Il limbo degli emigrati
La disperazione degli emigranti sub-sahariani
Intervista ad Araj Jelloul, esperto di immigrazione clandestina e cornordinatore dell’organizzazione Homme et Environnement.
Oujda. Araj Jelloul sta seduto alla scrivania del suo ufficio nei locali della parrocchia di Saint Louis. È un marocchino corpulento, con spessi occhiali da vista e un viso bonario. Veste la tunica tipica dei musulmani e mastica tabacco. Una volta fumava. Ha smesso durante i sei anni passati nelle prigioni del defunto re del Marocco, Hassan ii: militava in un sindacato e un giorno scrisse su un quotidiano un articolo troppo critico nei confronti del regime.
Oggi Araj cornordina l’associazione Homme et environnement, che raccoglie cristiani, musulmani e atei, per assistere gli immigrati che tentano di raggiungere l’Europa e rimangono incastrati in Marocco. L’associazione sostenuta dal parroco di Saint Louis, padre Joseph Lepine, e da Medicins Sans Frontières, fornisce assistenza medica di primo soccorso, procura abiti e cibo per gli immigrati e fornisce consulenze legali gratuite ai richiedenti asilo.
Noi conosciamo il fenomeno dell’immigrazione attraverso le centinaia di disperati che sbarcano sulle coste europee in cerca dell’eldorado. Chi sono quelli che non ce la fanno? E perché rimangono in Marocco?
Sono i cosiddetti immigrati di passaggio: si tratta di persone che fanno tappa in Marocco per prepararsi a passare in Europa. Spesso però non ce la fanno perché passare il confine è sempre più difficile e si trovano intrappolati qui: l’Europa è loro preclusa ma, al tempo stesso, non hanno né il denaro né le forze per tornare nei loro paesi.
Ad aggravare gli impedimenti materiali, inoltre, c’è anche il fatto che rientrare a casa sarebbe per loro motivo di vergogna nei confronti delle loro famiglie e comunità. E non è solo una questione psicologica perché a volte sono le stesse tribù a cui appartengono che hanno finanziato il viaggio di due o tre elementi del villaggio. Di solito li scelgono tra i più forti, preferibilmente con competenze professionali di qualche tipo, e procurano loro il denaro per pagare il viaggio, nella speranza che una volta arrivati in Europa aiutino tutti inviando del denaro. L’immigrazione è una specie di investimento.
Chi è che emigra?
Di solito si tratta di sub-sahariani tra i 19 e i 34 anni, in buone condizioni di salute, di livello culturale medio o, più raramente, alto. Vengono dalle aree più povere del loro paese, a eccezione della Nigeria, i cui emigranti vengono da tutto lo stato. Il loro sogno è quello di potersi comprare un’automobile e solo qualcuno desidera tornare a casa.
Chi organizza i viaggi della speranza?
Spesso sono mafie locali, magari collegate ai gruppi criminali che operano in Europa. Ma noi non veniamo in contatto con queste organizzazioni se non tramite i racconti delle persone che soccorriamo. Le mafie sono molto ben organizzate e hanno punti di raccolta nascosti ovunque, per ogni tappa del viaggio.
Io stesso sono venuto a conoscenza dell’esistenza di queste reti mafiose accidentalmente, quando due persone vennero ad avvertirci che c’era una donna che stava per partorire e che aveva urgente bisogno di cure mediche. Noi ci precipitammo sul posto che ci era stato indicato e nel bagno trovammo la donna, ormai cadavere, riversa in un lago di sangue e con la neonata accanto. All’interno dell’appartamento c’erano, stipate, almeno altre 50 persone, ma quando uscimmo, per portare la bambina in ospedale e chiamare la polizia, sparirono tutti.
Al nostro ritorno, nell’edificio non c’era più nessuno. Fu allora che capimmo che i due che ci avevano avvertiti non erano soli: ci avevano detto di essere nigeriani, vestivano firmato e avevano dei cellulari ultimo grido. Era evidente che si trattava dei mafiosi che organizzavano il traffico.
I mercanti di schiavi appartengono a un paese in particolare?
Immagino che ci siano diverse varianti; ma secondo le informazioni in mio possesso, per la maggior parte provengono dal Ghana. È da là che vengono organizzate la maggior parte delle traversate del deserto. Ed è nel deserto che muoiono la maggior parte degli immigrati. Quando qualcosa va storto i trafficanti abbandonano gli immigrati a se stessi e quando non riescono a farli arrivare in Europa li portano sulle montagne intorno a Oujda, promettendo che toeranno a chiamarli quando le condizioni saranno più favorevoli.
Mi è capitato di conoscere alcuni di quelli che vivono nei boschi e di rimproverarli per la loro ingenuità; ma la loro fiducia, alimentata dalla disperazione, è cieca e irrazionale. Spesso, nella rete mafiosa cade chi ha già un parente in Europa in grado di trovare il denaro per pagare il biglietto.
Quanto pagano questi disperati per emigrare?
Dipende. Esistono varie forme di pagamento. Posso citare la storia di una ragazza nigeriana che abbiamo assistito qui a Oujda. Nel suo caso, simile a quello di molte altre, la prima parte del viaggio lo ha pagato la famiglia, in contanti.
La seconda tranche l’ha dovuta pagare lei, prostituendosi lungo la strada. In alcuni casi, le ragazze che rimangono incinte devono cedere il neonato a organizzazioni che procurano bambini per le adozioni illegali.
Il saldo della terza parte del biglietto avviene in Europa, dove le ragazze sono inserite nelle reti della prostituzione. Gli uomini invece spesso pagano in contanti. Pagano circa 500 euro per attraversare l’Algeria o il Marocco e altri 4-6 mila euro per arrivare in Europa.
Ma sono un sacco di soldi per vivere in Africa! Perché gli immigrati non scelgono di usare quel denaro per fare altro, ad esempio aprire un’attività commerciale nel loro paese?
Per tanti motivi. In primo luogo, l’Europa è il sogno di una vita per molti. Poi bisogna aggiungere che intraprendere un’attività in Africa non è così semplice. Basta vedere l’esempio delle téléboutique, in cui si trovano i servizi telefonici e internet: se qualcuno ne apre una e inizia a guadagnare, in poco tempo ne apriranno altre dieci nello spazio di poche centinaia di metri e nessuno riuscirà più a sbarcare il lunario.
Questo è dovuto alla mancata applicazione delle leggi che regolano l’economia e la concorrenza. La totale mancanza di regole è uno dei più gravi problemi di tutto il continente.
Ma allora non c’è proprio futuro?
Un futuro c’è. Sono ottimista. Noi africani abbiamo le carte in regola e le potenzialità per avere un domani più roseo, anche se siamo lontani dal risolvere il problema della corruzione delle élite e delle lotte tra le tribù per la spartizione del potere e del denaro.
Quale ruolo può avere l’Europa nello sviluppo africano?
L’Europa è un punto di riferimento per quanto riguarda democrazia e diritti umani. Nonostante gli abusi e la corruzione che esistono dappertutto, in Europa le regole vengono applicate e i cittadini sono uguali davanti alla legge.
In Africa non si può nemmeno parlare di cittadini, ma di sudditi, che hanno doveri ma non diritti.
Ma non è così semplice. L’Europa è in parte responsabile della condizione in cui versa l’Africa oggi: se lavorasse più attivamente ed efficacemente per contribuire allo sviluppo dei paesi africani, ci sarebbero dei risvolti positivi anche sull’immigrazione verso il vecchio continente.
Ma a voler essere cinici, si potrebbe dire che a noi europei conviene tenere l’Africa nelle condizioni in cui si trova oggi. Un grande supermercato a cielo aperto e un bacino di manodopera a basso costo è meglio di un concorrente, o no?
Forse. Ma allora l’Europa dovrà rassegnarsi a sopportare anche i costi che comporteranno il terrorismo, l’immigrazione selvaggia, le orde di disperati che cercano e cercheranno di raggiungere le coste spagnole, francesi, italiane. Credo invece che, grazie alla prossimità geografica, l’Europa sarebbe la prima a beneficiare di un’Africa più sviluppata e stabile.
Da che mondo è mondo, gli esseri umani si sono spostati da una parte all’altra del globo e la mondializzazione è ormai un dato di fatto. Non si può pensare che i problemi dell’Africa non coinvolgano il resto del pianeta. Le conseguenze di questi problemi, piaccia o non piaccia, pesano sulle spalle di ognuno. Il sottosviluppo dell’Africa è un problema per tutti e a tutti è richiesto un piccolo sacrificio.
Alessio Antonini e Chiara Giovetti