Il convegno ecclesiale di Verona (16-20 ottobre 2006) sul tema «Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo» interpella gli istituti missionari in quanto ne tocca la propria identità di annunciatori di Cristo «nostra speranza». Nata nell’ambito della rivista «Ad Gentes», la seguente riflessione vuole essere uno stimolo offerto da missionari che lavorano per mantenere viva, all’interno della chiesa italiana, una sincera ed effettiva apertura alla missione universale.
Gli istituti missionari che hanno sedi in Italia, pur dipendendo giuridicamente dalla Santa Sede e rimanendo legati a tante chiese locali sparse nel mondo, riaffermano la loro appartenenza alla chiesa italiana nella quale molti di essi hanno avuto origine. Si sentono espressione di questa chiesa fra i popoli per l’annuncio del vangelo. Si rallegrano per il riconoscimento del loro carisma specifico di consacrazione a vita per la missio ad gentes e sono lieti di collaborare in questa missione con tante altre forze della chiesa italiana, che servono l’ad gentes con modalità e carismi loro propri (Cf. Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, n. 10).
Si rallegrano anche per tutto quello che la chiesa che è in Italia fa per la missio ad gentes e si impegnano a collaborare sempre meglio all’animazione missionaria della chiesa italiana, portando il contributo della loro lunga esperienza, della testimonianza di tanti confratelli e consorelle sparsi fra i popoli, della più diretta conoscenza delle giovani chiese con le loro ricchezze di fede e le loro necessità materiali e spirituali.
Prendono giorniosamente atto che è incominciata in Italia, fin dal Convegno di Palermo (1996), la cosiddetta conversione pastorale alla missione, diretta più immediatamente alla «nuova evangelizzazione» nel territorio, ma che non trascura la missio ad gentes e anzi trova in essa – come dicono gli stessi vescovi italiani (Cf. Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, n. 32) – il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. La missione è unica e universale e, pur avendo in diversi contesti modalità e urgenze diverse, si avvantaggia dell’unica passione per la testimonianza della fede e per l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini.
Bisogno di conversione e di riforma
Nel prendere parte al «convenire» della chiesa italiana, gli istituti missionari sono consapevoli che devono essi stessi «partire» con una profonda revisione della loro vita personale e istituzionale. A livello personale si parlerà di «conversione» e a livello istituzionale di «riforma». Già dal 1999 si incontrano nei cosiddetti «Forum di Ariccia» per mettere a punto, unitariamente, lo spirito, il senso e le modalità della loro presenza nella chiesa italiana. Nel primo Forum (3-6 febbraio 1999) proposero a se stessi uno stile di presenza qualificato, che rispecchiasse anche in Italia quanto da essi vissuto nei territori lontani:
– missione nella debolezza: sì alla parola di Dio, allo Spirito, alle frontiere, alle periferie, alla precarietà; no a sicurezze, potere, prestigio, strutture pesanti, ecc.;
– missione nella povertà: riesame di opere e strutture; ridistribuzione delle comunità sul territorio nazionale; vicinanza, attenzione e preferenza per i poveri;
– missione nel martirio: serietà, radicalità, carità, dono della vita, continuità di donazione.
Nel secondo Forum (4-8 febbraio 2002) l’attenzione si appuntò sulla capacità di collaborazione degli istituti missionari fra loro e con gli altri soggetti della missione, nonché sulla loro «integrazione» nella chiesa locale in Italia. Si ribadì la fedeltà al carisma specifico («non negoziabile», si disse) dell’ad gentes, ad extra e ad vitam, ma sottolineando nello stesso tempo che i missionari non sono in Italia «di passaggio» o solo per compiti interni agli istituti, ma per una testimonianza e un’azione specificamente loro di «animazione missionaria delle chiese locali». Si disse fra l’altro: «Forse non lo sappiamo, ma abbiamo sulle spalle una grossa responsabilità. Siamo considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la chiesa locale. Con tanta disinvoltura lo abbiamo fatto e lo facciamo in terre geograficamente considerate di missione. Con altrettanta timidezza, paura e ritrosia ci ritroviamo a farlo con la nostra gente». Essere profetici non significa fare i supplenti.
Oggi in Italia si stanno creando situazioni di missione… La nostra tentazione – e la tentazione della stessa chiesa locale – è di affidare agli «addetti del mestiere» quelle zone e situazioni. Da parte nostra è doveroso privilegiare tali servizi, ma è compito della chiesa locale far fronte a queste realtà, trovare risposte concrete: può certamente attingere dal «libro della missione» (e in questo dobbiamo certamente aiutarla), ma non può delegare ad altri i compiti che spettano ad essa.
Il terzo Forum (31 gennaio-4 febbraio 2005) ha voluto essere anzitutto un momento di «ascolto»: della chiesa locale italiana, della cultura che circola nella società che ci circonda, dei «movimenti» che prendono piede in ordine a un mondo nuovo e diverso. L’ascolto è necessaria premessa alla profezia. Il primo ascolto, infatti, rimane sempre quello del vangelo, che però dobbiamo far risuonare nell’oggi che Dio ci propone in Italia all’inizio di questo terzo millennio.
«Ci siamo sentiti piccoli di fronte a sfide che paiono a prima vista insormontabili, ma questo non ci ha tolto il coraggio di riaffermare la nostra missione di essere lievito, luce e sale, attraverso l’ascolto e la testimonianza profetica: due atteggiamenti nuovi per una società malata di solitudine esistenziale».
Convenire ascoltando
La prima «lezione» che i missionari ricevono dalle giovani chiese è che ogni programmazione ecclesiale, per essere veramente missionaria, deve partire dall’ascolto. Un convegno ecclesiale ha bisogno di un lungo tempo di ascolto per disceere l’oggi di Dio nella storia e udire quello che lo Spirito dice alla chiesa che è in Italia. Per essere un vero convenire della chiesa è necessario che tutte le sue componenti abbiano voce e che le loro attese, le loro esigenze, i loro propositi e le loro speranze costituiscano la trama su cui il convegno si costruisce. Anzi, la chiesa non deve ascoltare solo le proprie componenti, ma nella misura del possibile tutte le componenti della società, anche i cristiani non cattolici, i credenti di altre religioni, i non credenti. Ci pare che nell’Italia di oggi l’urgenza dell’ascolto sia soprattutto rivolta verso coloro – e sono grande maggioranza – che si dicono cristiani ma conservano con la chiesa solo rari momenti di contatto e non pongono più il vangelo a fondamento delle loro scelte.
Possono essere preziosi gli apporti degli esperti delle varie discipline teologiche e delle scienze umane, ma non devono chiudere la strada ai giudizi e ai sentimenti della «base». Lo Spirito si manifesta anzitutto nella voce dei piccoli e dei semplici. Non è cosa nuova, ma è certamente pertinente dire che il metodo del convegno – della sua preparazione, del suo svolgimento, della sua ricezione – ne definisce già gli orientamenti, ne condiziona i contenuti, ne pregiudica in senso positivo o negativo l’efficacia pastorale.
Seguendo l’itinerario di preparazione del convegno, ci poniamo alcune domande: è stato ascoltato a sufficienza il popolo di Dio? È stata ascoltata «la gente», anche quella che si ferma alle porte della chiesa? Sono stati interpellati «gli altri»? Non è necessaria l’unanimità che scende dall’alto, quanto la sinfonia di voci che la Parola illumina e raccoglie efficacemente in unità.
Il tema «speranza»
Si può ben capire come il tema del convegno di Verona sia «congeniale» ai nostri istituti. «Gesù risorto, speranza del mondo» è quanto siamo mandati ad annunciare. Ne siamo «testimoni» anzitutto fra le genti. Riverberiamo quindi sulle nostre chiese di origine – quelle da cui siamo inviati – la forza che i convertiti al vangelo trovano in Gesù Signore per superare difficoltà di vario genere, legate spesso alle situazioni di miseria, di oppressione, di sfruttamento, di emarginazione, di esilio, di persecuzione in cui si trovano i loro gruppi umani e/o le loro chiese.
È ammirevole la fiducia in Dio che i cristiani delle giovani chiese mantengono anche nelle circostanze più dolorose. Una grande fiducia, anche se non illuminata dalla fede nel Risorto, si incontra spesso anche in tanti fedeli di altre religioni e, in genere, nel mondo dei poveri.
In queste situazioni la speranza non può essere annunciata solo nell’orizzonte escatologico. Il Regno futuro è dono che i cristiani attendono con gioia e riconoscenza. Ma c’è una loro precisa responsabilità nel riconoscere il germe del Regno già in questo mondo e nel partecipare al suo dinamismo lottando per la giustizia, per il rispetto dei diritti dell’uomo, per la dignità di ogni persona, per la difesa di ogni forma di vita e per la salvaguardia del creato, in unità di intenti con quanti tendono verso gli stessi obiettivi, insiti nella stessa natura umana e sostenuti anche dal messaggio di molte religioni.
Ci pare che questo «impegno per il Regno che viene» non sia al centro della predicazione della chiesa italiana, così come lo era nella predicazione di Gesù. Se è ammirevole in Italia l’attività del volontariato, specialmente per il concorso dei cristiani, se è diffuso e concreto l’operare della Caritas, ci pare però che si collochino più sul versante dell’assistenza che non su quello di una solidarietà anche politica con i poveri, i disoccupati, gli immigrati, le famiglie numerose, gli sfruttati. Constatando il crescere dei settori deboli della popolazione, ci si aspetterebbe una più convinta mobilitazione della gerarchia cattolica al loro fianco.
Se ci sono dei magnifici esempi di «suscitatori di speranza» – talvolta anche martiri della speranza, come don Pino Puglisi, don Tonino Bello, Annalena Tonelli, e tanti altri – essi sembrano piuttosto marginali rispetto alla chiesa «ufficiale» e sono tardivamente riconosciuti come suoi rappresentanti. Perché la gerarchia ecclesiastica è così reticente rispetto a figure come don Oreste Benzi, Eesto Olivero, don Luigi Ciotti, Francuccio Gesualdi e tanti altri suoi figli fedeli, che raccolgono gli aneliti della popolazione italiana?
L’orizzonte globale
Proprio perché presenti con i loro membri in tante parti del mondo, a contatto con tanti popoli, tante culture, tante religioni, tante travagliate storie, gli istituti missionari sentono l’urgenza che ogni chiesa locale si collochi in quell’orizzonte globale che è il segno più proprio di questo nuovo secolo. Ogni chiesa locale, pur radicata nel territorio e impegnata a testimoniare la fede e annunciare il vangelo al popolo nel quale è inserita, deve avere il mondo negli occhi e nel cuore, perché è mandata «a tutte le genti». In Italia si ha l’impressione di una cultura, di una politica e di un’informazione assai «provinciali».
Vengono ingigantiti i fatti locali e non si presta sufficiente attenzione a eventi globali, quali l’immensa moltitudine e la quotidiana sofferenza dei poveri, la fame, le guerre, le schiavitù, il progressivo degrado del pianeta, gli ingiusti rapporti Nord-Sud, lo sfruttamento dei lavoratori, il livellamento e l’omologazione progressiva delle culture, ecc. Solo quando questi eventi vengono a toccare le abitudini e il benessere del proprio gruppo – come nel caso dell’immigrazione o delle risorse energetiche (petrolio, gas, ecc.) – si prende coscienza di ciò che avviene, ma restando sempre confinati nel proprio «particolare». Sembra che a volte anche la chiesa italiana resti chiusa dentro queste mura. La connotazione di «cattolica» è più un riferimento alla tradizione che non un’assunzione del mandato che il Risorto le ha dato per tutte le genti. Gli istituti missionari sentono la loro responsabilità in questo campo, ma per quanto si sforzino, con la stampa e altri media (Fesmi, Emi, Misna), di aprire gli orizzonti, i loro sforzi non risultano abbastanza efficaci; soprattutto non trovano ascolto proprio in quel mondo «cattolico» (delle parrocchie, delle associazioni) che più dovrebbe essere pervaso dall’ansia dell’universalità.
Occorrerà sviluppare le collaborazioni e trovare le sinergie per sviluppare, sia nella società che nella chiesa, quello spirito di mondialità che da più di 50 anni gli istituti missionari coltivano in Italia e che rappresenta l’antidoto ideale alla globalizzazione di marca neoliberista.
«Il grido dei poveri»
La prima conseguenza di una visione globale a partire dal locale è la presa di coscienza della crescente povertà nel mondo, con 3 miliardi di poveri su 6 miliardi di abitanti del pianeta e con un miliardo e 200 milioni di «poveri assoluti» o schiavi della sopravvivenza (ultimi dati Onu). La vicinanza ai poveri è una necessità per la chiesa, perché solo a partire da essi si ha la percezione autentica del vangelo: «Ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt 11, 5). Una chiesa che non ha coscienza della povertà nel mondo e che non sta concretamente dalla parte dei poveri, non è più la chiesa delle beatitudini, la chiesa che segue le orme di Gesù Cristo, così come recita il noto n. 8 della Lumen gentium: «… come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Cristo Gesù“ pur essendo di natura divina… spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 6-7) e per noi“ da ricco che era si è fatto povero” (2 Cor 8, 9): così la chiesa, quantunque abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempio l’umiltà e l’abnegazione».
Il rischio per la chiesa italiana è duplice: che lasci i poveri del suo territorio «fuori dalla porta», perché composta in prevalenza da una classe media volenterosa, ma più che mai pervasa di consumismo e preoccupata del suo fragile benessere; e che dimentichi del tutto – salvo periodiche collette – i tre miliardi di poveri nel mondo. Al grido di tanti bisognosi sul territorio nazionale e nel Sud del mondo si risponde con gesti di una generosità che acquieta le coscienze, ma con poca attenzione al dovere di giustizia. Pare che negli ultimi documenti dell’episcopato italiano la parola «giustizia» risuoni con minore forza. Missione e nuova evangelizzazione passano, anche per la chiesa italiana, attraverso la scelta preferenziale dei poveri, chiamati nelle scelte pastorali a essere soggetti attivi nella società e, se cristiani, nella chiesa.
Missionari di ritorno
La maggior parte dei membri degli istituti missionari che si trovano attualmente in Italia è reduce dalle missioni. Il loro rientro è spesso traumatico. Partiti per «portare la fede della loro terra» ad altre terre, trovano che nel paese «cristiano» da cui sono partiti c’è meno fede, meno speranza e meno amore che nei paesi da cui rientrano. Si trovano immersi in una cultura del consumismo che troppo contrasta con le visioni di miseria e di sofferenza che hanno negli occhi. Meno profonda è l’intensità delle relazioni umane, diversi i ritmi del tempo, poco praticata l’ospitalità; superficiali, rapide e prevalentemente emotive le reazioni ai fatti anche più gravi… Diventa allora difficile per loro riprendere i contatti con «questa» realtà.
Pensano di farsi voce delle giovani chiese nella loro «antica chiesa», ma qui incontrano forse la più forte delusione. Perché di quelle esperienze di grazia sentono che si fa poco conto. Parlano di celebrazioni lunghe e festose, di piccole comunità cristiane o comunità di base, di una ricca manifestazione di carismi, di tanti ministeri esercitati con fervore e responsabilità, di impegno a fianco dei poveri, di lotte per la giustizia e i diritti umani, di fatica e bellezza dell’inculturazione, di severi catecumenati, di sofferenze e martìri di cristiani coerenti… e non trovano eco, come se quella non fosse vita, chiesa e patrimonio di tutta la famiglia dei credenti. «Qui è tutto diverso – si sentono dire -. Tutto questo non serve».
Nuovo modello di chiesa
I «missionari di ritorno» raccontano un nuovo modello di chiesa, che certo non può essere trasportato di peso nel nostro mondo – dove una chiesa dalle antiche radici ha il suo ricco patrimonio di tradizione, di teologia, di pratica pastorale – e tuttavia può offrire molti stimoli al rinnovamento in senso missionario della pastorale. Proviamo a enumerae alcuni.
1. La centralità del primo annuncio. Nelle giovani chiese si ha coscienza che Cristo, crocifisso e risorto, deve essere proclamato «agli altri» come principio di speranza. Si vive la gioia di quanti lo incontrano per la prima volta e trovano in lui la conoscenza del padre e la possibilità di una vita nuova.
2. La ricchezza dei carismi e dei ministeri, che rende sacerdoti, religiosi e laici corresponsabili della vita e della missione della chiesa. Si pensi ai catechisti, agli animatori delle piccole comunità cristiane, alle guide della preghiera. Le chiese dell’Estremo Oriente asiatico enumerano, per esempio, nei loro documenti ben 70 ministeri riconosciuti!
3. La bellezza e vitalità delle «Comunità ecclesiali di base» (America Latina) o «Piccole comunità cristiane» (Africa e Asia), dove il vangelo si coniuga con la vita e si fa esperienza di chiesa come frateità, condivisione, collaborazione, corresponsabilità… Sempre fragili, piccole e disperse, queste comunità rendono più solida la fede di quanti ne fanno parte e proclamano concretamente la risurrezione del Signore.
4. Il distacco dal potere e dalle sicurezze mondane. Non ci sono privilegi da difendere, non c’è ricchezza da mantenere, non c’è (e per fortuna spesso non è possibile!) nessun compromesso antievangelico con i potenti. Chiese deboli e povere, qualche volta anche perseguitate, ripongono la loro unica fiducia nella forza della Parola e dello Spirito. La chiesa istituzione evita intrusioni nel dibattito politico e lascia le scelte concrete al libero confronto delle opinioni e delle valutazioni dei cittadini, conservando così la sua libertà profetica, che diventa quando è necessario – e spesso è purtroppo necessario – ferma denuncia della corruzione, degli sfruttamenti, delle ingiustizie commesse dai pochi potenti contro i tanti deboli. Proprio per questo acquista autorevolezza fra la gente e viene allora chiamata, ma in «seconda istanza», a opera di pacificazione e/o di mediazione politica.
5. La «prossimità» con i poveri e i sofferenti, che sono spesso, come avveniva nella prima chiesa, la maggioranza dei credenti. La chiesa sta di più «tra la gente» e ne condivide spesso la povertà, i disagi, le debolezze.
6. Lo sforzo dell’inculturazione, che obbliga a ripensare l’immutabile messaggio per incarnarlo nella vita e nella cultura propria di un popolo o di un gruppo umano. Cultura che spesso va purificata, ma che pure rappresenta una ricchezza per la fede.
7. La lunga pratica del catecumenato, che prepara gli adulti ad assumere consapevolmente il battesimo e la vita nuova che da esso scaturisce.
8. Il dialogo ecumenico e quello con le altre religioni, che diventa spesso una necessità, in quanto si vive e si opera nello stesso ambito territoriale, ma che proprio per questo è anche uno stimolo a definire la propria identità sulla base originaria della Parola di Dio e non di tradizioni umane.
Affrontando oggi la chiesa di Dio che è in Italia, il passaggio dalla pastorale di conservazione alla pastorale di missione dovrebbe confrontarsi con queste dinamiche delle giovani chiese. Non significa che esse siano modelli da imitare, né che non abbiano in sé debolezze e umane miserie (di cui sono anche loro ricchissime: «Ecclesia semper reformanda»). Significa solo che in esse si sperimenta meglio la freschezza del vangelo, novità di vita e orizzonte di speranza per tutti.
Conclusione
Gli istituti missionari presenti in Italia e parte della chiesa italiana vivono con questa tutte le difficoltà del momento presente:
a) le difficoltà del popolo italiano in un’ora di grande «crisi» (sociale, politica, istituzionale), che è passaggio (pasquale) ad un nuovo modo di vivere la sua appartenenza all’Europa e al mondo, ad una società non più monolitica, ma multietnica, multiculturale, multireligiosa, nel quadro di una globalizzazione che resta inquinata da presupposti ideologici di individualismo, agnosticismo, relativismo e liberismo;
b) le difficoltà della chiesa, che deve conservare la ricchezza della tradizione religiosa del popolo italiano in un quadro completamente mutato. «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia» è per questa chiesa un compito inedito. La missione in Italia (ed anche in Europa e in tutto il mondo post-cristiano) è tutta da inventare.
«Esperti di missione fra i popoli non cristiani», i missionari non sono né modelli, né maestri. Possono solo mettere a disposizione la radicalità del loro impegno per il vangelo e quello che apprendono sulle strade del mondo. Lo fanno come umili figli di quella chiesa di Dio che è chiamata a essere testimone del Cristo Risorto in Italia, in Europa e fino ai confini della terra.
Cimi, Suam, Ad Gentes