La parabola del «figliol prodigo» (5)

Il mestiere di Dio: è il perdono, sempre e comunque
«Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» sal 53

Se guardiamo attentamente i comportamenti dei due figli della parabola lucana, ci accorgiamo subito che ci svelano due figure speculari che si integrano e si illuminano a vicenda: l’uno mette in risalto la figura dell’altro e tutti e due insieme fanno da sfondo e contrasto a quella del padre.

Amore sconfinato e insufficiente
Ma il padre, nonostante i suoi sforzi, non riesce a fare incontrare i due fratelli, che, stando alla parabola, non si riconciliano; non riesce a farli abbracciare e vede incrinata la gioia che aveva nel cuore, pregustando il sapore di una famiglia di nuovo riunita e felice.
La parabola, infatti, resta sospesa sull’atteggiamento del padre che è giornioso di avere recuperato il figlio che credeva morto; ma è atterrito dall’atteggiamento del figlio maggiore, che gli è sempre stato accanto, ma da estraneo, interessato solo all’eredità e geloso del fratello minore, di cui avrebbe preferito la morte. L’amore immenso del padre resta come un macigno tra i due fratelli; ma specialmente il maggiore non sa o non vuole approfittare del momento di grazia.
Per essere capace di amare, bisogna lasciarsi amare e perdersi tra le braccia di un amore gratuito. Il minore, schiacciato dalla colpa, si lascia travolgere dall’amore del padre; il maggiore non può: è troppo pieno di sé e della sua presunzione di essere sempre stato «il figlio buono».

Per eccesso o per difetto
Per ragioni diverse tutti e due i figli hanno impostato la vita attorno alla «roba», lasciandosi abitare da falsi problemi o, peggio, «da cose»; non si sono accorti che il tempo passava e il vuoto aumentava e tutti e due si allontanavano dal padre: uno andandosene lontano e l’altro restando in casa.
Non basta stare fisicamente in una casa per essere famiglia; non è sufficiente essere in un gruppo per fare comunità. Famiglia e comunità sono eventi del cuore, scelte dell’anima, non meccanismi per risolvere i problemi personali. Si può stare insieme agli altri ed essere soli; fare folla senza condividere nulla. Si può vivere in una comunità una vita intera e restare isolati nel proprio egoismo.
Se si dovesse dare una misura di colpevolezza, sarebbe difficile dire chi dei due figli sia più colpevole, almeno inizialmente, perché alla fine della parabola la colpa del figlio maggiore supera di gran lunga quella del figlio minore. I due fratelli di sangue, ma non di anima, hanno un elemento in comune: di fronte alla scelta tra la vita e la morte, tutti e due hanno preferito la morte, il giovane scambiandola per la vita indipendente, il maggiore per grettezza ed egoismo. In loro si realizza alla lettera la parola della scrittura che dice: «Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17; cf Dt 30,15.19; Ger 21,8).
È sempre meglio non peccare; ma se uno pecca è preferibile chi pecca per eccesso di colui che pecca per difetto. Il primo pecca per errore di valutazione e comunque per amore debordante, anche se sbagliato; il secondo pecca per grettezza e insufficienza di anima, perché incatenato alla golosità del suo egoismo.

Da Adamo a Davide
Allargando lo sguardo alla scrittura nel suo complesso, vediamo che il comportamento dei due figli in Lc non è una «sindrome» isolata, ma un’epidemia che segna la storia della salvezza fin dalle origini. Già nel giardino di Eden, Adamo ed Eva si accusano a vicenda, scaricandosi addosso reciprocamente il barile delle proprie responsabilità e tutti e due «disobbediscono» a Dio, loro padre (Gen 12,13), fino a nascondersi dalla sua presenza (Gen 3,10), con la conseguenza che sono cacciati «fuori» dal giardino della pateità (Gen 3,23-24).
L’esempio dei genitori cade a valanga: Caino e Abele arrivano fino alla morte per gelosia (Gen 4,8). Anche il primo omicidio si compie «nei campi», fuori dalla pateità.
I fratelli di Giuseppe sono gelosi del fratello minore, che considerano un arrogante concorrente per l’eredità, e arrivano a concepire un fratricidio pur di disfarsene; ma poi ripiegano su altra soluzione: lo vendono a mercanti madianiti che lo portano «fuori» in terra straniera, in Egitto per venderlo come schiavo (Gen 27,28-29).
Nella lotta per la successione a Isacco, il figlio minore Giacobbe riesce a ingannare il fratello Esaù, primogenito a cui la legge riconosce il diritto di erede (cf Gen 27).
Tamar, l’incestuosa nuora di Giuda e antenata di Gesù (Mt 1,3), partorisce due figli, ma il secondo, Perez, già nel grembo materno soppianta il fratello Zerach, che avrebbe il diritto legale di essere il primogenito (cf Gen 38,27-30).
Per la successione al trono del re Saul, tra otto fratelli, Dio non sceglie il primogenito, il più prestante o appariscente, ma il giovane Davide, l’ultimogenito, mite e innocuo pastorello. Egli addirittura è scelto mentre non è assente alla cerimonia d’investitura (cf 1Sam 16,1-13).
Tutti questi personaggi hanno in comune un dato con la parabola lucana: il figlio minore prevale sul fratello maggiore, anche contro il diritto e consuetudine. Non è il diritto che conduce la storia della salvezza, ma la gratuità con cui Dio sceglie i suoi inviati, attraverso criteri che esulano da quelli umani. Il comportamento di Dio può apparire ingiusto agli occhi degli uomini, perché questi agiscono in base a un principio cieco di diritto, mentre Dio guarda alle ragioni del cuore e consistenza dell’anima.
Il figlio maggiore della parabola lucana appare il «figlio buono», perché è rimasto in casa accanto al padre, mentre agli occhi del mondo il figlio minore è una pecora nera, perché ha abbandonato il padre, spezzandogli il cuore. A guardare bene però, con gli occhi della verità dell’esistenza di ciascuno, la situazione si capovolge: il figlio che è «fuori» ha il padre nel cuore, mentre il figlio che è «dentro» ha il cuore nella «roba».

Disperde i superbi, innalza gli umili
In questo contesto, la parabola lucana è una cartina di tornasole della storia della «nuova alleanza»: descrive e illustra che Gesù è venuto ad abolire la distinzione tra «dentro» e «fuori» per dare diritto di figliolanza a tutti coloro che ne sono esclusi dalle leggi di purità, dai pregiudizi religiosi o dalla presunzione di chi si ritiene «puro» e considera se stesso come l’ombelico del mondo.
Così pensa e agisce il figlio maggiore, quando rispondendo al padre dice sprezzante: «Ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (Lc 15,30). Non è «suo fratello», ma solo figlio di suo padre. Il «puro» che presume di essere giusto non ha nulla da spartire con uno che è andato a prostitute, non vuole sporcarsi con il fratello che reputa «peccatore immondo». Non si accorge che, mentre il fratello minore ha lasciato le prostitute nel «paese lontano», egli, il «puro», porta nel suo cuore il virus della prostituzione, perché è tutta la sua vita a essere prostituita.
È il capovolgimento della situazione descritta nel Magnificat: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,53). Il comportamento di Dio è la rivoluzione dei sistemi su cui si regge il mondo degli uomini: chi non ha diritto, è accolto; chi è escluso, è accettato; chi è condannato, è salvato; chi non conta vale; chi crede di contare è espulso.
Con questa parabola Lc descrive il comportamento «scandaloso» di Gesù, che accoglie gli avanzi della società: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» e volutamente lo oppone all’atteggiamento dei farisei e scribi, che «mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (vv. 1-2; cf Mt 9,11).
Nulla c’è della logica umana nel comportamento del Figlio dell’uomo, venuto perché nulla si perda di quanto il Padre ha affidato alla sua tenerezza (Gv 6,39). Se da una parte il figlio minore rappresenta l’umanità marginale, che istituzioni e potere escludono anche dall’orizzonte di Dio, perché confondono la propria miseria con la volontà di Dio, il figlio maggiore è il degno rappresentante di chi crede in un Dio costruito a propria immagine e somiglianza e usato come strumento di discriminazione ed esclusione per fare della chiesa una sètta di puri, cioè di senza Dio.

Novità del dio scandaloso
La parabola dei due figli è parallela a quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Essi si recano al tempio per pregare, ma ritornano a casa a ruoli invertiti: l’atteggiamento del fariseo corrisponde a quello del figlio maggiore, mentre quello del pubblicano è identico a quello del figlio minore. Ne leggiamo il testo:
«Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi toò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,10-14).
Nell’interpretazione di questa parabola, molti si fermano alla superficie. Non si tratta, come potrebbe apparire a prima vista di un insegnamento sulla preghiera, che deve essere umile e non presuntuosa. C’è anche questo sullo sfondo, ma non deve oscurare l’insegnamento primario che è la proclamazione di una costante nell’agire di Dio in quanto Dio. Gesù non viene ad annunciare un «Dio nuovo», diverso da Yhwh, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Es 3,6); ma viene a rivelare, a raccontare (Gv 1,18) la natura intima di questo Dio, i cui comportamenti sono molto diversi da quelli dell’uomo.
La parabola espone in modo drammatico il concetto di giustizia come viene applicato da Dio: Dio è giusto perché salva. In Dio giustizia e misericordia s’identificano, tanto da potere dire che Dio è giusto perché salva e salva perché è giusto. Tale «natura» di Dio, che la scrittura aveva codificato (Sal 33,5; 36,11; 40,11; 85,11; 88,15; 103,17; Sir 35,23), si è offuscata nel corso della storia mano a mano che l’uomo si allontanava da lui e si faceva un’immagine di Dio sempre più conforme alle sue idee e al suo immaginario.

Fariseo/figlio maggiore,
figlio minore/pubblicano
La parabola del fariseo e pubblicano è ambientata al tempio, simbolo di Dio stesso, quasi a dire che lo stesso Dio si fa garante dell’autenticità dell’insegnamento di Gesù, «nuovo» e sconvolgente per il contesto in cui viene fatto: un peccatore che si pente è più gradito a Dio di un superbo che si crede giusto e frequenta il tempio, fa offerte generose e si dedica alla beneficenza. Dio non si può comprare perché nessuno lo può vendere.
Dietro al pubblicano pentito in fondo al tempio e al fariseo gradasso davanti alla balaustra si oppongono due concetti di giustizia: quella umana e quella di Dio. Il principio è codificato dallo stesso Lc nel criterio generale: «Egli disse (ai farisei): voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Lc 16,15). Osservare tutte le prescrizioni religiose, partecipare ai riti di culto, dare denaro in beneficenza non rende necessariamente giusti davanti a Dio. A volte aumenta il peccato.
Il fariseo non chiede nulla; apparentemente ringrazia solo e dichiara la sua gratitudine a Dio per la sua benevolenza e benedizione. È lo stesso atteggiamento del figlio maggiore che dichiara di avere dedicato tutta la vita al servizio del padre, senza chiedere neppure un capretto per fare festa con gli amici. Chi potrebbe condannare un simile atteggiamento? Il fariseo del tempio è il figlio maggiore.
Al contrario, il figlio minore è scappato di casa, ha peccato, ha dissolto il suo patrimonio, è diventato impuro tra gli impuri; torna e, secondo la giustizia umana, non avrebbe diritto a nulla. Egli stesso pensa di essere escluso dalla giustizia patea, quando dice nel suo intimo: «Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni» (Lc 15,18-19). Il figlio minore ha coscienza di essere diventato servo, cioè uomo senza diritti. Non ha diritto alla giustizia e se il padre lo cacciasse di sua iniziativa lontano da sé, chi potrebbe condannarlo?
Allo stesso modo il pubblicano nel tempio non osa avvicinarsi a Dio; consapevole della sua Presenza, se ne sta in fondo, quasi che il suo stato di peccato possa contaminare il tempio stesso. Egli è impuro e rende impuro tutto ciò che tocca. Non ha diritto di stare nel tempio (cf Lv 10,10; 13,46). La sua preghiera è disperata, simile a quella di Davide dopo l’omicidio di Uria l’Hittita e l’adulterio con la moglie di lui, Bersabea (2 Sam 12,9): «Abbi pietà di me, o Dio, nella tua chesed (amore di tenerezza), secondo l’abbondanza delle tue rahamìm (grembo materno) cancella il mio peccato» (Sal 51,3).
Il pubblicano del tempio è il figlio minore che si butta ai piedi della giustizia di Dio, abbandonando lì la stessa speranza di essere salvato. Secondo la logica umana, il fariseo nel tempio e il figlio maggiore in casa sono modelli di vita e di fede, mentre il figlio minore e il pubblicano sono la faccia peggiore dell’umanità. L’uomo si crede giusto quando fa le parti uguali; Dio è giusto quando tra diseguali sceglie il più svantaggiato.

il mestiere di dio è perdonare sempre
Nelle due parabole Luca espone la dottrina della giustificazione di Paolo (Rm 1-9; Ef 2,8-10), che si fonda sulla fede e non sulle opere umane, se è vero che «il giusto cade sette volte al giorno» (Pr 24,16); ma è qui che si rivela e si celebra la grandezza di Dio, che chiama ciascuno di noi a imitarlo nel suo comportamento: se tuo fratello «pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai» (Lc 17,4).
Dio è giusto perché perdona senza tenere conto di meriti e demeriti perché la sua misericordia è radicata nel cuore stesso di Dio. Con una frase a effetto si potrebbe dire che il mestiere di Dio è il perdono. È la teologia della croce la sorgente di questa «novità». Su quel legno di morte Cristo insieme a sé ha crocifisso anche il peccato dell’umanità (Rm 5,19; cf 3,24-25; Gal 2,21), inaugurando «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19), che consiste nel dare la giustificazione a coloro che non possono accedervi (Rm 3,23-25; 4,4-8; 5,9-21), perché non hanno nemmeno la forza di alzarsi dalla loro debolezza.
Alla luce di questa spiegazione che allarga la visuale della parabola del figliol prodigo, trasferendola da storia familiare a simbolo della storia della salvezza o della giustificazione, possiamo meglio comprendere le corrispondenze delle due parabole lucane, osservandole in sinossi, assaporandone il testo:
Simmetrie e contrasti sono evidenti. Il fariseo nutre lo stesso disprezzo «morale» che il figlio maggiore riserva verso «questo tuo figlio», che pertanto disconosce come «suo» fratello, nonostante il padre glielo ricordi espressamente: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32).
Il pubblicano e il figlio minore non perdono tempo a «giudicare» il comportamento degli altri, ma vivono la pesantezza della loro situazione e offrono quello che hanno: cioè nulla, solo il loro peccato e «distanza» da Dio. Alla fine il fariseo, che «stava in piedi» davanti a Dio, e il figlio maggiore, che non sa accogliere il fratello corrotto, si ritrovano lontanissimi da Dio e aggravati da un altro peccato; mentre il figlio minore e il pubblicano, che avevano coscienza del loro peccato, si ritrovano accanto a Dio che li accoglie e li «risuscita», per fae uomini nuovi.
I primi hanno perso tempo a guardare la pagliuzza nell’occhio dei fratelli, senza curarsi della trave che c’era nei loro (Lc 6,41-42); gli altri hanno «gettato» letteralmente il loro peso su di Dio, affidandogli la loro cecità e rimettendosi alla sua misericordia: «Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» (Sal 55/54,23) [continua – 5].

Paolo Farinella

Paolo Farinella