mucca riceve oltre 2 euro di sussidi al giorno, più di quanto guadagna la metà della popolazione mondiale.
Se Africa, Asia e America Latina potessero aumentare anche solo dell’1% la percentuale di esportazioni, sempre secondo il rapporto dell’Undp, quasi 130 milioni di persone non sarebbero più povere. Infatti, per il solo continente africano questo incremento del commercio porterebbe con sé 70 miliardi di euro, pari a cinque volte gli aiuti inteazionali che riceve.

Cancellazione dei debiti

Altro tema caldo riguarda il condono, o quanto meno la riduzione, del debito estero, per il quale i paesi poveri versano ogni mese circa 12 miliardi di euro: questa cifra basterebbe per far seguire le scuole primarie a tutti i bambini di ambo i sessi. Sempre pensando all’infanzia, secondo l’Unicef le politiche messe in atto dai governi per restituire gli interessi sul debito sono causa della morte di mezzo milione di bambini.
Per fortuna qualche buona notizia c’è. È stato calcolato che le iniziative finora prese per la riduzione del debito hanno permesso in alcuni paesi di investire risorse finanziarie nel settore dell’educazione (in Uganda quasi tutti i bambini si iscrivono alle elementari) e della sanità (Mali, Mozambico e Senegal hanno potuto investire nella lotta all’Hiv/Aids).
Alla fine del 2005, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha annunciato una riduzione del debito di 3,3 miliardi di euro per Benin, Bolivia, Burkina Faso, Cambogia, Etiopia, Ghana, Guyana, Honduras, Madagascar, Mali, Mozambico, Nicaragua, Niger, Rwanda, Senegal, Tagikistan, Tanzania, Uganda e Zambia. Questa riduzione ha risvolti positivi e negativi. I paesi beneficiari non dovranno restituire quanto ricevuto e non dovranno più pagare gli interessi periodici.
È anche vero però che corruzione, instabilità politica, guerre, barriere doganali ostacolano comunque il crescere dell’economia e quindi l’equazione meno debito più investimenti non si realizza automaticamente.
Vi è poi un altro aspetto del condono del debito da tenere presente, che riduce almeno in parte l’ottimismo: i paesi beneficiari restano segnati come inadempienti nei confronti dell’impegno di restituzione preso. Considerato che sono paesi poveri e che verosimilmente avranno bisogno di prestiti in futuro, potrebbe essere più difficile per loro ottenerli, perché considerati inaffidabili, oppure, verranno chiesti loro interessi ancora più alti.

Collaborazione
senza scadenza

L’obiettivo di sviluppo del millennio numero otto è l’unico per il quale non sia stata prevista una scadenza, né indicatori precisi che ne possano segnalare i progressi compiuti. Solo un generico impegno dei 189 stati firmatari degli obiettivi del millennio a promuovere interventi entro il 2015 su: cooperazione allo sviluppo, debito estero, commercio internazionale, trasferimento delle tecnologie. Non ci sono dunque sistemi di controllo dell’impegno assunto dai paesi ricchi e poveri, ciascuno per la sua parte, nei confronti degli abitanti del pianeta, se non indirettamente, sulla base dei risultati ottenuti negli altri sette obiettivi.
Questa particolarità si presta a una duplice lettura. Una pessimista: nessun controllo possibile, nessun numero preciso con il quale inchiodare di fronte alle sue responsabilità chi non rispetta l’impegno. L’altra ottimista: è un impegno per sempre, senza scadenza, che mantiene il suo valore e la sua importanza al di là del raggiungimento di un termine temporale o di risultati quantificabili.
Una cooperazione senza tempo fra tutti i paesi per un futuro comune da costruire insieme. Si può provare a pensarla così, tenendo d’occhio tuttavia la realtà che ci circonda, vicina e lontana, per verificare ogni giorno gli impegni assunti nei confronti del mondo.

Valeria Confalonieri




011-Cos’ sta scritto – «A immagine di Dio lo creò»

«Egli è l’immagine del Dio invisibile»

Il mese scorso abbiamo stabilito i termini e il loro significato di base. Ora diventa più agevole approfondie il senso nascosto, oltre il testo, per addentrarci nel mistero della coppia. In questa esplorazione applichiamo la ghematrìa o scienza che esplora il significato dei numeri corrispondenti alle lettere dell’alfabeto ebraico, secondo l’uso comune alla tradizione giudaica e ai padri della chiesa dei primi secoli.
Intoo al xii sec. d.C., chiusa da secoli la fase di raccolta della tradizione orale (Mishnàh e Talmud), nell’ebraismo si sviluppa un genere letterario detto Qabalàh o Càbala (in ebraico significa tradizione/ricezione/accoglienza), che rappresenta il vertice della conoscenza: è la mistica, la sintesi della Mishnàh e del Talmud; l’ultimo gradino della perfezione, riservato agli iniziati introdotti al segreto (sod) della conoscenza per acquistare il dono/ricezione della luce.
L’opera letteraria, il codice della Qabalàh è il Sefer ha-zohar o solo Zohar (Libro dello splendore), a cui si rifanno i successivi movimenti mistici ebraici fino a oggi. La Qabalàh può riportare tradizioni antiche, che bisogna individuare di volta in volta sui singoli testi.
Il criterio esegetico prediletto dalla Qabalàh è la ghematrìa o scienza dei numeri: a ogni consonante (l’ebraico ha solo consonanti, le vocali sono secondarie) corrisponde un numero, per cui le composizioni che si possono ricavare con i relativi significati sono infiniti. Il processo è complesso e noi ci limitiamo ad alcune applicazioni.
Zakàr/pungente/maschio in ebraico si scrive zkr e ha un valore numerico di 22; neqebàh/perforata/femmina si scrive nqbh e ha un valore di 157.

La differenza tra maschio e femmina è 70 (227-157=70): è lo stesso numero che si ottiene sommando le consonanti dell’espressione ebraica Adam weChavàh/Adam ed Eva.

All’epoca della bibbia, intorno al sec. x a.C., si calcolava che la terra fosse abitata da 70 popoli, per cui l’espressione Adam weChavàh/Adam ed Eva comprende la totalità del genere umano, un modo per dire che tutti i popoli hanno una sola origine: nella prima coppia creata da Dio.
Anche la qabalàh si basa sul n. 70, perché corrisponde alla parola ebraica sod (60+6+4 = 70), che significa «segreto» della conoscenza e della mistica. Il «segreto» della coppia umana è nella loro differenza; dall’altra parte il suo mistero è nella totalità della sua umanità: l’unione tra maschio e femmina è il segno dell’unità del genere umano (70 = tutti i popoli della terra).

Prima di creare la coppia umana, Dio crea l’ambiente, il cielo e la terra; e prima ancora crea la luce, come orizzonte del creato e dimensione della coppia: in ebraico luce si dice «’or» e ha un valore numerico pari a 207.

L’espressione come la luce si dice ke-’or e il suo valore è la somma della luce (=207) e della lettera k/come (=20) 227, cioè lo stesso numero di zakàr/maschio.
L’ultima espressione come la ricezione della luce in ebraico si dice ke-qabalàh e corrisponde al numero 157 cioè lo stesso numero della neqebàh/femmina.

Il valore della lettera ebraica K (kaf=20) si ritrova sia nel maschio, perché lo paragona alla luce che viene offerta (207 [luce] + 20=227 [maschio]), sia nella femmina, perché la paragona alla luce che viene ricevuta e accolta (157 [femmina] – 20=137). Il n. 137 è il valore di qabalàh/ricezione/ accoglienza: la femmina in quanto luce ricevuta e accolta è simbolo del mistero e della mistica, il vertice e la sintesi di tutta la tradizione scritta e orale, ovvero della qabalàh [=137].
All’alba della vita, Dio crea la luce prima del maschio e della femmina, per fare della loro unione il segreto della conoscenza. «Conoscere/yadà’» nella bibbia è sinonimo di rapporto sessuale.
Adam ed Eva nel giardino di Eden erano senza vestiti, perché il loro vestito era la luce di Dio che risplendeva sulla loro pelle. In ebraico pelle si dice ‘or, parola simile a luce che si dice ’or (tra le due parole cambia solo la 1a consonante, che corrisponde al piccolo segno che sembra una virgoletta): ’or/luce e ‘or/pelle. Nel parlare si sente l’assonanza.

Dice una tradizione che la pelle dei corpi di Adam ed Eva era luminosa: come la luce/ke-’or. La pelle divenne opaca dopo il peccato e per questo si accorsero di essere nudi: si era spenta la «luce» della grazia che li rivestiva.
Dio procura alla coppia nuda (Gen 3,21) un vestito di tuniche di pelli ricavate dagli animali morti e scuoiati: Adam ed Eva hanno il sigillo della loro mortalità nel vestito della loro opacità. La coppia, perduto il vestito della pelle luminosa, deve coprire la propria opacità con pelle di animali morti, impegnando la propria esistenza nel tentativo di recuperare la somiglianza perduta. La morte entra a fare parte della natura umana e ne diventa il vestito, il contenitore e la morsa.
La vita della coppia diventa così un costante impegno a ricostruire ciò che era al «principio», cioè l’espressione visibile di una luce misteriosa che emana il senso di Dio/Amore. Prima del peccato originale, l’amore era la stessa natura del maschio/femmina, cioè armonia di perfezione; dopo il peccato l’amore diventa un impegno, una conquista, ma anche una sofferenza.
Gesù viene a portare solo questa rivelazione: Dio/Padre è Amore che vuole ricomporre l’armonia iniziale della creazione nella persona del Figlio suo, nella sua morte e risurrezione. Il senso finale della redenzione è la ri-creazione dell’immagine perfetta di Dio (Col 1,15-20).
La parola «Amore» in ebraico è ’ahabah" (valore numerico 13) e il Nome santo di Dio è Yhwh (valore numerico 26).

A nche la parola «esistenza/hawayah» ha il valore numerico di 26. Yhwh (=26) è la vita/esistenza (=26). Creando zakàr/maschio e neqebàh/femmina, ha diviso la vita in due e ne ha dato metà al maschio (13), metà alla femmina (13). Se vogliono ritrovare la loro immagine iniziale e vivere la vita di Dio (=26), essi devono sommare la parte di amore che hanno ricevuto per esprimere la totalità dell’esistenza (13+13=26), che si manifesta nella generatività di padre, di madre e del figlio generato, secondo lo schema seguente.

Maschio e femmina uniti come zakar e neqebàh diventano padre e madre, cioè sorgente della vita: nella ghematrìa la somma numerica di padre (3) e di madre (41) dà il figlio (3+41=44).
Se Dio è l’Amore e questo è l’esistenza partecipata, vivere acquista senso solo in una dimensione di amore che a sua volta trasforma e rigenera il maschio in padre e la femmina in madre, che sommati insieme formano una nuova esistenza, una vita nuova per ricominciare il ciclo luminoso della creazione.
Amare è sempre un ritorno alle origini, al «principio» dell’intimità con Dio (Gen 3,8). Il Talmud babilonese, nel trattato Sotah17a, ce ne dà la conferma: «Quando l’uomo e la donna sono degni (dell’amore), la Shekinàh/Presenza di Dio è con loro; quando invece non ne sono degni il fuoco li consuma». •

Paolo Farinella




ASINO vs CAVALLO

Oltre al fatto storico, l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme è un evento «teologico»: rivela la sua natura messianica. Egli ha voluto cavalcare un asino, simbolo di umiltà, di servizio e di pace, anziché un cavallo, simbolo di superbia, di guerra e di potenza militare. In tale gesto Gesù si rivela e propone come modello da imitare: «Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore».

La domenica delle palme, o domenica di passione, è tra le più sentite dai cristiani che affollano le chiese per la benedizione dei rami di ulivo e delle palme intrecciate, vissuti più come strumenti innocui di magia, che segni di una straordinaria rivelazione.
Il racconto è riportato da tutti e tre i sinottici (Mt 21,1-11; Mc 11,1-11; Lc 19,29-40) che dimostrano il profondo significato che i primi cristiani attribuivano a questo avvenimento.
La partenza dal villaggio di Betfage e l’arrivo trionfale di Gesù a Gerusalemme a dorso di un’asina non è solo un evento storico, ma un fatto «teologico» con cui gli evangelisti ci vogliono dire qualcosa della personalità di Gesù.
Per questo tragitto di un chilometro e mezzo, che si rivela un trionfo di popolo, Gesù cavalca un’asina e non un cavallo. Cavalcando l’asina, Gesù realizza la profezia del profeta messianico Zaccaria, citato espressamente nel racconto di Matteo: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma» (Mt 21,5; cf Gv 12,15; citazione di Zc 9,9).
Secondo sant’ Ambrogio l’asino è simbolo dell’uomo umile che impara a offrire se stesso a Cristo per portarlo nel mondo.
Il messia è «il principe della pace» (Is 9,5) e può entrare in Gerusalemme solo cavalcando un’asina, perché uno dei suoi compiti sarà quello di fare sparire i cavalli e i carri da guerra (cf Zc 9,9-10). Secondo Luca Gesù cavalca un asinello sul quale nessuno è mai salito prima (cf Lc 19,30): è la novità inaugurata dall’èra messianica.
Quando vogliono farlo re alla maniera del mondo (Gv 6,44) Gesù fugge perché la logica delle «beatitudini» (Mt 5,1-10) è in contrasto con i criteri del potere mondano (Gv 1,10; 15,18-19; 17,9-11; 1Cor 2,6; Mc 10, 40-45; ecc.). Cavalcando un’asina per il suo ingresso nella città di «Davide, suo padre» (Lc 1,32) che lo riconosce «figlio di Davide» (Mt 21,9), Gesù fa una scelta di campo e di metodo: sceglie i poveri e i bambini come cittadini privilegiati del suo regno messianico, le cui relazioni saranno guidate dal metodo della nonviolenza contro ogni forma di sopraffazione e ogni forma di guerra, simboleggiate nel «cavallo». La tradizione biblica oppone i due animali.

L’asino è simbolo del lavoro e della pace, è bestia da lavoro (Gen 22,3.5; 42,27; 44,13; Es 4,20; 23,4-5; Nm 22,22-23; Dt 22,10; Gs 15,18; Gdc 1,14; 1Sam 25,20.23; 2Sam 17, 23; Lc 10,34), fa girare le macine dei mulini (cf Is 30,24; 32,20; Mt 18,6) e in Egitto le ruote dei pozzi. L’asino non è mai usato come «arma» di guerra.
Il cavallo, animale superbo e solenne, non è mai usato per i lavori dei campi, ma è utilizzato solo per i combattimenti come una vera macchina da guerra (Sal 20,8; 33,17; 76,7; 147,10; Pr 21,31; Is 31,3; Os 1,7). È considerato arma pesante, specialmente se unito al «carro», ed esprime la «potenza» di chi li possiede. L’espressione «cavallo e cavaliere» diventa espressione tecnica per indicare una perfetta macchina da guerra inarrestabile, che solo Dio sa affrontare e distruggere (Es 15,1.21; Gb 39,18; Ger 51,21).
Carri e cavalli rivelano una supremazia bellica, un forte deterrente contro eventuali attacchi. L’uomo che ostenta la sicurezza dei suoi cavalli armati di carri è il faraone, simbolo stesso del nemico di Dio, emblema del persecutore e oppressore (Es 14,9.23). Oggi corrisponderebbe a un carro armato missilistico.
Il profeta Zaccaria (citato da Mt 215) prosegue così: «Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco della guerra sarà spezzato, annunzierà pace alle genti» (Zc 9,10). Carri e cavalli cioè l’ignominia della guerra (cf Is 2,1-5).

Di norma i figli d’Israele combattono a piedi, risultando così molto lenti di fronte a chi è più forte e potente, ma è proprio questa la loro specificità. Non è Israele che combatte e vince o perde, ma è Dio che combatte per Israele, se essi non confidano nella potenza esteriore o nel numero, ma hanno fede in Yhwh che li protegge da ogni pericolo e sopruso.
Mosè prima di morire aveva messo in guardia: «Quando andrai in guerra contro i tuoi nemici e vedrai cavalli, carri e un popolo più numeroso di te, non ne avere paura: perché il Signore tuo Dio è con te, lui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (Dt 20,1-4, qui v. 1), cioè ti ha liberato dalla pre-potenza del faraone nonostante i suoi carri e i suoi cavalli.
Mosè può dire queste parole perché aveva già sperimentato che la vittoria sul feroce Amalek non è dovuta alla forza del suo esercito, ma alla sua preghiera: «Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek» (Es 17,9-15).
La preghiera è lo scudo del credente in ogni avversità della vita, fisica o spirituale. I martiri di tutti i tempi hanno sempre vinto i loro aggressori non con le spade, ma con la preghiera fino al dono della vita.

Nel 703/702 a. C., il re Ezechia invia un’ambasciata in Egitto, la potenza mondiale dell’epoca, per chiedere aiuto contro l’Assiria di Sennacherib: una piccola e insignificante nazione vuole schierarsi accanto alla «grande potenza», per non essere schiacciata e avee un tornaconto.
Contro questa politica di alleanze di comodo si schiera il profeta Isaia, che profetizza: «Guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo d’Israele e senza cercare il Signore» (Is 31,1).
Il profeta pensa a quanto è avvenuto in un altro viaggio, dall’Egitto alla terra promessa, nell’esodo, quando il faraone si credeva forte perché aveva un potente esercito, che nulla ha potuto contro gli ebrei inermi, privi di armi, ma guidati dal Signore che camminava alla testa della colonna durante il passaggio del Mar Rosso: «Ha gettato in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato… I carri del faraone e il suo esercito ha gettato nel mare e i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mar Rosso. Gli abissi li ricoprirono, sprofondarono come pietra» (Es 15,1-5).
In Israele, il re Salomone costruisce il suo regno sui carri e i cavalli: «Salomone aveva 4 mila scuderie per i cavalli dei suoi carri e 12 mila cavalli» (1Re 5,6), eppure il suo regno dura poco, perché alla sua morte si disintegrerà per sempre e non si ricostruirà mai più.

La riforma deuteronomistica del sec. vii a. C. aveva profetizzato che il futuro re d’Israele, antenato del Messia, sarebbe stato colui che «non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli, né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi gran numero di cavalli» (Dt 17,16), perché il potere del re d’Israele deve essere un potere opposto a quello del faraone: «Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli; noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio» (Sal 21/20,8).
In questo contesto, il profeta Zaccaria annuncia il re-messia, che cavalca un asino, anzi un puledro di asina, cioè un animale mite, ma anche fragile e debole come un puledro. Cavalcando un’asina per entrare in Gerusalemme, si presenta come l’erede messianico del re Davide che viaggiava sulla mula e non sul cavallo (cf 1Re 1,38) e come colui che ha del potere un concetto di servizio e non di sopraffazione: «Voi sapete come coloro i quali sono ritenuti capi delle nazioni le tiranneggiano, e come i loro prìncipi le opprimono. Non così dev’essere tra voi; ma piuttosto, se uno tra voi vuole essere grande, sia vostro servo, e chi tra voi vuole essere primo, sia schiavo di tutti. Infatti il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).
Il suo regno veramente non è di questo mondo (cf Gv 18,36)! Un re che viene su un asino non incute terrore, ma ispira mitezza, perché si presenta sulla cavalcatura usuale che i contadini utilizzano ogni giorno. Il re-messia è uno di noi che sta dalla nostra parte. Non viene per estorcere o per occupare, ma per servire il suo popolo e guidarlo con una politica di pacifico governo: «Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal 23/22, 2-4).

L’asino si oppone anche all’uomo ottuso che non comprende la parola di Dio. L’episodio dell’asina di Balaam (cf Nm 22,23-35) mostra che, a differenza dell’uomo, questo animale sa scorgere la presenza dell’angelo di Dio, riconoscendolo, mentre il suo padrone pretendeva di essere un «veggente» e parlare in nome di Dio. L’asina vede ciò che il «veggente» non ascolta.
Nella domenica delle palme la folla acclama Gesù come messia e lo accompagna nel suo ingresso in Gerusalemme, la «Figlia di Sion» (Zc 9,9); ma dopo tre giorni, davanti a Pilato che lo mostra e lo propone come loro messia (Cristo), la stessa folla griderà di crocifiggerlo: «Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo (unto/messia)?… Che farò di Gesù chiamato il Cristo? Tutti gli risposero: Sia crocifisso!… Che male ha fatto?… Essi allora urlarono: Sia crocifisso!» (Mt 27,17-23).
Colui che si è presentato a dorso di un’asina, re pacifico e nonviolento, anche se crocifisso non può difendersi con gli eserciti all’uso del mondo: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36).
Al contrario, egli è capace di dare la sua vita in cambio di un brigante. In aramaico «Barabba» significa «figlio di papà (bar-abbà), mentre Gesù di Nazareth è «il Figlio del Padre» (in aramaico: Bar-Abbà), anzi «l’Unigenito» (Gv 1,14.18; 3,16.18; 1Gv 4,9), che è venuto per salvare tutti i «figli di papà» smarriti nelle strade del mondo, anche gli assassini, i terroristi, coloro che sono giudicati come feccia e rifiuto dell’umanità, quelli che butteremmo tra le fiamme dell’inferno, perché abbiamo un senso della giustizia lontanissima da quella di Dio. In Dio, infatti, la giustizia è sinonimo di misericordia.
Se il re-messia crocifisso fosse stato «giusto» alla maniera degli uomini, avrebbe dovuto invocare da Dio la vendetta contro i suoi carnefici e non avrebbe infranto la toràh: sarebbe dentro la logica legale dell’«occhio per occhio» (Es 21,24).
Il Figlio dell’uomo, però, cavalca un’asina e, quando è crocifisso, prima di abbandonarsi totalmente nelle mani del suo «Abbà», egli invoca il perdono di Dio sui suoi carnefici, come atto supremo di giustizia, perché soltanto nel perdono avviene il superamento della colpa: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Se fosse venuto sul cavallo avrebbe impugnato la spada, ma poi non avrebbe potuto imporre a Pietro di riporla nel fodero, perché la spada è l’emblema della violenza che chiama violenza (Mt 26,52) e non avrebbe potuto perdonare i suoi uccisori, ma avrebbe dovuto massacrarli.
Egli al contrario sconvolge ogni sistema di ragionamento, capovolge la logica del «buon senso» e si presenta a dorso di un’asina, mite e pacifico, ponendosi come modello e come pietra di paragone: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29). In questo modo s’identifica con tutti i poveri che lo avevano preceduto (cf Sof 2,3; Dn 3,87) e con tutti i poveri «figli di papà/barabba», disperati, che sarebbero venuti dopo di lui.
La discriminante della verità di Gesù è un’asina, la cui presenza ci rivela molto di più della personalità di Gesù di quanto non possiamo immaginare. Non ci resta che andare anche noi nel villaggio vicino a cercare un’asina con un puledro e fae un simbolo di credenti nel nostro re che viene «mite, seduto su un’asina» (Zc 9, 9; Mt 21, 5)

Paolo Farinella




Casa mia, casa mia …

Dietro portoni anonimi, si nascondono piccoli angoli di paradiso, con cortili, saloni per ricevere gli ospiti, stanze private, terrazzi, giardini… Sono le abitazioni della città storica di Damasco: esse rispecchiano le antiche tradizioni della famiglia patriarcale estesa. Ma il progresso sta introducendo nuovi stili di vita, a scapito dell’unità familiare sia nelle comunità arabe che in quelle musulmane.

Nel passato la struttura della casa araba corrispondeva generalmente alla struttura della famiglia patriarcale estesa. La casa non solo come luogo in cui una famiglia viveva ma anche come spazio di incontro e scambio con l’altro. Spazio in cui vivere tutti i momenti e le circostanze importanti della storia di una famiglia. Infatti veniva utilizzata soprattutto nell’organizzazione di matrimoni, battesimi, circoncisioni e anche momenti meno felici come i funerali. Nella società attuale la casa ha mantenuto in parte questa sua funzione sociale, anche se il progresso, il cambiare dei costumi e il distaccamento dalle tradizioni ha, in certe classi sociali, introdotto nuovi stili di vita.
L’abitazione araba tradizionale si sviluppa tutta verso l’interno. Una corte sulla quale si affacciano la cucina, il salone per gli ospiti, la sala da pranzo e le camere da letto. Generalmente nelle campagne è a un solo piano mentre nelle città possono esserci uno o più piani. La sua struttura, le cui origini risalgono all’antica Mesopotamia, ai greci e ai romani, la possiamo ritrovare in molti paesi mediterranei, come il Marocco, Tunisia, Egitto oltre naturalmente ai paesi della penisola araba.

Più volte, durante i miei soggiorni a Damasco, ho avuto l’occasione di entrare in una delle abitazioni tradizionali nella parte storica della città. La cosa che mi colpì molto è che nel groviglio di vie della medina (così chiamato in arabo il centro storico) si possono vedere solo le porte delle case. Porte semplici, tutte uguali, molto piccole. Ma dietro queste porte possiamo scoprire dei piccoli paradisi.
Nelle case di Damasco, prima di entrare nella loro intimità, un ospite deve attraversare un corridoio, chiamato dihliz, che rappresenta con la porta il passaggio dalla vita pubblica a quella privata, un modo per preservare, in un certo senso, la privacy della famiglia. Esso conduce alla corte, la diyyara.
In alcune case sulla corte si apre il liwan, un ambiente a volta, al riparo dai raggi del sole, spesso più alto rispetto al cortile, dove, durante i mesi estivi si accolgono gli ospiti. Il suo arco ricorda quello dell’entrata alla moschea. Durante i mesi invernali, invece, gli ospiti vengono accolti nella murabb’a, un salone di forma quadrata, (in arabo arb’a significa quattro), che si affaccia sulla corte.
Questo salone rappresenta per la famiglia damascena l’ambiente di rappresentanza per eccellenza. In ogni casa, anche tra quelle più modeste, c’è sempre una stanza dedicata agli ospiti. Una stanza aperta solo per occasioni speciali. Una stanza in cui mettere le foto della famiglia, in cui custodire regali e oggetti importanti. Nelle abitazioni più antiche questo luogo è rifinito con decorazioni e stucchi. La luce filtra da alcune piccole finestre colorate con mosaici di vetro. Esse permettono l’entrata dei raggi del sole e della luna. Per questo sono chiamate shamsiat o qamariat (shams in arabo vuole dire sole e qamar luna).
La mashrabiyya è l’unica finestra della murabb’a che si affaccia sulla strada, interamente di legno, permette alle donne di vedere la strada senza essere viste. La mashrabiyya prende il nome dallo schermo che la compone, uno schermo fatto con minuscoli fori di legno tenuti insieme da dei tasselli. Il nome mashrabiyya, infatti, significa tessitura o legno intrecciato.
Le famiglie damascene custodiscono gelosamente questo salone. Spesso infatti la sua porta è chiusa, il padrone di casa è restio a mostrarlo a semplici avventori. Viene aperto per occasioni importanti, come matrimoni o fidanzamenti, oppure per ricevere ospiti di un certo riguardo.
Le altre stanze che si affacciano sulla corte damascena normalmente non sono comunicanti; per andare da una all’altra bisogna attraversare la corte stessa. Ogni stanza, durante i mesi invernali, viene riscaldata con il kanun, la stufa a carbone che durante il periodo estivo viene tolta.
Nel piano superiore si trovano le stanze da letto. Un corridoio, che percorre tutto intorno la corte, fa da anticamera. Esso è generalmente chiuso sul lato esterno da vetrate per proteggere dalla pioggia le stanze. Nelle pareti delle stanze da letto vengono ricavati degli armadi per contenere coperte e tappeti da utilizzare durante la notte e da riporre durante il giorno. Infatti queste stanze durante le ore diue vengono adibite ad altri usi, in base alle necessità di una famiglia.
Sopra la casa c’è la tayara, la terrazza coperta in parte da un pergolato di viti. La terrazza non è solo un luogo di incontro ma è un luogo di lavoro, il luogo dove le donne svolgono parte dei lavori domestici, soprattutto nei mesi estivi. Madri, figlie, nonne, cugine amiche e vicine di casa si ritrovano nella terrazza a sbattere tappeti e materassi, stendere la biancheria, fare essiccare erbe, preparare marmellate, verdure, sciroppi, da conservare per le stagioni fredde.

La bellezza delle case damascene sta nella giunaina, il giardinetto. All’interno di ogni abitazione, grande o piccola che sia, è consuetudine coltivare sia piante oamentali, sia piante aromatiche, da utilizzarsi nella preparazione di cibi e tisane. Non mancano mai l’albero di arance amare, il cedro, il limone, piante di gelsomino e di rose.
Al centro, generalmente, si trova una vasca di marmo bicromo, al-bahirat, di forma rotonda o geometrica, dal cui interno spillano zampilli d’acqua.
Il giardino per i musulmani è molto importante, rappresenta il paradiso, il paradiso che ci attenderà dopo la morte. Dall’oasi del deserto ai giardini sontuosi dei palazzi reali, a quelli più semplici delle case, l’arte del giardino in islam conobbe un’epopea rimarcabile. Il giardino è uno dei luoghi privilegiati dall’uomo arabo. Gli arabi definiscono il giardino una sorta di paradiso terrestre, che simbolizza l’unione del celeste e del terrestre.
Le corti damascene non presentano la stessa ricchezza decorativa e la stessa lussureggiante vegetazione, ma qualunque sia la loro grandezza, la loro bellezza o la loro esuberanza oamentale, esse costituiscono il luogo d’ incontro e di passaggio. È nella corte che le donne e gli uomini della casa, insieme o in orari diversi, si ritrovano a conversare, a svolgere attività inerenti la casa o la famiglia, ma soprattutto accolgono parenti, amici e vicini di casa.
Nella società siriana la famiglia è molto numerosa. Notevole importanza infatti viene data al matrimonio e alla procreazione. Il matrimonio è raccomandato dall’islam. Il suo fine principale è il creare una «cellula» famigliare e preservare i buoni costumi tra gli uomini e le donne, ma anche, e soprattutto, garantire la conservazione della specie e la continuità della razza umana. In poche parole per i musulmani la famiglia è la struttura essenziale sulla quale si basa l’avvenire dell’umanità.
Purtroppo la crisi economica e l’inflazione hanno investito anche il Medio Oriente, con la conseguente diminuzione dei matrimoni ma soprattutto il conseguente controllo delle nascite. Questo è riscontrabile specialmente nelle città, dove la vita è più costosa e le necessità più elevate rispetto alla campagna.
In alcune classi della società siriana si tende a mantenere la famiglia unita. I figli maschi quando si sposano rimangono a vivere nella casa dei genitori, dove spesso ci sono anche i nonni e gli zii. Una ragazza, invece, con il matrimonio si trasferisce nell’abitazione del futuro sposo.
Nel focolare famigliare non solo trova accoglienza un figlio appena sposato, ma anche membri della famiglia rimasti soli, o che per lavoro o studio devono trasferirsi dalla campagna in città. Difficile che una ragazza viva da sola. Generalmente una ragazza, che per studio o per lavoro deve lasciare la famiglia di origine, affitta una stanza presso una famiglia di sua conoscenza o va a vivere con dei parenti. Raramente una ragazza sola divide un appartamento con delle amiche.
Oltre a tutto questo non dobbiamo dimenticare che nei paesi arabi, in questo caso la Siria, esiste la poligamia. Anche per questo fattore molte famiglie sono numerose.
La struttura della casa araba tradizionale è adatta in questo senso ad accogliere famiglie allargate. All’interno della casa ci sono degli spazi dedicati agli uomini e altri alle donne. A Damasco non di rado mi è capitato di vedere che in certe famiglie la madre dorme in una stanza grande con le figlie e il padre in un’altra stanza con i figli maschi. Questo sia presso famiglie cristiane che famiglie musulmane.

Elisabetta Bondavalli




C’era una volta … il regno di Saba

Passato in pochi anni dal medioevo alla modeizzazione, grazie anche alla scoperta del petrolio, nello Yemen permangono gravi problemi di arretratezza sociale ed economica, che provocano ribellioni e insicurezza. Nonostante i frequenti sequestri di stranieri, la sua storia millenaria e le stupefacenti architetture continuano ad attrarre masse di turisti. Solo l’isola di Socotra, meravigliosa oasi naturale, sembra, essere risparmiata, per ora, dal turismo selvaggio.

Quando lo visitai per la prima volta, 15 anni fa, lo Yemen era da poco uscito dal medioevo. Era emozionante scoprire l’incanto di antichi villaggi, dei mercati, di gente fieramente legata alle tradizioni.
Oggi, si atterra in un moderno aeroporto e si incontrano subito tecnici americani che lavorano per conto di multinazionali del petrolio; in un’ampia superstrada si attraversa la vera città di Sana’a, modea e piena di attività, mentre la parte storica della capitale sta diventando un museo, al pari di Venezia. Una specie di trincea permette alle auto di attraversare la città antica e raggiungere i vari quartieri, in gran parte restaurati.
Il nostro albergo è stato ricavato da una di quelle case torri, fatte di pietra ai piani bassi, con elaborati fregi in gesso e finestre a lunetta, con vetri colorati e alabastro. Il cortile dove si cena è in comunicazione con un vasto appezzamento di terreno, che ora appare trascurato. Al tempo della mia prima visita, ricordo gli orti ben coltivati e le pecore che la mattina uscivano dai piani bassi delle case del centro.
La sera salgo sulla terrazza per godere del tramonto e mi rendo conto dei cambiamenti avvenuti: molti edifici nuovi e tante paraboliche su terrazze e tetti. Nonostante tali mutamenti, la medina (così è chiamato il centro storico) appare intatta, il souk (mercato) è affollato di uomini col pugnale alla cintola e donne velate di nero. Un tempo le abitanti di Sana’a usavano mantelle colorate e un velo nero e rosso che copriva totalmente il viso.
È cambiato anche l’ antico villaggio di Bayt Bows, che risale al tempo della regina di Saba, almeno 3.000 a.C. Oggi vi resta solo una famiglia, anche se il governo ha fatto portare l’acqua e ha costruito una scuola, ai piedi della collina. Dall’alto dell’abitato si può constatare quanto la capitale si sia dilatata nelle periferie, tra cui spicca una grande moschea in costruzione, voluta e finanziata dai paesi del Golfo.
Nello Yemen non si può generalmente entrare nelle moschee. Ve ne sono di bellissime, antiche e ben armonizzate nei centri abitati o nelle campagne. Questo edificio, moderno e gigantesco, mi pare una pesante stonatura, in un paese che persino nelle periferie ha voluto mantenere lo stile della tradizione nelle forme delle finestre, nei serramenti e nel rivestimento in pietra delle pareti delle case.

NEL REGNO DI SABA

Due giorni di viaggio attraverso il deserto, con peottamento a Mareb, dove vi fioriva il mitico regno di Saba, e raggiungo il Wadi Hadramaut, la regione dove è stato trovato il petrolio ed è diventata teatro di rapimenti di stranieri.
Una comoda strada asfaltata, costruita proprio per lo sfruttamento petrolifero, consente ora di arrivare a Say’un in poche ore. Ne approfittiamo per un tratto, per poi inoltrarci nel mare di sabbia, scortati dalla guida beduina, e scoprire città carovaniere, dove gli archeologi hanno trovato antichi templi dedicati al culto del sole e della luna. La vista della città di Shibam, mi emoziona come la prima volta, per la bellezza del paesaggio e delle architetture di fango crudo.
Nell’aprile del ’94 mi trovavo a Sana’a quando scoppiò la breve guerra civile tra il nord e il sud, appena unificati. «Prendi l’aereo per Say’un – mi avevano detto gli amici yemeniti -, laggiù sarai tranquilla, la gente è pacifica e non ci sono problemi». Mi ero sistemata in un albergo ricavato da vecchi prefabbricati russi. Ero l’unica ospite, insieme a uno studioso di rettili tedesco. Tutte le sere spesse nubi si addensavano sul ciglione roccioso, per poi scaricarsi in una pioggia fitta, preziosa per le intense coltivazioni del Wadi, che consentono la vita di oltre 200 mila persone. La sera la passavo in compagnia delle famiglie dei custodi, eritrei cristiani, che mi offrivano la cerimonia del caffè.
Oggi scendo in uno degli alberghi appena costruiti e vi trovo uomini d’affari giordani, cinesi e coreani. Seyun ha strade ampie e asfaltate, scuole, campi sportivi e molte costruzioni nuove e belle, che non deturpano l’armonia del paesaggio.
La gente invece è ferma nel tempo, specialmente le donne, velate di nero, con i tipici altissimi cappelli di paglia. Gli uomini sono occupati in antichi mestieri, come la fabbricazione di mattoni di fango, lavorato con mani e piedi e seccati al sole, la produzione della calce, ricavata dalle rocce.
Nei precedenti viaggi non avevo mai visto mendicanti. L’obolo era obbligatorio per lebbrosi e handicappati, fermi sul ciglio della strada. Perché ora, nei mercati, incontro donne velate col bimbo in braccio che premono insistenti per l’elemosina? Forse si è rotta un’armonia sociale, che manteneva la dignità delle persone.

IL PAESE DI BIN LADEN

«Bin Laden saudi group» dice il cartello dell’impresa che sta terminando la strada che collega Wadi Doan alla costa dell’Oceano Indiano, attraverso aride e scoscese montagne. I Bin Laden sono una grande famiglia di imprenditori, le cui splendide case dipinte si possono ammirare percorrendo le valli scavate dal Wadi Doan e dai suoi numerosi affluenti.
Il fondo valle è una lunga oasi ricca di verde e punteggiata da villaggi dorati. «La gente qui è molto benestante» spiega Mahdi, la guida che ci ha accompagnato da Sana’a.
Mahdi parla perfettamente l’italiano, avendo studiato in Somalia presso le suore della Consolata. I genitori erano emigrati, come molti yemeniti, per migliorare la propria condizione. Da anni ormai sono stati costretti a ritornare in patria a causa delle guerre. Con quattro figlie e due ragazzi da mantenere agli studi, l’affitto di una modesta casa di periferia da pagare, per Mahdi è importante lavorare nel turismo, dove si guadagna bene, ma si è soggetti a brusche interruzioni, a causa dei ricorrenti sequestri. Gli italiani sono tra i più assidui visitatori del paese, insieme ai tedeschi francesi e spagnoli.
Anche in questa parte del paese molte cose sono cambiate, rispetto al passato: non ho più notato, specialmente in città, uomini che, nell’ora della preghiera, si fermano, si radunano, anche nei cantieri, per pregare. Mahdi e gli autisti fanno eccezione: per tutto il viaggio sostano in preghiera cinque volte al giorno.

SOCOTRA

Da Mukalla, antico porto sul Mare Arabico, raggiungiamo in aereo Socotra, isola situata non lontano dalla Somalia, rimasta isolata nei secoli e miracolosamente intatta nella sua biodiversità. Qui si trovano specie di animali e vegetali uniche al mondo; per questo è in corso un progetto di collaborazione tra il governo yemenita e il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite per proteggere l’isola dall’aggressione di un turismo e sviluppo poco rispettoso.
Gli italiani sono i principali finanziatori di tale progetto e alcuni nostri connazionali stanno lavorando nel centro Saving Socotra, cornordinati da Ismael Mohammed. Algerino, sposato con una toscana di Castiglioncello, mi invita a fermarmi per collaborare con loro. Bisogna insegnare l’inglese (e magari anche l’italiano) ai giovani socotrini che si stanno formando come guide ecologiche per accompagnare i visitatori.
Fino a due anni fa non c’erano strade, ma piste durissime, percorribili con difficoltà. Ora si stanno costruendo le prime strade e i turisti cominciano ad arrivare, incuriositi dalla storia e dalla natura particolare di un luogo che ha conservato miracolosamente l’habitat primitivo.
Gli abitanti dell’isola si sono dati da sempre le regole per salvaguardare l’ambiente, dal quale dipende la loro sopravvivenza. Il consiglio degli anziani del villaggio decide se e quando si possono tagliare gli alberi, quando è possibile effettuare la pesca e dove devono gettare le reti. Le condizioni di vita degli abitanti sono molto povere, per cui accettano volentieri gli aiuti che tengano anche presente la salvaguardia dell’ambiente.
I rari villaggi hanno basse case di pietra col tetto piatto; alcuni hanno una scuola nuova, frequentata anche dalle bambine. I 60 mila abitanti sono per lo più dediti alla pastorizia e alla pesca, mentre le coltivazioni sono in pratica impossibili, a causa del vento impietoso. Piccoli giardini circondati da muri di pietra consentono di avere palme da datteri e banane; tutto il resto viene importato.
Per le donne è nata una cornoperativa per promuovere l’artigianato della ceramica e tessitura. Vasi molto originali nelle forme, decorati col succo della pianta del drago (dracarnena) e stuoie tessute a mano con lana di pecora bianca e grigia vengono venduti nel negozio del centro di Hadibu.
Tra i primi 10 paradisi botanici al mondo, l’arcipelago di Socotra, che comprende altre tre isolette, è stato definito le Galapagos dell’Oceano Indiano. Alcuni torrenti scendono dai monti sempre avvolti da nuvole, formando pozze di acqua limpida. Le spiagge sono intatte, coperte di corallo e conchiglie che ancora nessuno ha raccolto. Numerose sono le colonie di uccelli marini nelle aree di riproduzione protette. La varietà di coralli e pesci comprende tutti quelli del mar Rosso e molti degli oceani.

MEZZALUNA ROSSA

L’appuntamento è alle 5,30 del mattino, sull’unica strada che taglia a metà l’abitato del villaggio. Mi unisco a un gruppo di medici yemeniti per raggiungere la spiaggia e fare il bagno all’alba.
Saleh è nato e cresciuto in un villaggio presso Aden, nello Yemen più laico e socialista, dove le donne giravano senza velo e dove risiedono ancora i suoi genitori. Gli studi li ha fatti a Leningrado e a Kiev, dove conobbe la moglie Irina. Ora abita e lavora a Abu Dhabi, presso due cliniche private, perché Irina, che è medico e ha una casa anche a Kiev, non vuole vivere nello Yemen. «Le mogli russe sono di supporto al marito. Sono forti e ben educate» mi dice convinto, mostrandomi le foto della famiglia.
Con 4 mila dollari al mese, auto e casa pagate, Saleh può permettersi di mandare a scuola privata le due figlie, di cui è molto orgoglioso. Degli anni vissuti in Russia Saleh ricorda con gratitudine la possibilità avuta di avvicinarsi alla vasta cultura del paese. Teatro, musica, letteratura lo hanno affascinato e segnato.
Mohammed, invece, ha studiato a Praga; è otorinolaringoiatra, ma meno loquace. L’esperienza interculturale che hanno fatto questi yemeniti è stata eccezionale. Rispetto ai connazionali, hanno la mente aperta e concordano sul fatto che la religione nel loro paese non ha un ruolo positivo.
Erano ragazzi diciottenni quando furono mandati a studiare in Unione Sovietica. Alcuni anni li passarono a studiare il russo, ucraino, ceco. Poi il latino, avendo scelto la facoltà di medicina. Dopo 14-15 anni di studi, il ritorno a casa, in uno Yemen appena uscito dal medioevo. Anche il direttore del piccolo ospedale di Socotra ha studiato in Unione Sovietica.
Tawfik è il più anziano del gruppo e invece di farsi una nuotata va alla ricerca di carcasse e spine di pesci, intatte e molto belle. Ha studiato in Pakistan e Sudan, a Khartoum; poi è ritornato a Sana’a, la sua città, dove ha lo studio ed è assistente di oculistica all’università.
Nel gruppo c’è anche una donna del Qatar, molto riservata, medico oculista. Ha il velo sul capo, veste di nero, ma il viso è scoperto; vi è pure un ingegnere di Abu Dabi che sta progettando il nuovo ospedale.
Dopo colazione, i medici raggiungono l’ospedale per operare, aiutati da infermieri, tutti della Mezzaluna rossa, mentre io vado alla scoperta dell’isola. Ci rivediamo a cena, nella trattoria di Hadibu, con gli ospiti dei due alberghi del luogo: qualche spagnolo, un gruppo di italiani e una signora di New York, accompagnata da due guide.
L’ultima sera prima della partenza, al ritorno da una lunga gita, siamo testimoni di un grave incidente. Un pick up carico di tifosi della locale squadra di calcio si è rovesciato, causando 17 feriti, che subito trasportiamo in ospedale. Due sono molto gravi e verranno portati a Sana’a la mattina dopo, su un aereo militare. La presenza della delegazione della Mezzaluna rossa è provvidenziale, i nostri amici medici passeranno la notte in ospedale a operare.

Claudia Caramanti




Sarò cinese anche in paradiso

San Giuseppe Freinandemetz (1852 – 1908)

«Ecco, trovato quel paese che già da anni pregavo Iddio di voler mostrarmi; trovato la mia patria nuova, che da tanto tempo sospiravo di vedere, arrivato io sono finalmente nella chiesa». Queste poche righe, scritte il 28 aprile 1879 e ricevute dalla famiglia a Oies, in Val Badia, qualche mese dopo, annunciavano l’arrivo del ventisettenne padre verbita Giuseppe Freinademetz in terra di missione: la Cina.
Era una Cina, quella che accolse il sacerdote badiota, umiliata dalle potenze europee, vincitrici delle guerre dell’oppio (1840-42). I governi occidentali, consci dell’odio creato attorno a loro nell’animo dei cinesi con l’imposizione di trattati iniqui, si fecero precedere nell’espansione nel Paese di Mezzo da avanguardie di evangelizzatori. Armati di crocifisso e vangelo, questi missionari, preparavano il terreno all’arrivo di eserciti ben più cruenti e violenti, composti non solo da soldati, ma da amministratori corrotti e impresari senza scrupoli.
Per i cinesi tutti gli europei sono i «nasi lunghi». Non sorprende, quindi, che i primi passi di Giuseppe in terra cinese furono ben poco conciliatori: «L’adulto cinese ci deride in pubblico, i bambini ci gridano alle spalle. Sembra che perfino i cani provino un gusto particolare a rincorrerci e abbaiarci contro. Il missionario è odiato da molti, tollerato da pochi, amato da nessuno» scriveva in una delle sue prime lettere.
Un atteggiamento di ostilità e incomprensione dapprima contraccambiato da molti sacerdoti, a cui neppure Freinademetz seppe venir meno. Nelle sue prime lettere l’ardore e il fuoco del giovane missionario è, a dir poco, militaresco. Giuseppe arriva in Cina «per menar guerra contro il diavolo e l’inferno, per gettar a terra i templi dei falsi dèi, per impiantar al loro luogo il legno della croce».

Questo ostracismo dura però solo una stagione. Nonostante tutto, già nei primi anni, Giuseppe confessa: «Essere missionario in Cina è un onore che non cambierei colla corona d’oro dell’imperatore d’Austria» (a quell’epoca la sua terra natale apparteneva alla monarchia austro-ungarica).
Ben presto Giuseppe Freinademetz si accorge di quanto male facciano gli europei all’Asia e, in particolare alla sua missione nello Shantung del sud, cui la Santa Sede aveva affidato alla congregazione dei Verbiti l’evangelizzazione. «Beh, non c’è da meravigliarsi sullo scetticismo nei confronti degli europei e sul loro comportamento, in quel tempo. Penso inoltre che lui stesso, conoscendo le persone più a fondo, abbia mutato anche il suo giudizio sui cinesi» afferma il vescovo di Bressanone, mons. Wilhelm Egger.
Già nel 1884 Freinademetz inizia a vestire come i suoi parrocchiani, parla il mandarino, porta la treccia e, soprattutto, adotta un nome cinese: Fu Shen-Fu (padre della fortuna). Scrivendo a un familiare in Sud Tirolo afferma: «Sono ormai più cinese che tirolese. E non ho altro desiderio che morire con loro e essere sepolto tra di loro. Desidero essere cinese anche nel cielo».
La politica dei paesi europei incomincia a nausearlo; alla madre scrive: «Il maggior flagello per noi e per i poveri cinesi cominciano a essere tanti europei senza fede e perfettamente corrotti, che adesso cominciano a inondare tutta la Cina. Sono bensì cristiani, ma sono peggiori dei pagani, non si curano d’altro che di far denaro e di andare dietro a tutti i piaceri mondani».
All’opposto, rivaluta completamente le sue idee iniziali sui locali, giungendo a rivelare che «in molti punti sorpassano gli europei. Lo sanno anche loro stessi, perciò odiano tutti gli stranieri… Sono veramente la prima nazione al mondo, solo manca loro il cristianesimo».
Eppure, Giuseppe in Cina non ebbe vita facile: la rivolta dei Boxer nel 1900, la persecuzione cristiana, le malattie resero la sua opera di evangelizzazione, dura e pericolosa. Fino al 1908, anno in cui morì stroncato dal tifo a Taikia, dove fu sepolto, continuò a scrivere alla madre e agli amici nel suo italiano stentato o in tedesco, non dimenticando, però, la sua cultura natale: il ladino. «Chi non è chiamato dal Signore non abbandoni la bella Badia», scrisse in uno dei tanti momenti di nostalgia, in cui ricordava con piacere i tre anni trascorsi come parroco a San Martino in Badia (1875-78) o la sua infanzia felice con i 12 fratelli all’ombra delle vette dolomitiche.
Ed è forse proprio questo il miracolo di san Giuseppe Freinademetz: conosciuto da pochi, è entrato nel cuore di tutti i tirolesi. «Già quando era ancora parroco le persone locali si sono accorte che lui era una figura eccezionale. Le uniche reliquie che abbiamo di san Giuseppe sono i capelli, che la perpetua ha tagliato prima che partisse per l’Olanda (1878), dove era la sede dell’ordine dei Verbiti e li ha tenuti con sé quasi presagendo la santità che era in lui. Quando era parroco a San Martino in Badia la gente faceva anche 6-7 ore di cammino per ascoltare le sue omelie» spiega mons. Egger.

Oggi quasi ogni casa badiota mostra l’effigie di Giuseppe Freinademetz, beatificato nel 1975 da Paolo vi e proclamato santo il 5 ottobre 2003 da Giovanni Paolo II. Anche se in 30 anni di missione in Cina non è mai tornato in patria, Giuseppe ha conservato intatto, attraverso le sue lettere, il rapporto con gli amici, la famiglia, la sua gente e la sua valle; questo rapporto non si è mai interrotto; egli ha continuato a vivere, anche dopo la sua morte, non solo nella Val Badia, ma in tutto il Sud Tirolo.
«Mio padre, nato nel 1900, mi raccontava che si ricordava ancora quando in valle arrivò la notizia della morte del missionario – racconta padre Pietro Irsara, custode della casa natale del santo -. Nella nostra famiglia, come in molte altre della valle, si pregava per la beatificazione e poi per la canonizzazione di Giuseppe. Si notava già un’aria di santità in questa persona. Pochi anni dopo la sua morte scoppiò la Prima guerra mondiale e la gente si rivolgeva al missionario per chiedee l’intercessione. Quando, durante il fascismo c’è stato il problema dell’Opzione, molti, ancora indecisi, si rivolgevano a lui per chiedere consiglio sulla scelta da compiere».
Oggi la casa di san Giuseppe Freinademetz è meta di pellegrinaggi che vengono dal Sud Tirolo, dall’Austria e dalle città d’Italia dove sono presenti i missionari del Verbo Divino. «Alla gente che viene qui in pellegrinaggio – continua padre Pietro – ricordo la fede eroica che egli ci ha lasciato in eredità. Una fede che occorre vivere, non nascondere. Mi piace anche ricordare il rapporto di san Giuseppe con il dolore e la sofferenza. Lui ha sofferto molto, per questo poteva incoraggiare la famiglia, spiegare come il dolore non sia un castigo di Dio, ma un segno di Dio, una prova che Dio ci manda».

«Un’altra eredità lasciata da san Giuseppe è l’amore per i cinesi – conclude padre Irsara -. Si è fatto cinese tra i cinesi. È riuscito ad amarli sinceramente, nonostante le difficoltà e sofferenze che ha provato. Le firme per la sua canonizzazione sono arrivate dalla Cina, dalla regione dove ha lavorato: ciò significa che la sua persona e il suo lavoro è ancora oggi riconosciuto e vivo tra la gente per cui ha dato la vita».
La sua apertura all’altro ha precorso i tempi: Freinademetz aveva appreso che per capire e convivere con le altre culture e religioni, occorre convertire anzitutto se stessi. E in questo contesto risultano «provocatorie» anche le parole più semplici. In un’Italia dove i media continuano a propinarci stereotipi triti e ritriti, cercando di convincerci che viviamo nel «paese più bello del mondo», parliamo la «lingua più bella del mondo», abbiamo la «cucina più buona del mondo», è sconvolgente che più di 200 anni fa, un umile contadinotto di un’oscura valle dolomitica, scriveva: «Mi credete se vi dico che la Cina non è più brutta della bella Badia?».

Piergiorgio Pescali




CHIAMATEMI LADINIA

Per quasi 2 mila anni i ladini hanno sviluppato la propria cultura nelle valli dolomitiche, un’area geografica che dovrebbe chiamarsi Ladinia.
Le vicende storiche dell’ultimo secolo hanno frantumato la loro coesione sociale e culturale, per assimilarli ai dominatori di tuo. Lingua e religione cementano ancora la loro identità. Il frutto illustre di tale identità cristiana è san Giuseppe Freinademetz, per 30 anni missionario in Cina.

Grande cultura, quella ladina, che si incunea tra le cinque vallate della Val Gardena, Badia, Fassa, Livinallongo e del cadorino, raggruppando 30 mila persone.
Grande cultura se si tiene presente che è riuscita a sopravvivere nonostante sia sempre più stritolata tra il ceppo italiano e quello germanico; nonostante la storia, tra cui si insinuano due guerre mondiali, l’abbia sempre vista sconfitta; nonostante Austria, Germania e Italia abbiano cercato in tutti i modi di scaificare il tessuto culturale, per utilizzarlo come cuscinetto che oliasse le frizioni tra le etnie principali: quella tedesca del Tirolo a nord e quella italiana del Trentino a sud.

Lingua e religione:
identità della Ladinia

La cultura ladina si è mantenuta viva grazie alla lingua, derivata dalla trasformazione del latino volgare, portato da Tiberio nel 15 a.C., mischiandosi con la parlata dei reti, prendendo corpo tra l’viii e il ix secolo d.C., apparentandosi con l’occitano e il catalano.
«Lingua ladina, dunque, non dialetto alpino» scrisse il regista Pierpaolo Pasolini, ladino friulano anch’egli.
«Essendo ladino, ci tengo a parlare ladino, anche se le mie radici sono inserite in un contesto che mi impone di parlare altre lingue, che imparo comunque volentieri» dice Leander Moroder, direttore dell’Istituto ladino di San Martino in Badia, interpretando il pensiero aperto e accogliente della maggioranza dei ladini.
Ma la sopravvivenza della ladinità, si esplica anche attraverso un secondo elemento fondamentale: la religione. Fu il sacerdote badiota Micurà de Ru a elaborare la prima grammatica ladina. E la religiosità cattolica ladina, da sempre cemento di coesione tra le diverse vallate, si è sempre contraddistinta per un forte senso comunitario tipico delle vallate montane.
«La tradizione religiosa accomuna i ladini di tutte le cinque valli e non è un caso che, per separare il nostro popolo, si è pensato di dividere le cinque vallate tra le diocesi di Bressanone, Trento e Belluno» afferma Hilda Pizzinini, figura storica per tutto il popolo ladino e, fino al 2004, presidente dell’Union Generela di Ladins dles Dolomites.
Le feste cristiane diventano così eventi di comunione e di incontro tra le popolazioni, ma sprizzano anche di influssi germanici, più che italiani. La festa di San Nicola, la predilezione per i santi e gli ordini monastici nordici si riconducono a uno stretto legame tra le popolazioni ladine e quelle tirolesi; legame non sempre pacifico e rispettoso.
Se nel xii secolo il ladino era parlato in quasi tutto l’arco alpino centro orientale, nel xvii secolo, con la germanizzazione dell’Alta Val Venosta, la lingua e le tradizioni ladine vennero prima vietate e poi represse con violenza.

Lavaggi… linguistici

Da parte italiana la colonizzazione non fu meno feroce e brutale. Il fascista Ettore Tolomei, definito da Gaetano Salvemini «l’uomo che escogitò gli strumenti più raffinati per tormentare le minoranze nazionali in Italia», gettò le basi politiche e ideologiche per la creazione della regione Trentino Alto Adige, scatenando l’irredentismo sudtirolese.
La data che fa da spartiacque di questa colonizzazione è il 10 ottobre 1920, quando l’annessione del Trentino e dell’Alto Adige al regno d’Italia venne sancita in sede diplomatica. La violenza e la determinazione con cui fu attuata l’italianizzazione, può essere evidenziata con un solo dato: in soli due anni, gli italiani residenti nelle valli sudtirolesi quintuplicarono, passando da 8.000 a 37.000.
La tesi ufficiale che diede inizio alla nazionalizzazione tricolore, il 29 settembre 1923, fu che «la maggior parte della popolazione del Tirolo meridionale è costituita da latini, i quali hanno dimenticato la loro origine e sono diventati tedeschi. Bisogna quindi “recuperarli”, riscoprendo il “sostrato” latino più antico e genuino per ogni nome locale tedesco e ladino». Brixen divenne Bressanone, La Ila si trasformò in La Villa, Cianacei in Canazei, Gherdeina in Gardena…
Per i ladini non fu il primo «lavacro dei cognomi», dato che già dal 1700, sotto il dominio tedesco e asburgico, molte famiglie furono costrette ad adottare cognomi tedeschi. Qualche esempio? Zanon in Senoner, Ruac in Rubatscher, Murena in Moroder (Giorgio Moroder, il famoso compositore di musica per film è ladino di Ortisei).

Identità disgregata

Ma il fascismo, con l’intento di debellare ogni forma di ribellione politica e culturale, attuò una ben più profonda cesura: la tripartizione della comunità ladina, prendendo spunto dalla precedente divisione napoleonica del 1810. Tra il 1923 e il 1927 i ladini vennero divisi in tre province: l’Ampezzo, Livinallongo e Colle Santa Lucia passarono alla provincia di Belluno, la Val di Fassa a quella di Trento e la Val Badia e Gardena a quella di Bolzano. Una disgregazione dittatoriale che dura tuttora e nell’estate scorsa i comuni cadorini di Cortina, Livinallongo e Colle Santa Lucia hanno tentato di annullare chiedendo l’unione con la provincia di Trento. Quella fascista non fu solo una mossa amministrativa, ma un tentativo, in parte perfettamente riuscito, di dividere politicamente l’identità ladina.
Ancora nel 1939, con l’accordo italo-tedesco sull’opzione, si lasciò ai sudtirolesi la possibilità di scegliere tra restare in Sud Tirolo, diventando italiani a tutti gli effetti, o emigrare nella Germania nazista. Per i ladini, la cui identità è differente sia da quella tedesca che da quella italiana, non venne concessa una terza opzione: o si era Dableiber, sudtirolesi italiani fascisti o Auswanderer, sudtirolesi tedeschi nazisti.
Neppure la fine della Seconda guerra mondiale, con l’appoggio di Stati Uniti e Francia all’autodeterminazione tirolese e, in separata sede, anche a quella ladina, per creare una potenziale nazione che avrebbe dovuto fungere da stato cuscinetto tra Italia e Germania, fu liberatoria per il popolo ladino. In questo caso fu Alcide De Gasperi a vanificare tutte le speranze di autodeterminazione. Con il pugno di ferro ritirò le promesse fatte a Parigi di un’autonomia ladina e, anzi, suggellò definitivamente lo status quo fascista: tripartizione e istituzione della regione Trentino Alto Adige.
Secondo De Gasperi il movimento politico ladino, Zent ladina, fondato nel 1946 al passo Gardena con l’obiettivo di riunificare le cinque vallate ladine, era un’accozzaglia di «austricanti». I mezzi per sconfiggere questa «marmaglia» anti italiana furono subdoli e infidi: le Olimpiadi invernali del 1956 a Cortina servirono da pretesto a Roma per ridurre del 40% la presenza ladina sul territorio, favorendo l’immigrazione di italiani.
E se i sudtirolesi di lingua tedesca reagirono alla colonizzazione italiana, dando vita a un movimento separatista, i ladini scelsero la strada della politica, con la fondazione dell’Union Generela di Ladins dles Dolomites e del Movimento politico ladino.
La risposta italiana non si fece attendere. Sul fronte religioso, nel dicembre 1964, Livinallongo, Colle Santa Lucia e Ampezzo vennero staccate dalle diocesi di Bressanone; su quello politico, per non aprire un terzo fronte in Sud Tirolo, Roma lasciò che a giocare la questione ladina fosse la Sud Tiroler Volkspartei.

Senza voce in capitolo

La mossa fu azzeccata, tanto è vero che il gruppo tedesco ancora oggi soggioga quello ladino, escludendolo da ogni decisione politica. «Se voi avete Berlusconi, noi abbiamo la Svp – dice Giovanni Mischi, presidente del Movimento Ladins -. Subiamo forti repressioni derivanti dagli accordi tra la vecchia Dc e la Svp e che vengono mantenuti ancora oggi. Non abbiamo potere decisionale».
«Il Movimento politico ladino in Val Gardena e Val Badia ha retto per 10 anni – spiega Hilda Pizzinini -; poi la pressione della Svp ha schiacciato il partito e ora, nonostante i ladini rappresentino demograficamente il 4,8% della popolazione sudtirolese, abbiamo solo un rappresentante in provincia. E la gente si chiede quale contributo può dare alla causa ladina».
Neppure l’indotto economico che le valli ladine garantiscono alla regione Trentino Alto Adige, di gran lunga superiore al loro peso demografico, è riuscito a dare una svolta alla politica regionale. «Noi ladini non siamo riusciti a metterci d’accordo e questo è uno dei motivi per cui noi non contiamo nulla a livello amministrativo provinciale e regionale – lamenta Leander Morder -. Val Badia e Val Gardena, anziché creare un comprensorio unico ladino, hanno preferito aggregarsi a due entità economiche diverse: quelle dello Sciliar e della Pusteria».
Come spesso avviene, il successo economico, se da una parte ha giocato un ruolo positivo nel limitare l’emigrazione verso i centri più sviluppati, dall’altro ha sradicato la cultura. Dagli anni ‘70 la cementificazione ha imperato, snaturando (in senso letterale) la regione, in particolare la Val Gardena, Val di Fassa e Ampezzano. Non occorre essere un ambientalista per inorridire di fronte agli enormi complessi alberghieri costruiti per soddisfare le esigenze di un turismo d’élite, che una classe speculativa, formata da amministratori e impresari, ha voluto trascinare in queste valli. Un turismo d’élite che non ha nulla a che fare con la cultura contadina, che per secoli ha abitato masi e villaggi. Un turismo d’élite che ben poco conosce della cultura che li ospita e che, quando parla di cavalli, il pensiero viene rivolto allo stilista e non ai quadrupedi che un tempo popolavano le verdi vallate ladine.

Piergiorgio Pescali




FRATELLO NELLE PICCOLE COSE

Il messaggio del vangelo, rivolto ai piccoli e agli umili della terra, è stato il centro della vita di padre Joseph Otieno, keniano, uno dei primi missionari della Consolata ad essere inviato in Corea del Sud. È morto durante un evento sportivo, tradito dal suo cuore grande, sempre aperto alle esigenze della gente che il Signore aveva chiamato a servire. Così lo ricordano i suoi compagni di missione.

Una fredda domenica, di quel 18 dicembre. Ma il rigore dell’inverno coreano non aveva impedito a padre Joseph di calzare le scarpette e, approfittando dell’assenza di impegni parrocchiali, di prender parte alla «maratonina» di Seoul, una competizione organizzata per beneficienza. Trentun anni compiuti in maggio, fisico scattante ed asciutto, Joseph, da buon keniano, amava correre al punto che, in estate, si era iscritto al Seoul Synergy Running Club, un’associazione sportiva per patiti della corsa a piedi. Era un atleta ed era allenato.
Per questo motivo la telefonata che ne annunciava la morte (avvenuta sull’ambulanza che lo portava d’urgenza all’ospedale dopo che si era accasciato nel mezzo della gara) è suonata come assurda. Sgomento, incredulità, shock sono stati i sentimenti di tutti. Come poteva esser Joseph quell’atleta che si era accasciato al bordo della strada? Ci siamo precipitati all’ospedale di Sadang, ancora increduli, ma abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza. Era proprio lui, Joseph… e il dolore ha avuto la meglio sull’incredulità. Abbiamo pianto.
Il corpo di Joseph è stato trasportato il lunedì 19 dicembre all’ospedale della Sacra Famiglia di Bucheon, vicino a casa nostra. E nello stesso luogo è stata allestita la camera ardente.
Fin dalle prime ore del pomeriggio, incessante è stato l’afflusso di fedeli, di religiosi e religiose, di persone che avevano conosciuto Joseph. La classica cantilena ritmata delle preghiere per i defunti che si usano nella chiesa cattolica coreana ha fatto da sottofondo continuo per due giorni, fino alla messa di esequie. Tutta la nostra comunità era mobilitata, inclusi gli studenti e le signore del nostro «Gruppo Amici Imc», che sono state ancora una volta meravigliose nel loro impegno e nella loro vicinanza.
Intanto, le cose, per quanto riguardavano il funerale, si stavano complicando. Ci voleva un permesso da parte dell’Ambasciata del Kenya, che forse non sarebbe arrivato presto. Ci siamo visti costretti a fare la messa esequiale, il mercoledì 21 dicembre, sapendo già che avremmo dovuto poi riportare il corpo del nostro Joseph all’ospedale, in attesa della sepoltura.
Alle 10.00 del mattino, la chiesa parrocchiale di Yokkok-2-dong, (la parrocchia alla quale territorialmente apparteniamo) era piena colma di gente (400-500 persone), senza contare i celebranti, che erano una ventina. Abbiamo cercato conforto nella parola di Dio, che ci ha accompagnato attraverso i vari stadi dell’incredulità, del dolore e della rabbia per questa tragedia, fino a portarci alla certezza che niente puo’ mai separarci dall’amore di Dio mostratoci in Gesù.
Abbiamo letto la morte di Joseph come quella del chicco di grano che, caduto in terra, muore come condizione per portare molto frutto. Sì, Signore: la vita di Joseph era già donata alla missione, alla Corea, ai fratelli e sorelle di questo paese, e quindi la sua morte non fà altro che rendere quella donazione definitiva, e fonte di molto frutto.

I l permesso di sepoltura che attendevamo giungesse dall’Ambasciata del Kenya si faceva attendere ed è giunto solo il 4 gennaio. Due giorni dopo ha avuto luogo la messa di funerale, attesa da più di 250 persone e in cui il vescovo di Incheon, mons. Choi Kisan Bonifacio, ha ricordato ai presenti che anche Andrea Kim-Dae Gong, primo sacerdote e martire coreano era morto giovane, per non parlare dello stesso Gesù. Ha anche affermato che attraverso questa morte il Signore ci ammonisce, invitandoci tutti a tendere incessantemente alla santità.
Nel 2002, Joseph Otieno aveva raggiunto la Corea, sua prima destinazione missionaria, insieme ad altri due sacerdoti missionari africani. Dopo i primi anni della formazione e del noviziato, tutti vissuti in Kenya, aveva studiato teologia in Inghilterra, presso il Missionary Institute di Londra.
Chi ha avuto modo di incontrarlo in quegli anni lo ricorda come una persona semplice e umile ma, nello stesso tempo, molto affabile. Attento agli studi e alle sue responsabilità, che sempre assumeva in prospettiva al futuro missionario, Joseph non disdegnava momenti di sana vita sociale che gli permettevano di avvicinare la gente in modo più informale e spontaneo. Davanti a un bel boccale di Guinness, sovente condiviso con il parroco di Whetstone (la comunità dove per 4 anni ha prestato servizio pastorale), Joseph si relazionava con gioia con i giovani che incontrava.
In parrocchia, fino al momento della sua ordinazione diaconale, aveva contribuito non poco a ravvivare le celebrazioni, grazie alla sua abilità nel suonare le percussioni. I giovani gli volevano bene, proprio per quell’approccio semplice e immediato, che gli aveva conquistato la simpatia di tutti, anche all’università.
Joseph era generoso, e metteva sempre gli altri prima di sé. Era anche modesto nel suo stile di vita e rispettoso di tutti, sicuro delle sue idee, ma estremamente aperto a quelle degli altri. Una volta ordinato diacono, a lui e a altri tre compagni fu chiesto se volevano essere i primi missionari africani ad andare in Corea: era sicuramente una grande sfida. Joseph chiese un tempo per riflettere e per prendere una decisione. Era coraggioso e amava cimentarsi con l’avventura. Passato il periodo di riflessione, rispose di sì. Del resto, questa risposta era perfettamente in linea con lo stile della sua persona.
Era molto cosciente delle sue radici culturali, che venivano espresse in modo particolare nella danza e nella musica, come pure nella prontezza a partecipare ad ogni tipo di conferenza e riunione. Ma il suo mondo andava ben oltre, verso quegli spazi infiniti che solo la missione può aprire.

Q uattro vescovi erano intervenuti all’ordinazione di Joseph, il 14 ottobre 2001, a Nairobi (Kenya). Prendeva il via in quel momento il ministero che avrebbe caratterizzato la sua breve esperienza presbiterale, quello di «lavare i piedi agli altri». Sempre diceva che «il sacerdozio è per il servizio».
Questo, unito a una gentilezza del tutto speciale nelle sue relazioni con gli altri; gentilezza che non era debolezza, ma qualcosa di grande e vero, una tenerezza che toccava il cuore della gente in profondità.
Una volta giunto in missione, dopo essersi dedicato allo studio della difficile lingua coreana, Joseph era entrato a far parte della comunità di Kuryong, una baraccopoli nel cuore della capitale, manifestando da subito la decisione a vivere la sua vocazione missionaria tra i poveri.
Anche in questo contesto era emerso il suo cuore semplice e buono, che gli aveva permesso di adattarsi con piacere a fare i piccoli servizi che l’uso ancora limitato dell’idioma gli consentiva di prestare. Insegnava inglese a qualche ragazzotto della zona e aiutava le «nonne» del quartiere, rendendosi utile in qualche piccolo lavoretto.
A più di uno questa sua disponibilità era suonata come una pazzia. Ma come? Uno straniero, sacerdote per di più, adattarsi a incombenze come andare a fare la spesa al supermercato per qualche anziano che non avrebbe avuto la possibilità di muoversi! Quando uno dei parrocchiani espresse ad alta voce questo sentimento, la risposta di Joseph fu evangelicamente disarmante: «Siamo venuti qui per servire e aiutare nelle piccole cose che possiamo fare…».

T re giorni soltanto prima della sua prematura scomparsa, Joseph era stato chiamato ad aiutare in parrocchia nella celebrazione del sacramento della riconciliazione. Una signora si era recata da lui per la confessione ed era stata così toccata dal calore e dalla comprensione di quel sacerdote africano che, il giorno seguente, aveva lei stessa accompagnato due altre persone presso la casa dei missionari della Consolata, affinché potessero ricevere da Joseph la pace e la gioia del perdono.
La tristezza per la sua morte lascerà il segno per lungo tempo, questo è certo. Eppure è viva in noi la profonda sensazione che il Signore, con la sua grazia, ha preparato Joseph a incontrasi con lui. La semplicità della sua vita testimonia con i fatti questo suo essere pronto. Sentiamo con forza che la sua morte è un seme di vangelo, un esempio da ricordare e vivere.
Riposa nella pace del Signore, Joseph, e intercedi per noi dal cielo, affinché sappiamo portare avanti bene la missione alla quale anche tu avevi cominciato a partecipare con entusiasmo. Ricordati che stiamo aspettando i «frutti» che la tua morte non può non portare.
Non resta che esprimere «santo orgoglio» per come tutta la nostra comunità (inclusi gli studenti) ha reagito a questa improvvisa tragedia: con dignità, profonda partecipazione, unità e totale disponibilità da parte di tutti. E constatare ancora una volta come la gente ci voglia bene, e come tutti abbiano fatto davvero del loro meglio per aiutarci.

I missionari IMC in Corea




La croce sotto la camicia

Per quasi 2 mila anni i ladini hanno sviluppato la propria cultura nelle valli dolomitiche, un’area geografica che dovrebbe chiamarsi Ladinia.
Le vicende storiche dell’ultimo secolo hanno frantumato la loro coesione sociale e culturale, per assimilarli ai dominatori di tuo. Lingua e religione cementano ancora la loro identità. Il frutto illustre di tale identità cristiana è san Giuseppe Freinademetz, per 30 anni missionario in Cina.

Siamo atterrati a Gibuti il 15 settembre 2004: tre missionari e quattro suore della Consolata. Dopo un’accoglienza calorosa, il vescovo mons. Giorgio Bertin ci ha accompagnato alla nostra sistemazione: i missionari nella casa una volta appartenuta ai fratelli delle Scuole Cristiane con annessa scuola «La Salle»; le suore nell’abitazione che fu dei cappuccini, nel quartiere Boulaos.
Per meglio acclimatarci e guardarci attorno, il vescovo ci affidò al suo vicario episcopale, che per alcuni giorni ci fece conoscere la città e ci introdusse nella nuova realtà della nostra missione tra i musulmani. A 15 giorni dal nostro arrivo eravamo già al lavoro: fratel Maurizio Emanueli destinato a diventare direttore della scuola La Salle; padre Mathieu Kasinzi incaricato di seguire la comunità etiopica, oltre a intraprendere lo studio dell’arabo, per approfondire la conoscenza dell’islam e prepararsi a un compito futuro più specifico di dialogo con i musulmani; il sottoscritto è stato incaricato di dirigere la Caritas diocesana.
Alle suore il vescovo chiese la disponibilità nel campo sociale e sanitario. Due di esse, Dorota e Redenta, furono subito assunte dal ministero della Sanità come infermiere in un ospedale della cooperazione italiana, nella periferia della città. Suor Anna iniziò la sua collaborazione nella Caritas e suor Celia fu destinata a prestare il suo servizio in una struttura statale per ragazze orfane.
A dire il vero, il primo impatto non è stato facile. A parte il vescovo e i pochi sacerdoti che operano in questo paese, a Gibuti non abbiamo trovato una comunità cristiana ad attenderci. Anche se la presenza dei francesi è rilevante, si tratta di persone di passaggio, che rimangono un anno o due e poi se ne vanno. E questo ci ha fatti sentire un po’ soli.
La gente, poi, all’inizio non era molto affabile: sembrava distante e non dava confidenza. Bisogna mettere nel conto anche il problema della lingua: la maggioranza della popolazione non parla il francese, ma solo il somalo e un poco l’arabo.

CON LA CROCE… NASCOSTA

A un anno di distanza ci siamo inseriti a pieno nel nostro ambiente di lavoro e non ci sentiamo più tanto soli. Fratel Maurizio, dopo un anno di tirocinio sotto la guida della preside, ha fatto amicizia con gli insegnanti, con i genitori degli studenti e sta assumendo la piena responsabilità della scuola; padre Mathieu continua a studiare l’arabo e segue la comunità etiope; il sottoscritto ha tessuto relazioni con quelli che lavorano alla Caritas, che sono musulmani, e con i responsabili delle associazioni locali che vengono a chiederci aiuti.
Sono nate delle belle relazioni personali, non so ancora se per vera amicizia o per interesse; tuttavia ho avuto l’opportunità di entrare nelle loro case e di prendere il tè o una bibita con loro, godendo di un’ospitalità semplice, ma genuina.
Succede anche questo: un signore molto gentile mi invitò a conoscere il porto, suo posto di lavoro. Mentre ci recavamo sul luogo, con molto rispetto mi chiese di nascondere sotto la camicia la croce che portavo al petto. Discorrendo mi spiegò il perché: tutti sapevano che lui era musulmano, mentre io, con il mio crocifisso, mi dichiaravo pubblicamente cristiano; al vedermi in mia compagnia, i suoi amici avrebbero pensato male di lui, cioè, che volesse convertirsi al cristianesimo. Lo stesso fatto mi capitò con un giovane che lavora alla Caritas: accompagnandomi un giorno a cercare dei ragazzi di strada, mi chiese di nascondere il crocifisso sotto la camicia, altrimenti la gente l’avrebbe criticato.
Di solito vado in giro con la croce ben visibile sul petto, ma nessuno fino ad ora mi ha detto nulla, per il fatto che sono un europeo. Ma un prete africano che, in passato, portava pure lui la croce sul petto, ricevette le rimostranze della gente, perché, nell’immaginario comune, essendo africano, doveva essere anche musulmano.
Alla Caritas vengono molte persone per chiedere aiuti di vario genere; persone che poi ritornano e con le quali cerco di attaccare bottone. Ne nasce così un dialogo amichevole, che riprende ogni volta che tornano. Una di queste, che viene con una certa frequenza, un giorno mi disse: «Mi piace davvero venire a chiacchierare con te; però mi sento tanto triste al sapere che tu non andrai in paradiso». «Ma come – dico io -, perché non andrò in paradiso?». «Sì, – risponde – perché tu non sei credente».
Sono parole che esprimono sincero apprezzamento. Il giorno in cui sono partito da Gibuti per venire in Italia, mi salutò secondo il costume del luogo: mi baciò la mano, quindi mi offrì la sua da baciare e portare al petto. Fui sorpreso da tale saluto, perché è riservato solo alle persone considerate vicine e amiche. Ciò significa che mi sente vicino, mi considera amico e, da vero amico, desidera che anch’io vada in paradiso come lui.

CARITAS PER TUTTI

In linea di massima la Caritas si impegna nella realizzazione di progetti a favore di situazioni umane di povertà nel senso più ampio della parola. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le associazioni locali con scopi culturali, sanitari e di sviluppo della donna, ecc. Molte di esse sono riconosciute dallo stato e, anche se sono realtà interamente musulmane, vengono a chiedere aiuto alla chiesa cattolica tramite la Caritas. Mi presentano dei progetti e discutiamo insieme sulla loro fattibilità.
Ultimamente, per esempio, abbiamo preso in considerazione la formazione di una cornoperativa di pesca, la costituzione di una biblioteca di quartiere, l’alfabetizzazione di ragazzi che hanno abbandonato la scuola. Questi progetti, poi, vengono sottomessi al comitato direttivo della Caritas, presieduto dal vescovo, che decide l’approvazione o meno del progetto.
Di queste associazioni ce ne sono circa 2 mila nella capitale e tutte conoscono e apprezzano la Caritas perché sanno che aiuta e finanzia i loro progetti.
In passato la Caritas ha svolto un programma di formazione per i rappresentanti delle associazioni, per insegnare alcuni elementi base per il loro funzionamento: spirito associativo, come pianificare un progetto, come mantenere la contabilità, ecc. Una iniziativa che intendiamo riprendere. Per questo ho organizzato un incontro con esponenti delle associazioni sorte negli ultimi tempi, a cui hanno risposto una sessantina di persone: tutte si sono dichiarate interessate a continuare tale programma.
Tale assenso sottintende il loro vero interesse, cioè, che la Caritas sostenga i loro progetti; sanno, infatti, che non otterranno il nostro appoggio se i loro progetti non garantiscono un certo grado di successo. Il mio compito, quindi, è di esaminare e disceere quali sono le situazioni di povertà in cui la Caritas può intervenire, studiae i contorni, la fattibilità e il processo di ogni progetto.
Ogni giorno c’è la processione di persone che vengono a chiedere aiuti: vestiti, medicine, soldi per pagare l’affitto… Per questi casi, la Caritas non ha un fondo apposito; ma, dietro mia insistenza, da qualche mese il vescovo ha stabilito una piccola riserva a cui posso attingere per venire incontro a queste richieste spicciole di aiuto.
La maggior parte di queste persone parlano solo amarico, oromo e altri idiomi, per cui è difficile intendersi: dobbiamo cercare qualcuno di passaggio che parli la loro lingua e faccia da interprete. Il fattore linguistico è ancora uno dei problemi più sentiti nel nostro lavoro, perché impedisce il dialogo diretto, limita la possibilità di creare relazioni con le persone.

I BAMBINI DI STRADA

Uno dei programmi della Caritas diocesana si occupa dell’assistenza ai bambini di strada, quasi tutti etiopici. Arrivano a Gibuti illegalmente; cercano di sopravvivere chiedendo l’elemosina o facendo qualche lavoretto. Spesso la polizia li arresta, li picchia, li mette in prigione per qualche giorno; poi li espellono portandoli alla frontiera; ma pochi giorni dopo sono di nuovo in città.
In passato la Caritas si era molto impegnata per farli studiare in Etiopia e per trovare qualche lavoretto nel proprio paese, nella speranza che non tornassero a Gibuti. Ma l’iniziativa ha dato scarsi risultati. Ora questi ragazzi vengono a cercare aiuto alla Caritas. Ce ne sono sempre una ventina che mangiano e dormono nella nostra sede; soprattutto diamo loro assistenza sanitaria nella nostra sede o portandoli all’ospedale se ne hanno bisogno. Se sono presentati dalla Caritas, l’ospedale li accoglie e cura gratuitamente.
Suor Anna, che presta il suo servizio tutti i pomeriggi nella sede della Caritas, si occupa dell’aspetto sanitario e lo svolge molto bene. Ha preso contatto con un ospedale militare, riservato ai soli francesi: la suora può entrare liberamente per chiedere di ricoverare qualcuno e cercare medicine per il nostro ambulatorio.

LA NOSTRA MISSIONE

Le forze pastorali della diocesi sono composte da sei sacerdoti, due fratelli, quattro laici e una ventina di suore di varie congregazioni. Per tutti l’attività principale consiste nella testimonianza della carità.
Non avendo una comunità cristiana da accudire, ci manca l’aspetto pastorale e ci domandiamo come vivere la nostra realtà di preti in un paese musulmano. Ma anche a questo ci stiamo adattando, cambiando il nostro modo di esprimerci.
È chiaro che non possiamo usare lo stesso linguaggio con cui si parla a un cattolico; dobbiamo tenere sempre presente che stiamo parlando con un musulmano. Un credente in ogni caso. Questo si nota molto nel linguaggio inframmezzato continuamente da espressioni tipo «inshallà, inshallà» (se Dio lo vuole) e «grazie a Dio».
Oltre che con il linguaggio, sempre infarcito di espressioni religiose, la gente manifesta la loro religiosità nella vita pratica: le cinque chiamate alla preghiera che il muezzin lancia dal minareto ogni giorno, a cominciare dalle 3,30 del mattino, ci ricordano che ci troviamo fra un popolo religioso. E questo significa che non siamo caduti in un mondo secolarizzato in cui non si può parlare di Dio. Magari nel mondo cristiano si può parlare di Dio solo in chiesa; qui lo si può fare in qualsiasi occasione.
Con un po’ di fantasia si può fare anche animazione missionaria. Nel mese di gennaio, per esempio, abbiamo celebrato due giornate dell’«infanzia missionaria»: l’una per i ragazzi nella scuola La Salle, l’altra per le ragazze in quella di Boulaos. Naturalmente, essendo in un paese musulmano, abbiamo cambiato i termini, chiamandola «giornata dell’infanzia solidale».
Abbiamo spiegato il significato di solidarietà e uguaglianza, dicendo loro che tutti i bambini e bambine del mondo sono amati da Dio, per cui sono uguali, hanno gli stessi diritti e doveri, soprattutto, hanno diritto a un’infanzia felice. Ciò diventa possibile quando ognuno di loro condivide il poco che ha per creare la «grande amicizia» di tutti i bambini. La risposta di alunni e genitori è stata commovente: tanti sono venuti alla celebrazione portando cibo, soldi, vestiti e materiale scolastico, che poi abbiamo distribuito ai bambini più poveri di Gibuti.
Per il resto, viviamo il nostro sacerdozio celebrando ogni mattina la messa per le suore. E poi solennizziamo il fine settimana. Il venerdì a Gibuti è come la domenica per noi: non si lavora e anche la Caritas è chiusa. Il giovedì pomeriggio e il venerdì sono il nostro fine settimana. Questo, a dire il vero, non l’ho ancora assimilato.
Nella città di Gibuti ci sono solo due luoghi di culto cattolico: la cattedrale e una cappella. Il venerdì, alle 8 del mattino, celebriamo nella cappella la messa a cui partecipano una cinquantina di fedeli: di solito sono etiopi, indiani, qualche cattolico francese. La domenica è giorno di lavoro; ma alle 7 di sera, in cattedrale, concelebriamo la messa con il vescovo, a cui partecipano circa 200 persone.
Fuori della capitale ci sono tre paesini in cui operano delle comunità missionarie e dove, a tuo, si celebra il sabato o la domenica.

LE NOSTRE GIOIE

Un giorno una mamma portò alla Caritas la sua bambina paralizzata, a causa di una brutta caduta, diceva lei. Ma all’ospedale scoprimmo che la madre ci aveva mentito: la bambina era paralizzata dalla nascita. Vera, però, era la sofferenza di quella mamma nel vedere la sua bambina in quello stato. Si era messa in testa che certamente qualcuno avrebbe potuto fare qualcosa per guarirla. Cercammo di aiutarla come ci era possibile: le feci qualche visita, portando dei vestiti per la bambina e altre cose utili.
Alcuni mesi fa, quando dovetti ricoverarmi per qualche giorno all’ospedale militare, la donna venne a visitarmi, ma non la lasciarono passare, essendo il controllo molto severo, specie per la gente del luogo.
Quando tornai a casa, trovai una bottiglia di succo di frutta, una di latte, frutta di vario tipo e altre cibarie: non avendo potuto portarle all’ospedale, la signora me le ha fatte trovare nella nostra abitazione. E fu una gradita sorpresa: non mi aspettavo tanta riconoscenza e gentilezza da una donna musulmana, per di più povera.
A volte i musulmani mantengono le distanze verso di noi; altre volte siamo noi a tenerle nei loro confronti. Ma episodi come questo mi fanno capire che è possibile stabilire una relazione di amicizia che va al di là della razza, nazionalità e religione. Questo è un piccolo fatto che mi aiuta ad avere fiducia nella missione che stiamo facendo.
Naturalmente le motivazioni più profonde per la nostra presenza in un ambiente musulmano hanno radici più profonde, che sono l’eucaristia e la vita comunitaria. Consorelle e confratelli della Consolata abitiamo a quindici minuti di distanza. Ci troviamo insieme tutti i giorni per la messa. Abbiamo stabilito un piccolo programma di vita comune, anche se non abbiamo, per il momento, un vero lavoro d’insieme, tranne quello nella sede della Caritas, che è molto limitato. Oltre a fare insieme il ritiro mensile, ci ritroviamo ogni 15 giorni per scambiarci impressioni, esperienze e aggioare eventuali momenti di collaborazione.
Personalmente ho un altro sbocco per esercitare il mio ministero sacerdotale. Ogni sabato vado a celebrare l’eucaristia in un centro a 130 km da Gibuti, per una piccola comunità formata da quattro fratelli delle Scuole Cristiane e due laiche consacrate, che gestiscono un centro di formazione. Dovendo lavorare la domenica, celebriamo la messa il sabato sera.
È scomodo dovere uscire alle due del pomeriggio, con un sole che spacca le pietre, attraversare in auto un deserto interminabile di pietre nere per essere da loro alle sei, ma lo faccio volentieri, perché è una celebrazione ben preparata e partecipata. La preparazione è fatta a tuo da un fratello, che pensa a tutto: letture, canti, preghiere dei fedeli… come se fosse una grande comunità parrocchiale. Si sente che l’eucaristia è davvero sentita e vissuta in profondità.
Queste sono le piccole giornie della vita apostolica in un paese musulmano. In questo senso dobbiamo proprio ringraziare il vescovo che ha saputo fare dell’eucaristia il centro della missione, celebrandola con solennità e il massimo della partecipazione nella cattedrale. Egli ci tiene molto alla vita liturgica della nostra diocesi e la anima con l’adorazione, la via crucis e tutte quelle pratiche che contribuiscono alla vita spirituale dei fedeli.

PER IL FUTURO

La nostra presenza in ambiente islamico vuole essere pure un laboratorio di esperienze da condividere con le altre regioni dell’Africa in cui i missionari della Consolata sono a contatto con il mondo musulmano.
Per ora gli scambi e contatti si sono limitati all’invio di qualche breve relazione sulle nostre esperienze; in cambio abbiamo ricevuto tanti incoraggiamenti. Ma è tempo di dare nuovo impulso alla nostra presenza a Gibuti e ad approfondie il significato. Il vescovo mons. Bertin è pienamente d’accordo con il nostro progetto di dialogo con l’islam; anzi, ci ha esortati ad estenderlo anche alle confessioni cristiane, cioè agli ortodossi e protestanti presenti nel paese.
A un anno e mezzo dal nostro arrivo, abbiamo messo tanta carne al fuoco, insieme a tante speranze per il futuro.

Armando Olaya