Sabbie mobili nel nord Mali

Armi leggere, droga e transito di immigrati. Questi i traffici della regione desertica di Kidal. Ma soprattutto milioni di dollari d’investimento per cercare il petrolio. Un tenente colonnello tuareg diserta e si dà alla macchia. Poi attacca l’esercito regolare e si ritira tra le dune. Ecco come 100 uomini riescono a intavolare negoziati inteazionali con il governo. In un paese tra i più poveri del mondo.

Bamako. Un’unica strada collega il sud con il nord del Mali. Una striscia di asfalto, molle gran parte dell’anno a causa del caldo infeale, così dritta che pare tracciata con il righello. Lascia il fiume Niger a Bamako, la capitale, per ritrovarlo a Gao, 1200 km dopo. Ma il contesto è cambiato: dal clima saheliano parzialmente umido, passando dal semi arido si è arrivati al deserto; dai popoli neri bambarà, dogon e altri ancora, siamo arrivati nella terra dei tamasheq, meglio noti in Occidente come tuareg, e i loro schiavi bellà.
Questo asfalto ha visto intensificarsi il traffico dopo il 23 maggio scorso. E non di mezzi qualsiasi, ma di blindati e camion militari carichi di truppe. Vanno nelle regioni del nord: Gao, Kidal, Menaka. Da quel giorno, infatti, sembra si sia risvegliata la ribellione tuareg, che aveva insanguinato l’area (estendendosi anche in Niger) agli inizi degli anni ’90.
Il capo tradizionale tuareg, e tenente colonnello Hassan Fagaga, si era già lamentato a fine 2005 con il presidente della repubblica, Amadou Toumani Touré (chiamato popolarmente Att). Secondo lui, gli accordi del ’92 non erano stati rispettati. Le promesse di Att non gli bastano e così a febbraio Fagaga diserta con alcune decine di uomini e si rifugia nelle dune a nord di Kidal. È il suo gruppo che all’alba del 23 maggio attacca due campi militari a Kidal, facendo 6 morti e numerosi feriti e prendendo la città in ostaggio. Nelle stesse ore, il capitano Moussa Bah, comandante di una base a Menaka (località 300 km ad est di Gao), attacca la sua stessa caserma e svuota l’arsenale. Sono passate due settimane da un approvvigionamento dei magazzini dell’esercito in armi leggere e 12 giorni dalla visita del capo di stato a Timbuctù (Tombouctou), dove ha lanciato il gigantesco "Programma d’investimento per lo sviluppo delle regioni del nord" (Pidrin): quasi 26 milioni di euro.
Il Mali è uno dei paesi più poveri del mondo, con il Pil pro capite medio di 370 dollari, la speranza di vita ferma a 41 anni e il tasso di scolarizzazione al 32%. Non si muove dagli ultimi posti (174 su 177) della classifica di sviluppo umano dell’Onu. I maggiori prodotti di esportazione sono l’oro, (che comunque vede una diminuzione della produzione) e il cotone. Quest’ultimo sebbene in aumento come quantità (il Mali è il primo produttore africano) è penalizzato dal corso dei prezzi sul mercato mondiale, in particolare dalle sovvenzioni all’esportazione dei paesi industrializzati.

Senza fissa dimora

Le popolazioni tamasheq, di origine berbera, non hanno mai accettato i confini degli stati. Sono presenti in diversi paesi sahariani (oltre al Mali, Mauritania, Niger, Algeria, Libia), ma quelle che contano sono le grandi famiglie e i loro capi tradizionali. Sono popoli nomadi, che ieri si spostavano con i cammelli e oggi vogliono continuare a farlo con le 4×4 e il telefono satellitare. Abituati a un ambiente estremo, spesso sono armati, e il loro stile di vita è molto diverso da quello dei neri, che utilizzano anche come servi. Nel nord del Mali le famiglie dell’Azawad iniziarono nel 1990 la ribellione armata che vide una tregua negoziata nel 1992, con la mediazione dell’Algeria. La vera fine della guerra fu sancita a Timbuctù, mitica città nel deserto, nel marzo 1996, dalla cerimonia della "fiamma della pace", quando l’arsenale ribelle fu bruciato. Integrazione delle milizie nell’esercito regolare, maggiore autonomia per le regioni del nord e, soprattutto, investimenti per lo sviluppo sono i principali contenuti dell’accordo. Ma nel 2000 il capo tuareg Ibrahim Ag Bahanga non è soddisfatto. Secondo lui gli impegni dello stato non sono stati onorati, diserta e si dà alla macchia. Attacca una postazione dell’esercito e fa ostaggi. L’ambasciatore d’Algeria media e ottiene soddisfazioni delle rivendicazioni del capo, anche molto personalistiche (come lo statuto di comune per il suo villaggio natale).

Militare e democratico

Amadou Toumani Touré, è presidente della repubblica dal maggio 2002, quando fu eletto democraticamente. Da allora, il suo governo non ha una vera opposizione, in quanto tutti i maggiori partiti lo hanno sostenuto. Att aveva già preso il potere con un colpo di stato militare nel 1991, per mettere fine alla dittatura di Moussa Traoré, durata, sotto forme diverse, dal 1968. Si apprestò a preparare una transizione civile, e un anno dopo fu eletto Alpha Oumar Konaré (attuale presidente della commissione dell’Unione africana), che ottenne poi un secondo mandato. Alpha appoggiò la candidatura di Att nel 2002. Un tale panorama politico vedrà una facile rielezione di Att a maggio 2007, anche se questi non si è ancora candidato ufficialmente.
Il presidente, conosce bene la "questione" tuareg: nel ’90 comandava proprio le truppe nel nord.
Ora Fagaga accusa il governo di non aver rispettato i patti. Soprattutto quelli sull’investimento allo sviluppo. "Di fatto il nord è considerato la zona più depressa del paese – ci racconta Marco Alban, rappresentante di una Ong italiana che da anni è presente in Mali – e il governo invita tutti i grandi finanziatori a intervenirvi. Le più grosse Ong, come Oxfam, Medici senza frontiere, e agenzie dell’Onu, come il Programma alimentare mondiale, hanno progetti in queste regioni". Ma, continua, "resta comunque difficile avere un buon impatto sulle condizioni di vita a causa della vastità del territorio e della dispersione della popolazione, e ancora più complicato è misurarlo se si volesse fare una valutazione. Sono, inoltre, in corso di elaborazione studi che probabilmente ridisegneranno la mappa della povertà nazionale e indicheranno altre zone come prioritarie per i progetti di lotta contro la povertà".

Rivendicazioni che ritornano

I nuovi (ma vecchi) ribelli chiedono di essere reintegrati nell’esercito, ma senza carichi penali e, soprattutto, lo statuto speciale per la regione di Kidal, che già gode di una certa autonomia (è l’unica delle otto regioni del Mali ad avere un governatore eletto e non nominato dal governo). Questo vorrebbe dire una gestione fiscale autonoma e un miglioramento dell’accesso al voto (cosa non semplice, visto che qui si vive in poche famiglie disperse tra le dune). Att sa che se Kidal ottenesse l’autonomia la reclamerebbero anche le altre due regioni del nord: Gao e Timbuctù. E questo è un forte rischio per l’integrità nazionale. "In effetti se dividessimo il Mali all’altezza di Mopti dove c’è una specie di strozzatura sulla carta geografica – confida un osservatore internazionale – otterremmo due paesi molto diversi. Uno sahariano, desertico e l’altro saheliano – sudanese".
Capita, di questi tempi, di incontrare sul volo Bamako – Parigi energumeni un po’ grezzi, con i volti bruciati dal sole e i calzoncini corti. Parlano solo inglese, con un forte accento australiano. Non è un caso: da quando si è scoperto il petrolio in Mauritania (il primo grosso giacimento nel 2001), una mezza dozzina di compagnie petrolifere (canadesi, malesi, sud africane e soprattutto australiane) stanno investendo milioni di dollari per setacciare 800.000 chilometri quadrati di deserto maliano, prontamente diviso in lotti e dato in concessione dal governo. Con il prezzo attuale del barile di greggio le ricerche sono economicamente giustificate. Le analisi preliminari danno indici positivi, dicono gli esperti, ma al momento non ci sono certezze. Ecco perché Att, durante la sua visita a Timbuctù ha detto: "Se il petrolio sarà trovato apparterrà alla nazione intera". Di dividersi quindi, non se ne parla.

La risposta di Att

Lenta, ma solida, la risposta agli attacchi di maggio. In tre giorni blindati e truppe dell’esercito regolare sono arrivate a Gao, Kidal, Menaka. "Intoo a Gao c’è un cordone di blindati, mentre è sconsigliato, dallo stesso governatore, muoversi al di fuori della città" ci conferma una fonte sul posto. I ribelli sono fuggiti, portandosi via molte 4×4 rubate a servizi statali e a privati, e una buona quantità di armi leggere. "Il forte rischio è la militarizzazione del nord – continua – già in atto che ha come conseguenza certa il dilagare del banditismo". La gente del nord ha lasciato le città all’arrivo dell’esercito regolare (in questo caso composto prevalentemente da etnie del sud) per il timore di ritorsioni come quelle della precedente guerra, quando si era scatenata una vera caccia al tamasheq. Le popolazioni sono poi rientrate, vista la situazione calma ma permane la tensione. Il rischio di frizioni etniche è comunque reale. Anche in seno all’esercito, composto da neri e da "pelle rossa" (come sono chiamati i tuareg, dalle popolazioni del sud, a causa della loro caagione più chiara), che non si possono sopportare.
Nel resto del paese la gente vede l’ennesima ribellione come un continuo chiedere senza in realtà alcun desiderio di integrarsi nella società maliana, di far parte della nazione.
Ma la maggior parte dei tamasheq del nord hanno capito che la guerra non è la via giusta. Molti ex capi della ribellione di dieci anni fa preferiscono oggi la politica, che grazie al decentramento ha visto eleggere sindaci e consiglieri comunali tra le grandi famiglie della zona.
La società civile di Gao e Timbuctù si sta impegnando a fondo per far capire ai loro "fratelli" come questa scelta delle armi sia sbagliata. "Si sono fatte riunioni e delegazioni di associazioni vanno a Kidal dalle altre due regioni, per spiegare che in questo modo si rischia di annullare tutto quello che è stato ottenuto con le precedenti lotte" ricorda Alban. "È chiaro, d’altro lato, che se Kidal avesse lo statuto speciale, anche loro lo rivendicherebbero".

Tra Libia e Usa

Alla ricorrenza del Mouloud (nascita di Maometto) quest’anno, a Timbuctù un’imponente celebrazione è stata finanziata da Gheddafi. Con gran dispendio di risorse, mezzi e persone, la Guida (come è chiamato il leader Libico) era presente lo scorso aprile nella città detta dei 333 santi dell’Islam. Anche Att c’era, e con lui capi di stato di Senegal, Mauritania, Niger e Sierra Leone. Ma il padrone di casa ebbe un ruolo di secondo piano. Gheddafi organizzò un incontro con i capi tradizionali e chiese "l’unione sacra dei popoli del Sahara, per difendere questa terra benedetta contro gli invasori stranieri". Rilanciò l’idea di una nuova entità geopolitica: "Dobbiamo creare una Carta di Timbuctù per fare del Sahara una grande famiglia". Una sorta di stato dei popoli del deserto, di cui lui sarebbe a capo.
"Già nel 2005 si erano tenuti incontri dei leader tradizionali del Sahara in Libia". Ci racconta la nostra fonte: "Gheddafi ha anche incontrato Fagaga a Timbuctù e questo senza invitare il governo maliano". Molti vedono dunque un ruolo destabilizzante della Libia nella zona. A marzo è stato aperto un consolato libico proprio a Kidal, con l’obiettivo di seguire un investimento in sviluppo di 50 milioni di dollari. Ufficio che ha chiuso pochi giorni prima dell’attacco.
Capita, sempre in questi giorni, di vedere la notte decollare dall’aeroporto di Bamako un grosso cargo quadrimotore grigio con la scritta "Us Air Force". Nulla di strano, vista la presenza di basi Usa nel nord del Mali, nell’ambito del programma Pan-Sahel, che prevede un appoggio americano, soprattutto con istruttori, ma non solo (si parla di alcune centinaia di soldati solo in Mali), agli eserciti dei poveri paesi saheliani. Uno dei programmi di sicurezza finanziati dal Pentagono dopo gli attacchi del 2001.

Rischio inteazionalizzazione

Nella stessa zona sono in effetti presenti e organizzati Gruppi salafisti per la predicazione e il combattimento, terroristi molto attivi anche in Algeria. Furono loro a rapire 14 turisti europei nel deserto algerino nel 2003 e nasconderli in Mali.
Il rischio e la paura di molti di un’inteazionalizzazione della guerra con implicazioni Usa e paesi sahariani è remoto ma reale.
"Kidal è oggi anche l’incrocio di traffici molto redditizi: armi leggere, droga e immigrati fanno scalo nella cittadina tra le dune. E queste sono altre componenti di rischio". Racconta un osservatore.
In Niger, intanto, il presidente Mamadou Tanja, è preoccupato degli avvenimenti del vicino. Nel suo paese la presenza tamasheq è importante e la storia recente simile. A giugno invita a colloquio un ex capo della ribellione e rappresentanti degli ex combattenti. Rinnova le promesse su indennizzi e reintegrazione e vara un programma di maggior contatto tra le autorità ed ex ribelli.

Alla ricerca di una soluzione

Att vorrebbe risolvere il conflitto in casa, come una questione intea all’esercito maliano, con una mediazione diretta governo-ribelli. Ma si accorge ben presto che non è possibile, gli stessi capi tuareg chiedono un mediatore esterno. L’Algeria, già forte dell’esperienza degli anni ’90 e della risoluzione dell’incidente Ibrahim Ag Bahanga del 2000, accetta la difficile missione. Alcuni osservatori paventano l’opzione militare: "Il governo maliano ha già concesso larga autonomia, e con la decentralizzazione amministrativa il potere locale è in mano ai tamasheq. Altra cosa sarebbe lo statuto speciale che il presidente non concederà. Per questo se le posizioni dei ribelli si induriranno, il conflitto potrebbe protrarsi".
Ma è dei primi di luglio la notizia che le delegazioni governativa e ribelle, incontratesi ad Algeri, hanno firmato un accordo di massima. I tuareg rinuncierebbero allo statuto speciale, mentre il presidente Att si impegna ad aumentare ulteriormente gli investimenti allo sviluppo nelle tre regioni nel nord, (in prevalenza a Kidal), con un pacchetto di 70 milioni di euro. Impunità garantita ai disertori, che potranno reintegrare l’esercito.
Su questa strada, ai 40 gradi all’ombra che caratterizzano l’inizio della stagione delle piogge, leggiamo una scritta a grossi caratteri sulle case della cittadina di San, a 400 km dalla capitale: "L’uomo propone, Dio dispone". Una certezza questa per la gente del Mali, come certo è che la "questione tuareg" non finisce qui.

Marco Bello

Una radio da … 1.200 euro

Siamo nella città vecchia di Mopti, nei pressi del porto fluviale sul Bani, affluente del Niger. Da qui partono piroghe e barconi variopinti, carichi di gente e mercanzie per la mitica Timbuctù, più a nord, nel Sahara. Poco lontano un’antenna svetta su una casa fatiscente. Al primo piano in due stanze dall’intonaco scrostato c’è gran fermento. Ci troviamo a Radio Jamana Mopti, una delle voci più ascoltate in zona, anche dal mondo rurale.
Questa Radio fa parte della cornoperativa editoriale Jamana, che conta una decina di emittenti in tutto il paese. Jamana pubblica anche uno dei rari quotidiani del Mali, Les Echos, un mensile in lingua bambarà e libri. È il più grosso gruppo editoriale del paese e, guarda caso, fu diretto da Alpha Oumar Konaré, che divenne poi presidente della repubblica per due mandati consecutivi dal ’92 al 2002.
Radio Jamana Mopti fu creata a fine 1997, ci racconta Aliou Djim che ne è stato direttore dalla fondazione ai giorni nostri. Ora lui andrà a dirigere Radio Benkan, sempre di Jamana, a Bamako.

Promozione culturale

Aliou racconta che "la missione principale delle radio Jamana, sparse soprattutto all’interno del paese, è la promozione delle lingue e della cultura locali". Per questo, ad esempio, a Mopti Radio Jamana trasmette in sette lingue, di cui sei locali (bozo, fulfuldé, dogon, sonrahi, bambarà, tamasheq) e il francese. "Inoltre, si investe molto ad accompagnare la massa rurale in tutto quello che è lo sviluppo". Questo vuol dire, di fatto, veicolare i messaggi delle Ong e delle organizzazioni di base, che siano esse locali, nazionali o inteazionali. "Se ad esempio una Ong vuole far pervenire un messaggio in tutto il cercle (provincia, ndr) di Mopti al più gran numero di beneficiari, nello stesso momento noi realizziamo una trasmissione in più lingue". La radio si propone come supporto in comunicazione tra Ong e contadini. E vendendo questi servizi trae anche il suo sostentamento.
"La maggiore sfida attuale è assicurare la nostra perennità. Ci autofinanziamo con le prestazioni al 100%, mentre l’apporto della cornoperativa Jamana si limita all’installazione della radio e alla foitura di materiale di lavoro. Il funzionamento, come i salari, affitto, elettricità deve arrivare da qui". Un posto dove i ricavi non sono così facili, ricorda Aliou.
"Mopti ha 100 mila abitanti e 8 radio. È bene che ci sia pluralità, ma questo vuol dire che il prezzo del servizio diminuisce, quando invece i costi restano gli stessi".
Alla radio lavorano 6 persone fisse, mentre altre 20 collaborano stabilmente. Il costo mensile per farla funzionare è di circa 1.200 euro, tutto compreso.
Che obblighi avete con la cornoperativa Jamana? "Siamo autonomi in gestione ma non siamo indipendenti, apparteniamo alla cornoperativa. I nostri obblighi principali sono che la radio sopravviva. Poi c’è l’accompagnamento della popolazione, la promozione delle lingue e cultura, ecc. Lo facciamo senza problema, siamo qualificati, ma la sopravvivenza della radio ci distrae, occorre trovare i soldi necessari".

Informazione

"Diamo informazione quotidiana. Abbiamo un comitato di redazione che ricerca notizie in città, tutta l’attualità che può interessare alla popolazione. Le trattiamo e le diffondiamo in francese e in tutte le lingue locali. Siamo considerati come la radio di informazione della zona perché diamo più attualità locale. Guardiamo anche su internet quali sono le informazioni nazionali e inteazionali che possono avere incidenza sulla vita dei cittadini di Mopti e della regione. E cerchiamo di adattarle e riproporle. Ad esempio se troviamo informazioni sul pesce che è molto importante qui le trasmettiamo, per preparare i pescatori a problemi che potrebbero presentarsi".
Il direttore traccia un bilancio positivo: "Radio Jamana ha aperto un campo fertile: abbiamo lavorato in modo da dare voglia a molti di imitarci. Quando iniziammo a Mopti c’era solo la radio di stato e un’altra privata, la nostra fu la terza. Abbiamo promosso uno spazio radiofonico plurale. Abbiamo, inoltre, lavorato molto sulla pratica delle lingue che adesso si è più diffusa. Si è creato un dialogo tra la radio e la popolazione per rinforzare lingue e cultura. Trasmettiamo racconti e musica che un tempo si ascoltavano solo tra poche persone, riuscendo così a ridiffonderli.

M.B.

Marco Bello




Ripensare… l’Africa

Paese tra i più piccoli dell’Africa, disastrato da 38 anni di dittatura di Gnassimgbé Eyadéma, nazione composta di 37 etnie, società dominata da feticci e fattucchieri… Il Togo rimane un enigma, anche dopo aver visto e ascoltato le testimonianze di alcuni missionari, impegnati nel dare speranza a una popolazione stremata, e delle suore di San Gaetano, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri.

Ritoo dall’Africa occidentale. Una terra rossa, nera, cupa, un cuore di tenebra. La gente è fiera e scontrosa, chiusa in un mondo arcaico e lontano, impenetrabile.
Ho visitato Togo e Benin, due paesi che si affacciano sull’Atlantico, sul litorale conosciuto come "costa degli schiavi". L’oceano che la bagna fa paura, non si può avvicinare: le onde sono enormi, le risacche e le correnti impietose. Altri pericoli sono gli insetti, serpenti, malaria.
Si nasce e si muore molto in Africa. I funerali sono belli, grandiosi: si balla e si canta, con gli abiti della festa, ma solo se a morire è un anziano. Il giovane colpito dal male è ritenuto vittima di una maledizione. Tutti temono l’incidente, che sarebbe prova di disgrazia presso il divino. Gli spiriti sono potenti, onnipresenti, e fanno da tramite tra umani e creatore, innominato e invisibile.
Qui, più che nel resto del continente, si viene presi dall’inquietudine. I feticci sono agli incroci dei sentirneri, dentro gli alberi giganteschi, davanti alle capanne di fango.
Il mito si succhia col sangue della madre, dicono, e le madri africane sono forti, fiere. Devono esserlo, perché tutto dipende da loro: lavorano, trasportano pesi sul capo, vendono nei mercati, sempre col piccolo legato sul dorso, col capo penzoloni.
Le bambine di pochi mesi hanno già gli orecchini e minuscoli bracciali. Ti guardano con uno sguardo profondo, maturo. Pare sappiano già tutto sul loro destino e appena possono cercano la tetta matea per consolarsi.
Bambini con la zappa sulla spalla, che partono all’alba per i campi e ritornano la sera. Non ci sono macchine agricole in Togo. Ci sono loro, cui è negata la scuola e l’assistenza sanitaria. Ridono, se li fotografo.
Il viaggio
Dopo lo scalo ad Abidjan, ci ritroviamo in pochi sul volo da Parigi. Sono iniziate le vacanze, ma evidentemente a nessuno interessa venire in Togo. Katia è una signora di Padova che vive in Africa da 20 anni. "A febbraio è morto il presidente Eyadéma e per tre mesi abbiamo avuto gravi disordini – mi spiega -. Giovani scatenati sotto l’effetto di droghe terrorizzavano, uccidevano e saccheggiavano le case. Il console era partito per l’Italia senza avvertire la nostra piccola comunità. Un amico mi ha chiamato per dirmi di correre a casa con quante più provviste possibili e non muovermi".
Katia ama l’Africa e ha deciso di impiantarvi un’azienda che importa dall’Italia vecchi macchinari industriali, buoni per avviare attività in questi paesi ancora molto arretrati. "Abbiamo fatto arrivare le macchine per far mattoni; qui li fanno ancora a mano" mi spiega e pare orgogliosa del fatto che anche il figlio lavora con lei e ha allargato l’attività a molti altri paesi africani.
Lomé
La mattina sono svegliata dal grido sinistro di migliaia di pipistrelli. Apro la finestra e il paesaggio che vedo è sconfortante: tristi edifici in cemento emergono dal verde dei parchi; il cielo grigio è oscurato dagli sgradevoli animali.
A colazione incontro solo militari francesi in divisa mimetica, tra i quali noto anche una donna robusta, in calzoni corti come i compagni. "Siamo qui per i problemi in Costa d’Avorio" mi dice per rassicurarmi.
Gli unici senza divisa sono due grassi cinesi, che fumano e si riempiono il piatto di salsicce. La guardia all’ingresso mi sconsiglia di uscire verso la spiaggia, può essere pericoloso. Cerco allora un autista, che in un’ora mi porterà ad Anfoin, dalle suore di San Gaetano.
Lasciamo la capitale attraversando un vasto mercato; poi superiamo il porto, con lunghe file di containers. Lo hanno venduto a stranieri; di stranieri sono i capannoni industriali che stanno sorgendo lungo la strada costiera.
Olandesi, francesi, anche italiani, ma i più ricchi sono i libanesi, da sempre presenti in Africa occidentale. Pare siano anche molto arroganti; ma da sempre sono loro a provvedere agli approvvigionamenti in questi paesi disastrati.
La missione è immersa in un giardino bellissimo di fiori e frutta. Vengo accolta dalla superiora della piccola comunità, suor Natalina, che è infermiera e responsabile del dispensario. Con lei farò le prime visite e ascolterò i consigli utili per il viaggio che da qui mi porterà nel nord.
VENTO
L’harmattan è un vento carico di polvere, che sfuma i contorni delle cose e rende il sole pallido. Dopo tre mesi di siccità, questo vento sta prosciugando la terra. Solo la manioca resiste. Le folate dovrebbero portare sollievo dall’afa, ma mi rendo conto che il sudore continua a bagnare la camicia, anche se resto immobile. Il viaggio è duro, su strade polverose, attraverso villaggi dove la vita degli abitanti è rimasta a livelli primordiali.
Prima di partire sapevo che avrei visitato l’Africa dell’animismo e che la popolazione, pur aderendo ormai al cristianesimo o all’islam, non ha abbandonato il credo degli antenati. L’idea del sacro insito in ogni cosa, albero, roccia, fiume, mi affascina. Così percorro queste strade cercando di cogliee gli aspetti.
Quassù nel nord non riesco a dormire; qualcosa di profondo mi turba: il paesaggio è arido, punteggiato da grandi alberi e denuncia uno sfruttamento antico delle foreste. La pastorizia è ancora praticata dai peul, gente fiera e bella, venuta da lontano, che vive spostandosi continuamente alla ricerca di nuovi pascoli. Poi i tatasumba, con i loro castelli d’argilla, che cercano di uscire dalla loro arretratezza.
Ovunque sono presenti i feticci e i feticheurs, uomini dai poteri magici, che sovrintendono la vita delle comunità. Incontro anche alcuni giovani che vanno a scuola e, specialmente le ragazze, che desiderano un’altra vita.
Missione
Ritoo nella missione di Anfoin e comincio a capire. "Noi suore abbiamo imparato molto da un’anziana donna, ora defunta – mi dice suor Natalina -. I suoi insegnamenti saggi, di grande rispetto per la vita, hanno influenzato e segnato la vita della famiglia e della comunità. Era animista, ma era una santa donna".
Questi sono paesi di grandi, antiche civiltà, che a contatto con gli europei hanno subito lo scardinamento sociale. C’era una forma di governo che si fondava sulla scelta della persona più idonea, fatta dal consiglio dei saggi. Gli inglesi hanno imposto un loro uomo di fiducia, che facesse i loro interessi, inviso alla popolazione, ma scelto tra gli abitanti. I francesi, invece, hanno governato direttamente i territori, sfruttandoli senza scrupoli. Anche oggi lo fanno, tramite i corrotti capi di stato che sostengono, anche con le armi.
La mattina padre Coelio celebra la messa. Alto, pelle scurissima, le sue poche parole di commento al vangelo mi commuovono. Poi incomincia la giornata di lavoro.
Suor Luciana è una marchigiana energica e positiva, arrivata in Benin tanti anni fa, dopo una lunga esperienza missionaria in Brasile. Suor Luciana trova molta soddisfazione nella cura dell’orto e del giardino. "Non posso più fare a meno di questo paese – mi confida – il caldo, il senso di libertà… Quando mi chiamarono a Torino, per due anni in casa madre con le sorelle cieche, mi pareva di essere in prigione".
Quando deve uscire dalla missione suor Luciana indossa un pareo sopra la veste bianca e si fa sempre accompagnare da un africano. Ciò risolve molti problemi, nei mercati così caotici, dove il francese non è molto conosciuto. Innocent è uno degli uomini di fiducia della missione e in questo periodo ha grandi preoccupazioni. La moglie, incinta del terzo figlio, è stata messa in un convento di feticheuses dalla sua mamma. Ora vorrebbe ritornare, ma Innocent non potrà più accoglierla in casa.
La più anziana del gruppo è suor Adolfa, una vera roccia, che sa gestire le proprie forze in questo paese dal clima impietoso. "In Brasile, dove ho lavorato per 19 anni prima di arrivare in Africa, le cose erano più semplici, per via della lingua comune a tutti". Adolfa mi spiega che qui a volte non ci si capisce da un villaggio all’altro.
Suor Anna è un tesoro di cuoca. Sa che dipende anche da lei la salute della comunità. Qui ci si ammala e si muore improvvisamente, come è capitato la scorsa estate, quando una consorella cadde ammalata e morì in poco tempo, pare per un blocco renale. Nell’orto si coltivano manioca, melanzane, banane, mais e frutta. Poi ci sono le galline, per le uova fresche. Alle palme da olio mature è stata praticata un’incisione, da cui fuoriesce un succo che beviamo a tavola, come vino. Fermentando, produce la soda B, una specie di acquavite, amata dai locali.
A tavola si conversa e vengo a sapere tante cose. In questa natura forte, primordiale, noi non potremmo sopravvivere, con tutte le nostre conoscenze e la nostra supponenza. La gente è molto abile nel catturare i serpenti velenosi, mentre rispetta i pitoni sacri, che non uccidono. I serpenti si possono nascondere nelle case o sugli alberi e sono sottili, invisibili. Prima di avvicinarsi a un albero e salire sui rami, l’africano getta un pugno di terra. Per farsi la casa scava una buca e ne lavora la terra, con cui costruirà i muri; poi la buca si riempirà, durante le piogge, evitando che il terreno dilavato danneggi i muri.
Corale
L’Africa può cambiare una vita. Non sarò più la stessa dopo aver mangiato questa polvere, aver udito queste voci.
Si sono seduti in circolo, ora. Stanno solo accordando le voci e stonano anche. La notte è fuori e ci avvolge. Siamo nel gazebo della corale e ho accanto i due piccoli al tamburo. Questa sera mi pare si canti meglio del solito. I ragazzi erano venuti a dirmelo nel pomeriggio, che ci sarebbero state le prove.
Oggi si è presentata in missione una giovane in carrozzella. Era in lacrime. Pare sia stata scacciata dalla sorella, che l’accudisce da quando, bambina, è stata colpita dalla polio: non la vuole più e le ha anche preso i soldi ricevuti per pagare il corso da parrucchiera.
Suor Luciana controlla, la ragazza è nell’elenco degli handicappati seguiti dalla missione. Prima di tutto carichiamo la giovane sul mototaxi per riportarla a casa, e le diamo 2.000 franchi (Cfa) per il vicino, che la assisterà nei prossimi giorni. Poi suor Luciana decide di portare la carrozzella dal meccanico: è tutta rotta e arrugginita, la faremo riveiciare. Emergenze ce ne sono sempre e le suore si organizzano; con calma cercano una soluzione a tanti problemi.
Padre Roberto
Padre Elio è un personaggio vulcanico, pieno di iniziative e col piglio deciso dei comboniani. Dopo aver diretto per qualche anno la rivista Nigrizia, ha fondato Radio Speranza, che trasmette dalla sua parrocchia, a 30 km da Anfoin. Sono ospiti in questi giorni un missionario spagnolo molto simpatico e un veronese dall’aspetto triste e sofferente. Quest’ultimo mi pare critico nei confronti di un confratello molto conosciuto nel paese e stimato per la sua profonda conoscenza del Togo e della sua gente.
È Roberto Pazzi, un missionario che ha fatto una scelta radicale: vivere da eremita nell’arida brousse, in una capanna di paglia come un africano, contando solo sulle proprie forze e su ciò che produce la terra.
Suor Luciana me lo farà conoscere, perché è a lui che le suore di Anfoin si confidano.
Il terreno per il romitaggio è stato concesso dalla diocesi, che ne è proprietaria. Si arriva percorrendo una pista tra palme da olio e campi di manioca. Superata la fontana artesiana, ora a secco, proseguiamo a piedi lungo uno stretto sentirnero e sostiamo davanti alla cappella di fango secco col tetto di paglia. Il crocefisso è fatto con due bastoni di legno incrociati e legati.
Siamo accolti da un’anziana suora, Marie Jeanne. Capo rasato, i piedi scalzi, vestita con un abito-grembiule a fiorellini, mi indica il lusso della sua capanna: il pavimento di cemento. Poi con un sorriso invita suor Luciana, sua cara amica, a visite più frequenti dicendo: "Jamais trop loine la maison d’une amie" (mai troppo lontana la casa di un’amica), uno dei tanti proverbi di questa gente d’Africa, che ha una saggezza antica, impermeabile alle nostre critiche e giudizi affrettati.
Suor Marie Jeanne ha lavorato per anni come infermiera in Togo; ma quando la sua congregazione ha lasciato il paese, ha scelto di restare, per condividere la scelta di padre Roberto.
Non ha certo l’aspetto macilento e sofferente dell’eremita questo comboniano: il fisico robusto, non dimostra i suoi 70 anni; lo sguardo è vivo e sorridente. Mi riceve tra i libri e le carte del suo rifugio: una povera capanna di paglia, meta da anni di tanti visitatori. Lo lascio parlare, dopo 40 anni di vita africana, di cose da dire ne ha molte. Quando suor Luciana mi chiama, mi rendo conto che sono già passate due ore.
Cosa mi ha detto? Forse quello che volevo sentirgli dire. Il rispetto per il paese e la sua gente; la forza della terra e di antiche credenze; Dio creatore e le forze che interagiscono con gli uomini; il vudù come mezzo per avvicinare il divino; la lotta tra il bene e il male; l’intervento dell’uomo bianco con i suoi pregiudizi; gli errori degli aiuti, che si inviano a fin di bene. Come si può adottare a distanza un bambino, che avrà scuola e libri, vestiti e sussidi? E gli altri del villaggio o della sua stessa famiglia? Bisogna ripensare i nostri interventi in Africa e mi sembra che lo si stia già facendo.
Padre Roberto arrivò in Africa 40 anni fa. Durante la Seconda guerra mondiale, da Milano la sua famiglia era sfollata nella campagna di Como, dove Roberto conobbe un padre comboniano e incominciò a sognare l’Africa. Dopo la consacrazione fu inviato missionario in Togo, allora paese modello che, dopo la fine del protettorato tedesco si era ridotto di dimensioni, mantenendo però una solida struttura.
"Anche oggi, gli aiuti che arrivano dalla Germania sono i più intelligenti, mirati allo sviluppo e alla crescita del paese" spiega padre Roberto, che ha occhi che brillano e un sorriso giovane, aperto, con l’unico incisivo rimastogli in bocca. Scalzo, ha un piede bendato alla belle meglio, il segno violaceo di una contusione sotto il ginocchio.
"Noi non possiamo capire l’africano, che non si aprirà mai a un occidentale" mi ripete padre Roberto. Rimane l’enigma e mi torna in mente una frase emblematica, letta su un recente numero di National Geographic: "Qualsiasi cosa tu abbia pensato dell’Africa, pensaci ancora".

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Testimoni del risorto, speranza del mondo

Il convegno ecclesiale di Verona (16-20 ottobre 2006) sul tema «Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo» interpella gli istituti missionari in quanto ne tocca la propria identità di annunciatori di Cristo «nostra speranza». Nata nell’ambito della rivista «Ad Gentes», la seguente riflessione vuole essere uno stimolo offerto da missionari che lavorano per mantenere viva, all’interno della chiesa italiana, una sincera ed effettiva apertura alla missione universale.

Gli istituti missionari che hanno sedi in Italia, pur dipendendo giuridicamente dalla Santa Sede e rimanendo legati a tante chiese locali sparse nel mondo, riaffermano la loro appartenenza alla chiesa italiana nella quale molti di essi hanno avuto origine. Si sentono espressione di questa chiesa fra i popoli per l’annuncio del vangelo. Si rallegrano per il riconoscimento del loro carisma specifico di consacrazione a vita per la missio ad gentes e sono lieti di collaborare in questa missione con tante altre forze della chiesa italiana, che servono l’ad gentes con modalità e carismi loro propri (Cf. Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, n. 10).
Si rallegrano anche per tutto quello che la chiesa che è in Italia fa per la missio ad gentes e si impegnano a collaborare sempre meglio all’animazione missionaria della chiesa italiana, portando il contributo della loro lunga esperienza, della testimonianza di tanti confratelli e consorelle sparsi fra i popoli, della più diretta conoscenza delle giovani chiese con le loro ricchezze di fede e le loro necessità materiali e spirituali.
Prendono giorniosamente atto che è incominciata in Italia, fin dal Convegno di Palermo (1996), la cosiddetta conversione pastorale alla missione, diretta più immediatamente alla «nuova evangelizzazione» nel territorio, ma che non trascura la missio ad gentes e anzi trova in essa – come dicono gli stessi vescovi italiani (Cf. Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, n. 32) – il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. La missione è unica e universale e, pur avendo in diversi contesti modalità e urgenze diverse, si avvantaggia dell’unica passione per la testimonianza della fede e per l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini.

Bisogno di conversione e di riforma

Nel prendere parte al «convenire» della chiesa italiana, gli istituti missionari sono consapevoli che devono essi stessi «partire» con una profonda revisione della loro vita personale e istituzionale. A livello personale si parlerà di «conversione» e a livello istituzionale di «riforma». Già dal 1999 si incontrano nei cosiddetti «Forum di Ariccia» per mettere a punto, unitariamente, lo spirito, il senso e le modalità della loro presenza nella chiesa italiana. Nel primo Forum (3-6 febbraio 1999) proposero a se stessi uno stile di presenza qualificato, che rispecchiasse anche in Italia quanto da essi vissuto nei territori lontani:
– missione nella debolezza: sì alla parola di Dio, allo Spirito, alle frontiere, alle periferie, alla precarietà; no a sicurezze, potere, prestigio, strutture pesanti, ecc.;
– missione nella povertà: riesame di opere e strutture; ridistribuzione delle comunità sul territorio nazionale; vicinanza, attenzione e preferenza per i poveri;
– missione nel martirio: serietà, radicalità, carità, dono della vita, continuità di donazione.
Nel secondo Forum (4-8 febbraio 2002) l’attenzione si appuntò sulla capacità di collaborazione degli istituti missionari fra loro e con gli altri soggetti della missione, nonché sulla loro «integrazione» nella chiesa locale in Italia. Si ribadì la fedeltà al carisma specifico («non negoziabile», si disse) dell’ad gentes, ad extra e ad vitam, ma sottolineando nello stesso tempo che i missionari non sono in Italia «di passaggio» o solo per compiti interni agli istituti, ma per una testimonianza e un’azione specificamente loro di «animazione missionaria delle chiese locali». Si disse fra l’altro: «Forse non lo sappiamo, ma abbiamo sulle spalle una grossa responsabilità. Siamo considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la chiesa locale. Con tanta disinvoltura lo abbiamo fatto e lo facciamo in terre geograficamente considerate di missione. Con altrettanta timidezza, paura e ritrosia ci ritroviamo a farlo con la nostra gente». Essere profetici non significa fare i supplenti.
Oggi in Italia si stanno creando situazioni di missione… La nostra tentazione – e la tentazione della stessa chiesa locale – è di affidare agli «addetti del mestiere» quelle zone e situazioni. Da parte nostra è doveroso privilegiare tali servizi, ma è compito della chiesa locale far fronte a queste realtà, trovare risposte concrete: può certamente attingere dal «libro della missione» (e in questo dobbiamo certamente aiutarla), ma non può delegare ad altri i compiti che spettano ad essa.
Il terzo Forum (31 gennaio-4 febbraio 2005) ha voluto essere anzitutto un momento di «ascolto»: della chiesa locale italiana, della cultura che circola nella società che ci circonda, dei «movimenti» che prendono piede in ordine a un mondo nuovo e diverso. L’ascolto è necessaria premessa alla profezia. Il primo ascolto, infatti, rimane sempre quello del vangelo, che però dobbiamo far risuonare nell’oggi che Dio ci propone in Italia all’inizio di questo terzo millennio.
«Ci siamo sentiti piccoli di fronte a sfide che paiono a prima vista insormontabili, ma questo non ci ha tolto il coraggio di riaffermare la nostra missione di essere lievito, luce e sale, attraverso l’ascolto e la testimonianza profetica: due atteggiamenti nuovi per una società malata di solitudine esistenziale».

Convenire ascoltando

La prima «lezione» che i missionari ricevono dalle giovani chiese è che ogni programmazione ecclesiale, per essere veramente missionaria, deve partire dall’ascolto. Un convegno ecclesiale ha bisogno di un lungo tempo di ascolto per disceere l’oggi di Dio nella storia e udire quello che lo Spirito dice alla chiesa che è in Italia. Per essere un vero convenire della chiesa è necessario che tutte le sue componenti abbiano voce e che le loro attese, le loro esigenze, i loro propositi e le loro speranze costituiscano la trama su cui il convegno si costruisce. Anzi, la chiesa non deve ascoltare solo le proprie componenti, ma nella misura del possibile tutte le componenti della società, anche i cristiani non cattolici, i credenti di altre religioni, i non credenti. Ci pare che nell’Italia di oggi l’urgenza dell’ascolto sia soprattutto rivolta verso coloro – e sono grande maggioranza – che si dicono cristiani ma conservano con la chiesa solo rari momenti di contatto e non pongono più il vangelo a fondamento delle loro scelte.
Possono essere preziosi gli apporti degli esperti delle varie discipline teologiche e delle scienze umane, ma non devono chiudere la strada ai giudizi e ai sentimenti della «base». Lo Spirito si manifesta anzitutto nella voce dei piccoli e dei semplici. Non è cosa nuova, ma è certamente pertinente dire che il metodo del convegno – della sua preparazione, del suo svolgimento, della sua ricezione – ne definisce già gli orientamenti, ne condiziona i contenuti, ne pregiudica in senso positivo o negativo l’efficacia pastorale.
Seguendo l’itinerario di preparazione del convegno, ci poniamo alcune domande: è stato ascoltato a sufficienza il popolo di Dio? È stata ascoltata «la gente», anche quella che si ferma alle porte della chiesa? Sono stati interpellati «gli altri»? Non è necessaria l’unanimità che scende dall’alto, quanto la sinfonia di voci che la Parola illumina e raccoglie efficacemente in unità.

Il tema «speranza»

Si può ben capire come il tema del convegno di Verona sia «congeniale» ai nostri istituti. «Gesù risorto, speranza del mondo» è quanto siamo mandati ad annunciare. Ne siamo «testimoni» anzitutto fra le genti. Riverberiamo quindi sulle nostre chiese di origine – quelle da cui siamo inviati – la forza che i convertiti al vangelo trovano in Gesù Signore per superare difficoltà di vario genere, legate spesso alle situazioni di miseria, di oppressione, di sfruttamento, di emarginazione, di esilio, di persecuzione in cui si trovano i loro gruppi umani e/o le loro chiese.
È ammirevole la fiducia in Dio che i cristiani delle giovani chiese mantengono anche nelle circostanze più dolorose. Una grande fiducia, anche se non illuminata dalla fede nel Risorto, si incontra spesso anche in tanti fedeli di altre religioni e, in genere, nel mondo dei poveri.
In queste situazioni la speranza non può essere annunciata solo nell’orizzonte escatologico. Il Regno futuro è dono che i cristiani attendono con gioia e riconoscenza. Ma c’è una loro precisa responsabilità nel riconoscere il germe del Regno già in questo mondo e nel partecipare al suo dinamismo lottando per la giustizia, per il rispetto dei diritti dell’uomo, per la dignità di ogni persona, per la difesa di ogni forma di vita e per la salvaguardia del creato, in unità di intenti con quanti tendono verso gli stessi obiettivi, insiti nella stessa natura umana e sostenuti anche dal messaggio di molte religioni.
Ci pare che questo «impegno per il Regno che viene» non sia al centro della predicazione della chiesa italiana, così come lo era nella predicazione di Gesù. Se è ammirevole in Italia l’attività del volontariato, specialmente per il concorso dei cristiani, se è diffuso e concreto l’operare della Caritas, ci pare però che si collochino più sul versante dell’assistenza che non su quello di una solidarietà anche politica con i poveri, i disoccupati, gli immigrati, le famiglie numerose, gli sfruttati. Constatando il crescere dei settori deboli della popolazione, ci si aspetterebbe una più convinta mobilitazione della gerarchia cattolica al loro fianco.
Se ci sono dei magnifici esempi di «suscitatori di speranza» – talvolta anche martiri della speranza, come don Pino Puglisi, don Tonino Bello, Annalena Tonelli, e tanti altri – essi sembrano piuttosto marginali rispetto alla chiesa «ufficiale» e sono tardivamente riconosciuti come suoi rappresentanti. Perché la gerarchia ecclesiastica è così reticente rispetto a figure come don Oreste Benzi, Eesto Olivero, don Luigi Ciotti, Francuccio Gesualdi e tanti altri suoi figli fedeli, che raccolgono gli aneliti della popolazione italiana?

L’orizzonte globale

Proprio perché presenti con i loro membri in tante parti del mondo, a contatto con tanti popoli, tante culture, tante religioni, tante travagliate storie, gli istituti missionari sentono l’urgenza che ogni chiesa locale si collochi in quell’orizzonte globale che è il segno più proprio di questo nuovo secolo. Ogni chiesa locale, pur radicata nel territorio e impegnata a testimoniare la fede e annunciare il vangelo al popolo nel quale è inserita, deve avere il mondo negli occhi e nel cuore, perché è mandata «a tutte le genti». In Italia si ha l’impressione di una cultura, di una politica e di un’informazione assai «provinciali».
Vengono ingigantiti i fatti locali e non si presta sufficiente attenzione a eventi globali, quali l’immensa moltitudine e la quotidiana sofferenza dei poveri, la fame, le guerre, le schiavitù, il progressivo degrado del pianeta, gli ingiusti rapporti Nord-Sud, lo sfruttamento dei lavoratori, il livellamento e l’omologazione progressiva delle culture, ecc. Solo quando questi eventi vengono a toccare le abitudini e il benessere del proprio gruppo – come nel caso dell’immigrazione o delle risorse energetiche (petrolio, gas, ecc.) – si prende coscienza di ciò che avviene, ma restando sempre confinati nel proprio «particolare». Sembra che a volte anche la chiesa italiana resti chiusa dentro queste mura. La connotazione di «cattolica» è più un riferimento alla tradizione che non un’assunzione del mandato che il Risorto le ha dato per tutte le genti. Gli istituti missionari sentono la loro responsabilità in questo campo, ma per quanto si sforzino, con la stampa e altri media (Fesmi, Emi, Misna), di aprire gli orizzonti, i loro sforzi non risultano abbastanza efficaci; soprattutto non trovano ascolto proprio in quel mondo «cattolico» (delle parrocchie, delle associazioni) che più dovrebbe essere pervaso dall’ansia dell’universalità.
Occorrerà sviluppare le collaborazioni e trovare le sinergie per sviluppare, sia nella società che nella chiesa, quello spirito di mondialità che da più di 50 anni gli istituti missionari coltivano in Italia e che rappresenta l’antidoto ideale alla globalizzazione di marca neoliberista.

«Il grido dei poveri»

La prima conseguenza di una visione globale a partire dal locale è la presa di coscienza della crescente povertà nel mondo, con 3 miliardi di poveri su 6 miliardi di abitanti del pianeta e con un miliardo e 200 milioni di «poveri assoluti» o schiavi della sopravvivenza (ultimi dati Onu). La vicinanza ai poveri è una necessità per la chiesa, perché solo a partire da essi si ha la percezione autentica del vangelo: «Ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt 11, 5). Una chiesa che non ha coscienza della povertà nel mondo e che non sta concretamente dalla parte dei poveri, non è più la chiesa delle beatitudini, la chiesa che segue le orme di Gesù Cristo, così come recita il noto n. 8 della Lumen gentium: «… come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Cristo Gesù“ pur essendo di natura divina… spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 6-7) e per noi“ da ricco che era si è fatto povero” (2 Cor 8, 9): così la chiesa, quantunque abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempio l’umiltà e l’abnegazione».
Il rischio per la chiesa italiana è duplice: che lasci i poveri del suo territorio «fuori dalla porta», perché composta in prevalenza da una classe media volenterosa, ma più che mai pervasa di consumismo e preoccupata del suo fragile benessere; e che dimentichi del tutto – salvo periodiche collette – i tre miliardi di poveri nel mondo. Al grido di tanti bisognosi sul territorio nazionale e nel Sud del mondo si risponde con gesti di una generosità che acquieta le coscienze, ma con poca attenzione al dovere di giustizia. Pare che negli ultimi documenti dell’episcopato italiano la parola «giustizia» risuoni con minore forza. Missione e nuova evangelizzazione passano, anche per la chiesa italiana, attraverso la scelta preferenziale dei poveri, chiamati nelle scelte pastorali a essere soggetti attivi nella società e, se cristiani, nella chiesa.

Missionari di ritorno

La maggior parte dei membri degli istituti missionari che si trovano attualmente in Italia è reduce dalle missioni. Il loro rientro è spesso traumatico. Partiti per «portare la fede della loro terra» ad altre terre, trovano che nel paese «cristiano» da cui sono partiti c’è meno fede, meno speranza e meno amore che nei paesi da cui rientrano. Si trovano immersi in una cultura del consumismo che troppo contrasta con le visioni di miseria e di sofferenza che hanno negli occhi. Meno profonda è l’intensità delle relazioni umane, diversi i ritmi del tempo, poco praticata l’ospitalità; superficiali, rapide e prevalentemente emotive le reazioni ai fatti anche più gravi… Diventa allora difficile per loro riprendere i contatti con «questa» realtà.
Pensano di farsi voce delle giovani chiese nella loro «antica chiesa», ma qui incontrano forse la più forte delusione. Perché di quelle esperienze di grazia sentono che si fa poco conto. Parlano di celebrazioni lunghe e festose, di piccole comunità cristiane o comunità di base, di una ricca manifestazione di carismi, di tanti ministeri esercitati con fervore e responsabilità, di impegno a fianco dei poveri, di lotte per la giustizia e i diritti umani, di fatica e bellezza dell’inculturazione, di severi catecumenati, di sofferenze e martìri di cristiani coerenti… e non trovano eco, come se quella non fosse vita, chiesa e patrimonio di tutta la famiglia dei credenti. «Qui è tutto diverso – si sentono dire -. Tutto questo non serve».

Nuovo modello di chiesa

I «missionari di ritorno» raccontano un nuovo modello di chiesa, che certo non può essere trasportato di peso nel nostro mondo – dove una chiesa dalle antiche radici ha il suo ricco patrimonio di tradizione, di teologia, di pratica pastorale – e tuttavia può offrire molti stimoli al rinnovamento in senso missionario della pastorale. Proviamo a enumerae alcuni.
1. La centralità del primo annuncio. Nelle giovani chiese si ha coscienza che Cristo, crocifisso e risorto, deve essere proclamato «agli altri» come principio di speranza. Si vive la gioia di quanti lo incontrano per la prima volta e trovano in lui la conoscenza del padre e la possibilità di una vita nuova.
2. La ricchezza dei carismi e dei ministeri, che rende sacerdoti, religiosi e laici corresponsabili della vita e della missione della chiesa. Si pensi ai catechisti, agli animatori delle piccole comunità cristiane, alle guide della preghiera. Le chiese dell’Estremo Oriente asiatico enumerano, per esempio, nei loro documenti ben 70 ministeri riconosciuti!
3. La bellezza e vitalità delle «Comunità ecclesiali di base» (America Latina) o «Piccole comunità cristiane» (Africa e Asia), dove il vangelo si coniuga con la vita e si fa esperienza di chiesa come frateità, condivisione, collaborazione, corresponsabilità… Sempre fragili, piccole e disperse, queste comunità rendono più solida la fede di quanti ne fanno parte e proclamano concretamente la risurrezione del Signore.
4. Il distacco dal potere e dalle sicurezze mondane. Non ci sono privilegi da difendere, non c’è ricchezza da mantenere, non c’è (e per fortuna spesso non è possibile!) nessun compromesso antievangelico con i potenti. Chiese deboli e povere, qualche volta anche perseguitate, ripongono la loro unica fiducia nella forza della Parola e dello Spirito. La chiesa istituzione evita intrusioni nel dibattito politico e lascia le scelte concrete al libero confronto delle opinioni e delle valutazioni dei cittadini, conservando così la sua libertà profetica, che diventa quando è necessario – e spesso è purtroppo necessario – ferma denuncia della corruzione, degli sfruttamenti, delle ingiustizie commesse dai pochi potenti contro i tanti deboli. Proprio per questo acquista autorevolezza fra la gente e viene allora chiamata, ma in «seconda istanza», a opera di pacificazione e/o di mediazione politica.
5. La «prossimità» con i poveri e i sofferenti, che sono spesso, come avveniva nella prima chiesa, la maggioranza dei credenti. La chiesa sta di più «tra la gente» e ne condivide spesso la povertà, i disagi, le debolezze.
6. Lo sforzo dell’inculturazione, che obbliga a ripensare l’immutabile messaggio per incarnarlo nella vita e nella cultura propria di un popolo o di un gruppo umano. Cultura che spesso va purificata, ma che pure rappresenta una ricchezza per la fede.
7. La lunga pratica del catecumenato, che prepara gli adulti ad assumere consapevolmente il battesimo e la vita nuova che da esso scaturisce.
8. Il dialogo ecumenico e quello con le altre religioni, che diventa spesso una necessità, in quanto si vive e si opera nello stesso ambito territoriale, ma che proprio per questo è anche uno stimolo a definire la propria identità sulla base originaria della Parola di Dio e non di tradizioni umane.
Affrontando oggi la chiesa di Dio che è in Italia, il passaggio dalla pastorale di conservazione alla pastorale di missione dovrebbe confrontarsi con queste dinamiche delle giovani chiese. Non significa che esse siano modelli da imitare, né che non abbiano in sé debolezze e umane miserie (di cui sono anche loro ricchissime: «Ecclesia semper reformanda»). Significa solo che in esse si sperimenta meglio la freschezza del vangelo, novità di vita e orizzonte di speranza per tutti.

Conclusione

Gli istituti missionari presenti in Italia e parte della chiesa italiana vivono con questa tutte le difficoltà del momento presente:
a) le difficoltà del popolo italiano in un’ora di grande «crisi» (sociale, politica, istituzionale), che è passaggio (pasquale) ad un nuovo modo di vivere la sua appartenenza all’Europa e al mondo, ad una società non più monolitica, ma multietnica, multiculturale, multireligiosa, nel quadro di una globalizzazione che resta inquinata da presupposti ideologici di individualismo, agnosticismo, relativismo e liberismo;
b) le difficoltà della chiesa, che deve conservare la ricchezza della tradizione religiosa del popolo italiano in un quadro completamente mutato. «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia» è per questa chiesa un compito inedito. La missione in Italia (ed anche in Europa e in tutto il mondo post-cristiano) è tutta da inventare.
«Esperti di missione fra i popoli non cristiani», i missionari non sono né modelli, né maestri. Possono solo mettere a disposizione la radicalità del loro impegno per il vangelo e quello che apprendono sulle strade del mondo. Lo fanno come umili figli di quella chiesa di Dio che è chiamata a essere testimone del Cristo Risorto in Italia, in Europa e fino ai confini della terra.

Cimi, Suam, Ad Gentes




Al di là dei muri

C’ era una volta un muro, anzi «il muro». Sagomato nel cuore dell’Europa, parte integrante del panorama internazionale della guerra fredda, era il «muro della vergogna» il muro della «cortina di ferro», il muro di Berlino. Sotto certi versi era rassicurante: di qua c’erano i buoni e di là i cattivi, da una parte libero mercato e libertà, dall’altra dittatura e socialismo di stato… Poi nel novembre del 1989 quel muro è caduto e ci siamo sentiti tutti più sollevati, finalmente non c’erano più muri che dividevano il mondo.
Passata la sbornia di discorsi inneggianti alla tale caduta, eccoci a fare i conti con altri muri, che spuntano in varie parti del mondo, senza che nessuno dica niente. È vero che ogni tanto salta fuori qualche articolo o vignetta, che mette alla berlina il muro che in Terra Santa divide gli israeliani dai palestinesi; un’autentica vergogna, che però resta isolata nei commenti della stampa di casa nostra. Nessuno si sogna di mettere in evidenza come gli Stati Uniti, sempre pronti a esportare il loro sistema di vita, stanno erigendo un muro che separerà di netto l’America Wasp (White Anglo Saxon Protestant) dalla meticcia America Latina e dall’invadenza creola. Eppure si tratta di un’opera che arriverà a coprire quasi l’intero confine terrestre con il Messico; sarà lungo circa 3.300 km; verrà dotata di sofisticati sistemi elettronici, cellule fotoelettriche, cavalli di frisia e opportuni fossati in luoghi strategici, per scoraggiare l’immigrazione latinoamericana.
Nel silenzio generale, l’India sta erigendo due muri: uno separerà la sua frontiera sul fronte caldo del Kashmir, conteso allo storico rivale Pakistan; l’altro demarcherà il confine con il Bangladesh. Il Marocco da anni sta erigendo una barriera che perpetuerà l’occupazione del Sahara Occidentale, alla faccia delle prese di posizione dell’Onu sulla legittima sovranità del popolo saharawi. Sempre in Africa, con i soldi della Comunità europea, la Spagna sta fortificando le enclaves di Ceuta e Melilla con muri, reticolati di filo spinato e quant’altro, dato che a Bruxelles esse sono viste come la porta di servizio in cui i disperati del continente nero s’infiltrano nella vecchia Europa. E per restare nel contesto europeo, l’ultimo stato annesso all’UE, l’isola di Cipro, si è portato in dote un muro che la taglia in due, separando la comunità greca da quella turca, alla faccia dell’integrazione dei popoli. E che dire del muro di Belfast, nell’Irlanda del Nord, che separa i quartieri cattolici da quelli protestanti? Anch’esso ormai fa parte del paesaggio della verde Irlanda e più nessuno ci fa caso. Inoltre, vale la pena di ricordare che, a casa nostra, solo qualche anno fa fu abbattuto il muro che separava Gorizia da Nova Gorica.
Se poi consideriamo quello che, più di un muro, è una vera e propria barriera, eredità avvelenata della guerra fredda che taglia in due la Corea del Nord dalla Corea del Sud, ci rendiamo conto che anche di questa divisione si parla poco e, purtroppo, tale forma di separazione tra realtà omogenee fa scuola all’interno di generali prospettive politiche, tendenti sempre più a escludere che accogliere. Così l’Arabia Saudita, ritenuto paese arabo moderato, sta erigendo un muro nel deserto, che marchi la distanza e la differenza dal confinante Yemen, visto come uno stato dove prosperano bande di predoni beduini da cui difendersi. In Sudafrica, abbattuto il regime dell’apartheid, sono tutt’ora presenti nell’urbanistica di Soweto i muri e barriere di filo spinato che delimitavano l’area riservata alla gente di colore. In altre parti del mondo, altri muri sorgono in maniera surrettizia, come quelli nella ex-Jugoslavia tra Serbia, Croazia, Kossovo, Albania.

U no sguardo al passato aiuta a capire come l’ansia di erigere muri non sia tipica dei tempi nostri. I romani tagliarono in due la Britannia con il Vallo di Adriano; l’impero cinese eresse la Grande Muraglia; i francesi la linea Maginot; mura e fortezze medioevali ci rammentano, insieme ai ghetti, come l’erigere muri non sia servito molto a difendersi dai barbari, come pure il rinchiudere gli ebrei in quartieri distinti da quelli cristiani non ha aiutato a trovare punti d’incontro per favorire l’integrazione reciproca.
Oggi accanto a questi muri, ce ne sono altri più subdoli e pericolosi. La scarsa conoscenza degli altri porta a erigere muri interiori di fronte alla presenza di uomini e donne che arrivano da altri paesi e che stanno delineando una società sempre più multiculturale. Cadute le ideologie, ci si è affrettati a creare l’ideologia dello scontro di civiltà tra Occidente e islam, alimentando ansie e paure nell’opinione pubblica, che sono l’autentico brodo di coltura per i germi del più bieco razzismo nostrano. A fronte di queste considerazioni cresce e si fa strada più forte che mai nelle persone di buona volontà il desiderio di un più forte impegno, affinché non sorgano altri muri e si abbattano quelli esistenti; è utopia tutto questo? Noi crediamo di no e, come al suono delle trombe bibliche caddero le mura di Gerico, a maggior ragione crediamo che alla fine anche queste crolleranno.

Mario Bandera