Quando gli espatriati marocchini tornano in patria
Arrivano a migliaia, con le Mercedes targate Spagna, Francia o Italia, gli occhiali da sole ultimo grido e le camicie firmate. Vanno nelle case che si sono fatti costruire con i soldi che hanno guadagnato lavorando in Europa, oppure tornano al paese a trovare mammà. Sono i marocchini che ce l’hanno fatta: gli ammiratissimi e invidiatissimi “zmagria” (espatriati), il cui mito si contrappone alla disperazione di chi ci sta ancora provando e che non ha nulla da perdere.
L’alba fresca di Sidi Lahcen trova i mercanti berberi pronti ad aspettarla. Sono arrivati nella notte percorrendo decine di chilometri a piedi o a dorso d’asino. Sui loro vestiti c’è ancora la polvere ocra che il vento solleva dalle piste ghiaiose delle montagne dell’Atlante. È giorno di souq, di mercato: l’unico avvenimento che anima questo villaggio tra le montagne marocchine, strappato al deserto, dove tutto è silenzio.
Le donne avvolte nei loro veli colorati devono ancora arrivare. Poi saranno le voci delle contrattazioni a invadere la piazza del paese. Solo un rumore rompe la quiete e fa innervosire le bestie: il crepitio dei pneumatici di una grossa berlina grigia con targa spagnola che avanza sui sassi della sterrata. “Macchine così da queste parti se ne vedono solo in luglio e agosto – dice Omar, il medico del villaggio, indicando l’auto parcheggiata accanto ai muli – sono quelle dei marocchini residenti all’estero che tornano qui in ferie a trovare le famiglie”.
Dalla vettura scende un uomo sui quaranta, ben vestito. Ha una camicia di marca, perfettamente stirata, occhiali da sole e jeans in netto contrasto con le tuniche tradizionali dei contadini, che lo guardano di sfuggita. Attraversa velocemente le bancarelle del souq, scambiando qualche rapido saluto con i più anziani. Gli altri li ignora. È venuto a comprare solo le sigarette e non si sofferma sui cesti di spezie o sui servizi da tè esposti al mercato. Lui, la spesa, la fa al Marjane: “Il primo centro commerciale del Marocco”, come recita lo slogan pubblicitario. Esattamente come farebbe un europeo in Europa. E come fanno i quasi due milioni di marocchini che ogni estate invadono i lungomare della costa atlantica e mediterranea con in tasca un salario da occidentale.
Il rientro dei marocchini vacanzieri inizia a partire dalla seconda metà di giugno. I porti di Tangeri e Nador e l’aeroporto Mohammed v di Casablanca vengono presi d’assalto e gli zmagria (termine dispregiativo che indica gli espatriati) diventano l’oggetto preferito di discussione dei giornali e delle televisioni locali.
L’amministrazione li chiama Mre: Marocchini residenti all’estero. Il loro contributo all’economia del paese è a dir poco determinante. Secondo le statistiche dell’Office des changes, nel 2005 gli emigrati hanno inviato rimesse per 4 miliardi di euro; con le vacanze estive, poi, nelle casse dello stato e dei commercianti locali arriva un’altra pioggia di dirham, la moneta marocchina.
Anche per questo re Mohammed vi, sovrano del Marocco, ha voluto creare un ministero per i residenti all’estero, con il compito di agevolare i rientri estivi e facilitare eventuali ritorni definitivi. “Mohammed vi – spiega Hussein El Bouziani, aggiustandosi la sua cravatta sul vestito grigio da banchiere – sta mettendo a punto una strategia per recuperare competenze ed euro sulla base dell’esperienza delle tre “i”: Italia, Irlanda e Israele, paesi che si sono sviluppati proprio grazie alle loro diaspore”.
Ma se il governo considera gli Mre elemento fondamentale della ripresa economica, i marocchini continuano a descriverli come “persone senza educazione, che sono scappati dalle zone più povere del paese e oggi cercano la rivalsa”. “Quando senti una macchina che sgomma e uno stereo a tutto volume – commenta caustico Ahmed, sorseggiando una coca ai tavolini del Jour et Nuit di Agadir – non c’è nemmeno bisogno di guardare: è sicuramente uno zmagria. In Europa rispettano la legge, perché hanno paura e non sono nessuno, qui fanno le superstar, perché sanno che con un euro di bakshish (mancia) la polizia lascia correre. Chi ha già un lavoro qualificato preferisce stare in Marocco, dove è qualcuno tutto l’anno, non soltanto in agosto”.
Il giudizio dei marocchini sui loro connazionali espatriati, però, è raramente oggettivo: o è viziato dall’invidia di chi vorrebbe partire, ma non ci è ancora riuscito, oppure dal disprezzo di chi non ha bisogno di emigrare per mantenere la famiglia perché ha un reddito più che adeguato per vivere nel suo paese. Che si tratti di immigrati di prima generazione, come quelli arrivati negli ultimi anni in Italia e Spagna, o di figli di espatriati di vecchia data, come i franco-marocchini, l’effetto sugli zmagria è sempre lo stesso: quello di sentirsi isolati.
Come tutte le superstar, sono al tempo stesso amati e ammirati o odiati e incompresi. “Ogni estate è la stessa storia – sbuffa accaldato uno dei passeggeri in attesa di varcare i cancelli del porto di Nador -. La realtà è che i nostri connazionali ci invidiano perché vorrebbero essere al nostro posto e, quando non ci odiano, ci considerano vacche da mungere. Il problema è che siamo marocchini in Europa e turisti a casa nostra”.
L’amarezza del primo impatto, però, è presto dimenticata: basta una passeggiata sul lungomare di Saidia, Essaouira o Agadir, o più semplicemente il tajin preparato dalla mamma alla maniera tradizionale per riportare il buonumore. E per le loro serate, i turisti marocchini possono scegliere tra decine di festival, concerti e spettacoli che animano le grandi città, eventi capaci di radunare centinaia di migliaia di persone intorno a un palcoscenico, su cui si alternano artisti di fama internazionale, come Khaled, Yossou N’Dour e Shaggy.
Spesso, dopo il concerto, la festa continua in spiaggia, con il classico falò e le chitarre intorno al fuoco, o in una delle tante discoteche della costa. “Quest’anno ho deciso di rimanere in Marocco tutta l’estate – sorride Abdul, giocando con il suo lettore mp3 appeso al collo -. Mi piace tornare a casa perché qui tutto costa meno e posso andare al mare senza che la polizia mi fermi per la strada perché sono un arabo. Non mi importa se mi chiamano zmagria; io qui sto bene e le ragazze non sono arroganti come le francesi”.
Di fatto, l’emigrazione viene ancora considerata una prova di virilità. “Chi parla male degli zmagria non ha abbastanza fegato per lasciare tutto e partire – dice Mounir in uno spagnolo elementare imparato per la strada -. Io sono stato due anni a Ibiza senza documenti e posso dire di essermi messo alla prova. Mi sono anche divertito parecchio in giro per le discoteche dell’isola, a bere con gli amici e a guardare le ragazze. Adesso mi sono sposato e sto qui in Marocco, ma domani chissà”.
Racconti come questo contribuiscono ad alimentare il mito dell’emigrato di successo e della bella vita al di là dello stretto di Gibilterra. Nessuno parla di quanto ha sofferto per attraversare il mare e fare l’operaio in Europa, nessuno accenna alle umiliazioni e alla fatica.
“Nella regione di Beni Mellal – spiega Khalid Zerouali, portavoce della Afvic, l’Associazione dei familiari delle vittime dell’immigrazione clandestina – quasi tutti hanno un amico, un parente o fidanzato morto affogato nel tentativo di superare lo stretto o in quello di attraversare a piedi il deserto libico. Nonostante ciò, tutte le iniziative intraprese per scoraggiare l’immigrazione clandestina si infrangono sulla leggenda di chi ce l’ha fatta e sul fatto che le famiglie degli espatriati considerano i loro figli o fratelli degli eroi, perché mandano i soldi a casa”.
Tuttavia, grazie alla tv satellitare che ha portato nelle case le immagini degli scontri nella banlieue parigina, degli scioperi sindacali e del dibattito sulle vignette su Maometto, tra i giovani marocchini istruiti il mito dell’Europa si sta ridimensionando e con esso anche l’amore-odio per gli zmagria.
Le politiche miranti alla selezione degli immigrati, come quelle proposte dal ministro degli esteri francese Sarkozy, suonano ai marocchini come un tentativo deliberato dell’Europa di privare i paesi in via di sviluppo delle loro risorse più qualificate. “L’Europa vuole i nostri cervelli e le nostre braccia migliori a prezzo scontato – racconta Hafid, che ha passato in Francia sei mesi di stage come studente di agronomia -. Quello che non capisce la gran parte di quelli che vogliono emigrare è che anche qui si può avere un futuro”.
A giudicare dalle centinaia di cantieri aperti e dagli investimenti delle imprese marocchine, europee e americane in tutto il regno, il futuro di cui parla Hafid non è più così lontano.
Lo scorso luglio, alla conferenza di Rabat sull’immigrazione le autorità europee non hanno quasi parlato di espatriati marocchini, mentre hanno discusso a lungo del ruolo tampone del Marocco come paese di transito degli emigranti sub-sahariani, che aspettano il momento propizio per passare lo stretto di Gibilterra. “Intoo a Oujda, al confine con l’Algeria – racconta Araj Jalloul, dell’associazione umanitaria marocchina Homme et Environnement -, centinaia di africani sub-sahariani hanno fatto della foresta la propria casa. Vivono come animali, in condizioni igieniche e alimentari tremende, volutamente ignorati dal governo marocchino e dalle autorità europee. Con fiducia cieca, restano ad aspettare che la mafia ghanese che li ha fatti arrivare fin qui vada a stanarli sulle montagne per dire che è arrivato il loro tuo di saltare le barriere di Melilla o di imbarcarsi su due assi inchiodate per attraversare il Mediterraneo. Non c’è modo di convincerli a tornare a casa: sarebbe troppa la vergogna nei confronti della famiglia che ha scommesso su di loro”.
Sono questi gli immigrati delle immagini trasmesse dai telegiornali: il carico dei barconi di disperati che durante l’estate arrivano sulle spiagge della costa mediterranea o sulle isole italiane e spagnole.
Visto l’intensificarsi dei controlli dei militari locali e delle guardie costiere di tutta Europa, il breve tratto che separa la città marocchina di Laayoune dalle Canarie è stato di fatto bloccato e le nuove direttrici della disperazione partono dalla Mauritania attraverso l’oceano Atlantico, solcando oltre mille miglia di acque impetuose che travolgono un terzo delle barche di passaggio e i loro occupanti. Ma la speranza di aiutare la propria famiglia, il sogno di comprare un auto di lusso, di indossare vestiti firmati e occhiali da sole valgono evidentemente una vita intera.
La reazione di chi queste cose le ha già sono sempre le stesse e sfiorano il paradosso: oggi in Marocco, gli immigrati dell’Africa nera sono oggetto dello stesso astio subito dai marocchini appena arrivati in Europa: “Non ci si può fidare di questi negri. Sono qui solo per rubare e creare problemi” avverte il gestore di un caffè nella medina di Casablanca, mentre un avventore si rivolge a due giovani del Mali gridando: “Rentrez chez vous, tornatevene a casa vostra: qui non c’è posto per voi”.
Ma a casa, insegnano gli zmagria, ci torna solo chi può farlo da vincitore.
Alessio Antonini e Chiara Giovetti