Giovanni Natile è una figura di spicco nel panorama della chimica italiana ed europea. Fino al 2005 ha occupato la presidenza della Società chimica italiana e oggi è presidente dell’Associazione europea delle sostanze chimiche e molecolari (EuChems). Ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande sull’incidente di Bhopal.
Prof. Natile, cosa pensa personalmente dell’incidente occorso a Bhopal?
Prima di tutto è opportuno fare delle considerazioni di carattere generale. Quando succede un incidente in un impianto chimico si sente da parte dell’opinione pubblica, con la mediazione o sotto la spinta dei mezzi di comunicazione di massa, un’ostilità profonda verso l’industria chimica in generale e ancor più per la chimica come scienza. La chimica è sentita come sinonimo d’inquinamento, di degrado della qualità della vita e così via.
Ogni incidente, diciamo pure ogni catastrofe, è una miscela di colpe e di fatalità: la componente casuale è spesso aggravata da leggerezza e superficialità; però, mentre nel caso di un disastro aereo o ferroviario a nessuno verrebbe in mente di abolire il trasporto aereo o su rotaia, davanti a un incidente di tipo chimico si avverte un sentimento di rifiuto della chimica in toto.
Sarebbe possibile un mondo senza chimica? La risposta può essere affermativa a patto che siamo disposti a fae veramente senza: un mondo senza chimica sarebbe un mondo senza mezzi di trasporto (eccetto il trasporto animale), senza farmaci, senza indagini cliniche, ecc., visto che tutto o quasi tutto ha alla base un processo chimico. Detto questo penso di poter rispondere alle sue domande.
La tragedia di Bhopal era evitabile?
Davanti a una tragedia che ha avuto costi enormi in termini di vite umane distrutte o danneggiate è doveroso porsi delle domande affinché quanto accaduto non debba ripetersi. Si impone quindi un’accurata anamnesi dell’accaduto per valutare al meglio origini e cause possibili dell’incidente; cause che possono dipendere da colpevoli disattenzioni, dall’aver agito secondo modalità ad alto rischio, o anche da altri fattori sino a quel momento non documentabili come fattori di rischio. Da ogni tragedia dovremmo poter imparare qualche cosa, e di sicuro possiamo imparare.
Faccio un esempio attuale: il triste episodio dell’11 settembre 2001. A parte tutte le considerazioni che si possono fare, ha sicuramente posto in discussione la costruzione, per insediamenti umani, di megastrutture metalliche difficilmente governabili. È vero che la costruzione di edifici molto sviluppati in altezza può stimolare la ricerca e la messa a punto di materiali non convenzionali, contribuendo così al progresso scientifico, ma alla fine qual è la necessità di levarsi così in alto? Anche la sfida della torre di Babele non ebbe molto successo.
Una risposta onesta e chiara a quanto lei mi chiede è comunque difficile. Spero che l’incidente di Bhopal sia stato oggetto di uno studio accurato e abbia contribuito alla messa in atto di adeguati provvedimenti di sicurezza degli impianti che escludano negli anni a venire incidenti simili.
Si parla tanto di etica, ma nessuno mette in dubbio che l’etica della sicurezza nelle fabbriche nel Terzo Mondo è meno seguita che da noi. Numerose multinazionali vi esportano capitali perché, oltre a essere il costo del lavoro inferiore, anche le misure di sicurezza e ambientali possono essere oggetto di compromessi.
Il conflitto tra cultura dell’essere e quella dell’avere è vecchio quanto il mondo; vincere la corsa a profitti sempre maggiori, opponendo esclusivamente ragioni etiche, credo sia pura utopia. Non penso di essere un cinico e non voglio togliere valore a chi s’impegna su basi etiche per un mondo migliore; tento di essere pratico e di suggerire, forse, una via possibile per mitigare la spregiudicatezza del nostro sistema economico. Sarebbe opportuno che tutte le parti in causa facessero uno sforzo comune per far comprendere che i risparmi in certi settori (sicurezza, ambiente, salute) sono nel medio termine penalizzanti anche in termini economici.
Il timore di forti penalizzazioni economiche, derivanti da dover risarcire i danni prodotti, potrebbe essere l’unico deterrente in grado di convincere le imprese a produrre in termini di maggior sicurezza.
I responsabili del disastro di Bhopal sono rimasti impuniti. Non crede che questa impunità porti nell’opinione pubblica una sorta di sfiducia nei confronti delle multinazionali, specie quelle operanti in settori delicati come quello chimico?
Non so se l’assenza di una punizione per eventuali responsabili, o la mancata individuazione dei responsabili, sia la causa prima della paura e dello scetticismo dell’opinione pubblica. Dal mio punto di vista la paura può derivare sia da mancanza di conoscenza come pure dalla consapevolezza che qualche cosa stia avvenendo senza il rispetto delle regole, e quindi con rischi gravi.
Per quanto riguarda la mancanza di conoscenza posso affermare, con rammarico, che la cultura chimica è scarsa anche tra persone con grado di istruzione medio alto. Basta scorrere gli articoli a tema scientifico dei più diffusi quotidiani, per rendersi conto che sono infestati di autentiche sciocchezze, che non aiutano a migliorare le cose. Bisognerebbe cominciare dalla scuola; ma come si fa se nei nostri licei, dove pure è previsto l’insegnamento di chimica, i laureati in chimica non vi hanno accesso come docenti?
Questa, però, è solo una parte del problema. Veniamo a quello del produrre entro limiti più che ragionevoli di rischio. Nel campo della sicurezza si assiste all’intreccio perverso con la necessità di mercato di abbattere i costi di produzione quanto più possibile. Anche qui le risposte e gli interventi sono complessi e di non facile attuazione. Il miglioramento dei processi parte dalla ricerca, finanziamenti per ricerche di base sono limitati; da noi sono costituzionalmente bassi, ma anche altrove la situazione non è così facile.
Investire nello studio di nuovi processi per produzioni, per le quali è già presente una via a costi bassi, non rappresenta un investimento remunerativo, a meno di non prendere in seria considerazione gli aspetti della sicurezza e dell’impatto ambientale, ma queste cose vanno incoraggiate dai governi.
A livello europeo c’è sicuramente una sensibilità maggiore rispetto agli stati ricchi dell’America, ma manca ancora una seria politica della ricerca. Infine i controlli: piuttosto scarsi e talvolta con un livello di competenza piuttosto limitato.
Chi esce dalle nostre università con una buona laurea in discipline scientifiche, conseguita nel tempo legale di studio, ha di sicuro una preparazione eccellente, ma si scontra con una realtà lavorativa precaria e poco retribuita. Ne segue una forte demotivazione, con conseguente emorragia verso altri percorsi di studio meno impegnativi e più remunerativi. In altri termini, il controllo reale necessita anche di un substrato culturale, i cui presupposti vengono da lontano, con responsabilità molto diffuse.
Ma cosa può fare l’opinione pubblica di fronte alle lobby che governano l’industria chimica mondiale?
Se le lobby esistono, non sono esclusivo appannaggio dell’industria chimica. Anche in questo senso un’opinione pubblica, non solo attenta ma anche preparata, può, attraverso quesiti precisi e non con condanne generiche, chiedere ragione di comportamenti e pretendere risposte. Istituzioni ed enti locali devono essere in grado di interloquire in modo utile con il mondo industriale, settore chimico compreso.
Thara Gandhi, nipote del mahatma, si chiede cosa sarebbe accaduto se anziché a Bhopal l’incidente fosse accaduto in un paese dell’Europa o dell’America. Greenpeace afferma che l’ex fabbrica Ucar continua a inquinare le falde acquifere e la nuova proprietaria, la Dow Chemical, rifiuta di porvi rimedio. Le organizzazioni che si occupano dei malati cronici di Bhopal denunciano il disinteresse delle autorità. Come si può avere fiducia in un settore così poco attento alle problematiche umane?
Il lavoro delle associazioni che lei ha nominato penso sia non solo utile, ma anche prezioso per diffondere cultura e sensibilità. Forse alcune necessitano di essere più propositive per poter essere più incisive.
Piergiorgio Pescali