Il dolore degli innocenti

Nel 50° anniversario della morte di don Carlo Gnocchi

«Sogno, dopo la guerra, di dedicarmi per sempre a un’opera di carità, quale che sia, o meglio, quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una cosa sola: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”». Così scriveva nel settembre 1942, il tenente cappellano degli alpini don Carlo Gnocchi. Sul fronte russo prende corpo la sua vocazione di «apostolo del dolore innocente»
e «padre dei mutilatini».

Chi lo ha conosciuto conserva nella memoria l’immagine di un asceta medievale: viso affilato, occhi luminosi, labbra atteggiate a un sorriso triste, ma colmo di espressiva bontà; sacerdote fino in fondo e mai un bigotto, a totale servizio dell’umanità sofferente. Talvolta fu considerato un «prete scomodo», perché in quei tempi, quando tutti miravano al benessere per dimenticare gli orrori della guerra, egli scopriva il senso della vita proprio nel dolore del prossimo.

ESPERIENZA BELLICA

Terzogenito di Enrico, marmista e Clementina Pasta, sarta, Carlo Gnocchi nacque il 25 ottobre 1902 a San Colombano al Lambro, presso Lodi. Orfano del padre a cinque anni, si trasferì a Milano con la madre e i due fratelli, che di lì a poco morirono di tubercolosi.
Seminarista alla scuola del card. Andrea Ferrari, fu ordinato sacerdote nel 1925 dal card. Tosi e celebrò la prima messa a Montesiro, dove  trascorse lunghi periodi di convalescenza in casa di una zia. Nominato coadiutore della parrocchia di Ceusco sul Naviglio, l’anno seguente fu trasferito nella parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano, come assistente dell’oratorio.
Nel 1936 il card. Schuster lo nominò direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane, assistente spirituale degli universitari della Seconda legione di Milano e insegnante religioso all’Istituto tecnico commerciale Schiapparelli. Furono anni di studi intensi, in cui scrisse brevi saggi di pedagogia.
Quando l’Italia entrò in guerra, nel 1940, molti studenti furono chiamati al fronte; per essere vicino ai suoi giovani anche nel pericolo, don Gnocchi si arruolò come cappellano volontario  nel battaglione alpino «Val Tagliamento», destinazione il fronte greco albanese.
Dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 il tenente cappellano fu inviato prima sul fronte russo con gli alpini della Tridentina. L’esperienza del conflitto, con tutti i suoi orrori, lo segnò profondamente, facendogli scoprire la sua vocazione, il suo «sogno» o «carriera» a difesa dei più deboli, come scriveva a un cugino nel settembre 1942.
Nel gennaio 1943, durante la drammatica ritirata del contingente italiano e la tragica esperienza vissuta nella sacca di Nikolajewka, don Carlo si prodigò nell’assistenza agli alpini feriti e morenti, raccogliendone le ultime parole, fotografie dei loro cari e indirizzi di casa, per poi visitare i familiari e portare loro un conforto morale e materiale.
Reduce dal fronte russo, don Gnocchi rimase colpito dal disagio in cui si trovavano tutti gli italiani, civili e militari. Il bilancio di guerra era impressionante: circa 15 mila bambini mutilati, dallo scoppio degli ordigni bellici. Attraverso contatti con la Croce Rossa, autorità militari, civili e religiose, li raccolse nell’Istituto dei grandi invalidi di Arosio (Como), di cui fu nominato direttore (1945).

IL PRIMO MUTILATINO

Una sera sull’imbrunire, mentre rientrava nella Casa di Arosio, trovò ad attenderlo una giovane donna, con in braccio un bambino di pochi anni, che gli disse tra le lacrime: «Non ho più nulla, sono sola al mondo. È da due giorni che non mangiamo. Don Carlo, lo prenda lei il mio Paolo, la scongiuro». Così dicendo, depose il bimbo a terra e si volse come per andarsene, singhiozzando.
Il bambino aveva la gamba destra amputata dall’esplosione di un ordigno bellico; non potendosi reggere, cominciò a trascinarsi penosamente, anch’egli piangendo e guardando la mamma. Don Carlo si inginocchiò accanto al piccolo e lo abbracciò fissandolo con tenerezza, senza dire una parola, fino a quando madre e figlio cessarono di piangere. Si alzò stringendo al petto il piccolo mutilato che finalmente rispose con un tenue sorriso alla carezza del sacerdote. Anche la povera madre sorrise di riconoscenza.
Quel bambino si chiamava Paolo Balducci; aveva otto anni; fu il primo mutilatino ricoverato tra gli orfani di Arosio. Per tutta la sera e parte della notte don Carlo non si allontanò da quel bambino che lo guardava e gli si stringeva come se avesse trovato un nuovo padre, tanto buono da racchiudere in sé anche la tenerezza della madre.
Cominciava così la «carriera» di don Carlo Gnocchi, dando vita a un’opera che lo portò a guadagnare sul campo il titolo di «padre dei mutilatini».

«PRO INFANZIA MUTILATA»

Occorreva, senza indugio, informare la pubblica opinione, coinvolgere le persone di ogni ceto e far vedere i tristi effetti di una guerra fratricida, dimostrare la necessità di riparare all’ingiusta sorte abbattutasi ciecamente sopra inermi e innocenti fanciulli.
Fiducioso in Dio e nella bontà degli uomini, don Gnocchi costituì associazioni di sostegno e non diede più pace a conoscenti e a quanti potevano contribuire alla raccolta di denaro, indumenti e materiale per i suoi mutilatini.
Ben presto la struttura di Arosio divenne insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti, le cui richieste di ammissione giungevano da tutta Italia. La Provvidenza gli venne incontro, nel 1947, con la concessione in affitto, per una cifra simbolica, di una grande casa a Cassano Magnago (Varese).
Tra le innumerevoli difficoltà organizzative e gestionali che tale iniziativa comportava, don Carlo provò anche l’amarezza del rifiuto, l’incomprensione e la critica importuna di qualche sedicente amico. Tuttavia, tali tribolazioni furono compensate dal riconoscimento delle autorità governative: i ministeri degli Intei e della Pubblica Istruzione gli assicurarono appoggio e fondi.
Per meglio cornordinare gli interventi assistenziali verso le piccole vittime della guerra, don Gnocchi fondò la «Federazione pro infanzia mutilata», giuridicamente riconosciuta dal presidente della repubblica Luigi Einaudi, con decreto del 26 marzo 1949. Lo stesso anno, il capo del Goveo, Alcide De Gasperi, promosse don Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio per i problemi dei mutilati di guerra.
Grazie alle sue insistenti richieste al governo e a donazioni spontanee, don Gnocchi ottenne l’assegnazione dei vari edifici pubblici e privati in cui aprì nuovi collegi: nel 1949 a Parma e Pessano (Milano); nel 1950 a Torino, Roma, Saleo e Inverigo (Como); nel 1951 a Pozzolatico (Firenze) e Passo dei Giovi (Genova).
I collegi di Pessano e Passo dei Giovi furono riservati alle ragazze mutilate; mentre quello di Inverigo ospitò anche bambini mulatti, nati in Italia da donne bianche e soldati alleati di colore. E poiché per questi «figli del sole» lo stato non riconosceva rette di ricovero (non avendo una figura giuridica dal punto di vista burocratico, per la loro situazione anagrafica spesso confusa), don Gnocchi lanciò il «madrinato dei mulattini»: le adesioni arrivarono da tutta l’Italia, con concreti risultati educativi, pedagogici e professionali.
Per attirare l’attenzione dell’Italia e del mondo intero sull’opera umanitaria da lui fondata, don Gnocchi lanciò una iniziativa clamorosa: la traversata dell’Atlantico di un piccolo aereo da turismo, battezzato «L’angelo dei bimbi». Il 19 gennaio 1949, dopo 15.800 chilometri e 76 ore di viaggio, il monomotore atterrò a Buenos Aires, tra il tripudio della gente. La risonanza dell’impresa fu tale che, dagli Usa al Sudafrica, tramite le nostre rappresentanze diplomatiche  vennero sottoscritte oblazioni tra i connazionali residenti all’estero: i 15 mila mutilatini potevano contare sull’affettuoso appoggio di tutti gli italiani nel mondo.
Lo stato assisteva allora, con una modesta retta giornaliera, solamente ragazzi le cui mutilazioni erano causate da incidenti bellici. Ma don Gnocchi, fin dall’inizio, accolse anche i mutilati civili e, quando aveva posto e mezzi, accettava anche i poliomielitici. «Lo stato dà in buona parte e naturalmente gli chiederemo di più – soleva dire -, ma non dobbiamo cessare di invitare la gente a offrire spontaneamente e a scomodare i ricchi affinché aiutino i nostri poveri bisognosi».
Il suo amore verso «il dolore innocente» non aveva confini: don Gnocchi riuscì a interessare i governanti dei vari stati, che inviarono loro esperti in Italia a visitare i collegi della Pro Juventute: nasceva così la «Federazione europea della giovinezza mutilata di guerra», costituita dalla presenza di 200 mila mutilatini che, per l’occasione, si riunirono a Roma ricevuti da papa Pio XII.
Durante le vacanze estive del 1953, il collegio di Santa Maria ai Colli di Torino ospitò gruppi di mutilatini provenienti dal Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra e Olanda. Don Carlo passava giornate intere a organizzare gare sportive, passeggiate, visite alla città e momenti di scambio culturale, creando un clima di frateità tra questi giovani, i cui genitori si erano trovati di fronte come nemici sui campi di battaglia.

«PRO JUVENTUTE»

Con l’aumentare di oblazioni e lasciti, si rendeva necessario una diversa organizzazione dell’opera per facilitare le pratiche inerenti al movimento burocratico e amministrativo. Inoltre, prevedendo che con il passare degli anni si sarebbe esaurito l’afflusso dei mutilatini, nel 1951 don Gnocchi sciolse la Federazione Pro Infanzia Mutilata e creò la Fondazione Pro Juventute, ente morale assistenziale, con personalità giuridica, riconosciuto con Decreto presidenziale l’11 febbraio 1952. In questo modo la sua opera poteva perpetuarsi, con l’assistenza ai bambini colpiti da altre disabilità motorie.
Di fatto, vinta ormai la battaglia per i piccoli mutilati di guerra, il complesso assistenziale della Pro Juventute si orientava verso il problema più pesante che affliggeva l’infanzia sofferente dell’Italia di quegli anni: la poliomielite. «La vocazione imperiosa dei poliomielitici è diventata ossessione – scriveva don Gnocchi -. Ho sentito che assolutamente, urgentemente, il Signore vuole questa opera; ebbi in taluni momenti l’impressione di un comando, di una pressione quasi fisica».

RIABILITAZIONE INTEGRALE

Fra tutti gli istituti fondati da don Gnocchi, quello di Parma divenne un centro-pilota, prima per la riabilitazione dei mutilatini, poi per i poliomielitici. Da qui passavano tutti gli aspiranti al ricovero nei vari collegi della Pro Juventute: qui i minori venivano esaminati dai medici, che ne giudicavano le condizioni e ne consigliavano il trattamento da effettuare. In caso di necessità di intervento operatorio essi venivano trattenuti, operati e foiti di presìdi ortopedici e destinati ai collegi di provenienza e indirizzati ai tipi di scuola o attività professionali più idonee.
Nei casi in cui si presentava la necessità di ripetuti interventi chirurgici e una continua assistenza protesico-sanitaria, gli assistiti venivano trattenuti nel collegio dello stesso centro, garantendo loro l’assistenza scolastica e professionale.
Dal momento che per molti dei ricoverati, gravemente colpiti da poliomielite, era impossibile recarsi alle scuole pubbliche, furono inserite all’interno dell’istituto alcune sezioni delle scuole statali (elementari, corsi di ragioneria, avviamento tecnico e commerciale), affidate ad insegnanti governativi di ruolo.
Anche negli altri centri, sotto la poderosa organizzazione professionale Pro Juventute sorgevano e si ingrandivano scuole, officine e laboratori da cui uscivano impiegati, meccanici, falegnami, tecnici ortopedici, radiotecnici, tipografi, tecnici agricoli, ceramisti, sarti e calzolai.
Il concetto di riabilitazione, infatti, era al centro del pensiero di don Carlo e dell’organizzazione dei collegi della Pro Juventute. «Se bisogna ricostruire – diceva – la prima e più importante di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità.
Bisogna rifare l’uomo. Senza questo è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una casa. Né basterà ridare all’uomo la elementare possibilità di pensare e di volere, senza la quale non c’è vita veramente umana, ma bisognerà restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del vivere, voglio dire quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare completamente il potenziale della propria ricchezza personale».
Il suo progetto di rieducazione integrale dell’individuo, in un percorso che armonizza prevenzione e riabilitazione, ponendo al centro del processo terapeutico la persona umana, con le sue potenzialità e  peculiarità, costituiva la novità esclusiva e la straordinaria modeità della Pro Juventute, tanto più se si considera che si collocava in anni in cui le discipline riabilitative stavano muovendo i loro primi e timidi passi.
Nel 1955 don Carlo lanciò la sua ultima grande sfida: costruire un moderno centro che costituisse la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del presidente Giovanni Gronchi, fu posata la prima pietra della nuova struttura, nei pressi dello stadio San Siro a Milano.

ULTIMO DONO… PROFETICO

Purtroppo don Carlo non riuscì a vedere la realizzazione di quell’opera. All’inizio del 1956 fu ricoverato alla clinica Columbus di Milano, dove si spense il 28 febbraio, all’età di 54 anni.
Nei momenti di ripresa, che si alternavano a crisi di agonia, don Carlo continuò a raccomandare ai suoi eredi di prendersi cura della sua «baracca»: così definiva la sua opera.
Poco prima di morire, don Carlo chiamò al suo capezzale il prof. Cesare Galeazzi, noto oculista e suo amico, e gli disse: «Forse mi restano poche ore. Sono povero: nel mio caso un testamento farebbe sorridere, ma mi restano gli occhi da donare. Tu devi promettermi che farai tutto il possibile perché le mie pupille rimangano in eredità a qualcuno dei miei mutilatini che non vedono».
Fu il suo ultimo gesto profetico, che sfidava la legge dello stato, che allora non consentiva simili interventi, e il magistero della chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla questione della donazione degli organi.
Tale richiesta provocò profonda angoscia nell’animo del prof. Galeazzi; ma ci pensò don Carlo a fugare ogni esitazione e il duplice trapianto delle coee su Silvio Colagrande e Amabile Battistello riuscì perfettamente. La generosità di don Gnocchi e il successo dell’operazione ebbero un enorme impatto sull’opinione pubblica e impressero un’accelerazione del dibattito: nel giro di poche settimane il governo varò una legge ad hoc.

L’ESTREMO SALUTO

L’estremo saluto di Milano a don Gnocchi si trasformò in un’apoteosi grandiosa per partecipazione e commozione: una moltitudine dei suoi mutilatini, venuti dagli 8 collegi della Pro Juventute, quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime; poi la commozione degli amici e conoscenti; 100 mila persone a gremire il Duomo e la piazza; l’intera città di Milano listata a lutto. Così il 1° marzo 1956 l’arcivescovo Montini, poi papa Paolo vi, celebrava i funerali di don Carlo.
Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: «Era un santo; è morto un santo». Durante il rito, fu portato al microfono un bambino. Disse: «Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo». Ci fu un’ovazione.
Nel 1986, 30 anni dopo la morte di don Gnocchi, il card. Carlo Maria Martini istituì il processo di beatificazione. La fase diocesana, avviata nel 1987, si è conclusa nel 1991. Ora è tutto in mano alla congregazione delle Cause dei Santi, a Roma. Il 20 dicembre 2002 il papa lo ha dichiarato venerabile.

DON CARLO VIVE

Oggi il carisma di don Gnocchi vive nei 28 centri attivi in 9 regioni d’Italia e in centinaia di poliambulatori e centri minori disseminati in tutta la penisola, dove si continua ad operare con estrema competenza nel recupero fisico e psicofisico di quanti vi accedono.
I rimedi sperimentali per lenire la sofferenza sono nel contempo causa ed effetto della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, inducendo una sorta di circuito virtuoso di azione e pensiero. Inoltre, la Fondazione don Gnocchi, diventata onlus dal 1998, ha dilatato le sue attività per rispondere a tutte le patologie invalidanti che colpiscono persone di ogni età, compresi anziani, malati oncologici terminali e persone in stato vegetativo persistente.
In questi ultimi anni la Fondazione, dal 2001 riconosciuta Organizzazione non governativa, ha assunto dimensioni inteazionali, partecipando a programmi di ricerca in collaborazione con organismi, e promuovendo progetti nei paesi in via di sviluppo. 

Eesto Bodini

Eesto Bodini