Perché, a cinque anni dalla cacciata da Kabul, i taleban sono ancora presenti in buona parte del territorio afghano? È evidente che essi trovano appoggio e collaborazioni nelle popolazioni locali, sfinite da 20 anni di guerra e deluse dalle promesse "da marinai" dei liberatori di tuo.
Nel luglio e agosto 2001, poche settimane prima che il mondo intero venisse scosso dall’abbattimento delle Torri Gemelle a New York, ho visitato l’Afghanistan. Allora il 15% del territorio era occupato dall’Alleanza Nazionale, un gruppo eterogeneo, che comprendeva essenzialmente etnie di tagike, uzbeke e hazare guidate da Massud, mentre il restante 85% era saldamente in mano ai taleban di etnia pashtun.
KABUL: FINESTRA SULL’ISLAM
Il mio reportage è iniziato a Kabul che mostrava (e mostra tuttora) tutte le tremende ferite di una guerra civile costata 30 mila vittime. La capitale, dopo la conquista da parte dei taleban, era stata teatro del più radicale stravolgimento socio-religioso a cui il mondo aveva assistito negli ultimi decenni.
Tutto, dai proclami del Ministero della promozione e della virtù ai discorsi della gente nei bazar, era finalizzato ad assecondare e giustificare ogni parola scritta nel Corano. Il milione di abitanti, dopo aver finalmente ritrovato la pace sociale e salutato entusiasticamente l’arrivo dei carri armati taleban, si erano ritrovati a essere in prima linea nella battaglia ideologica che il governo del mullah Mohammad Omar aveva intrapreso contro gli infedeli.
E Kabul, in quanto unica finestra aperta sul mondo esterno, era stata allestita a immensa vetrina del nuovo Emirato Islamico per chiunque visitasse l’Afghanistan dei taleban. La vita che si fermava 5 volte al giorno per le preghiere, l’assoluta predominanza maschile in ogni aspetto delle attività sociali, le lunghe file davanti ai centri di distribuzione del pane, l’anonimato della componente femminile, obbligata a restare separata fisicamente e psicologicamente dal resto della comunità, non erano che gli aspetti esteriori più evidenti di questo archetipo sociale.
Ma vangando più a fondo, ascoltando testimonianze di chi rifiutava di accettare questo stato di cose, si trovavano elementi nascosti particolarmente inquietanti. Come il progetto, per fortuna mai portato a termine, di uniformare la componente etnica di Kabul, allontanando dalla città la popolazione di origine tagika, uzbeka, hazara, sostituendola con famiglie pashtun, di cui i taleban sono l’espressione politica e religiosa e, soprattutto, sociale. "È più semplice, per il governo, modellare le proprie idee su una capitale abitata da cittadini a lui rigorosamente fedeli" affermava un afghano che si autodefiniva "politicamente neutralista".
"PAX TALEBANA" NEL SUD
Ma, come recita un detto locale, "Kabul è Kabul, l’Afghanistan è l’Afghanistan". Così, se dalla capitale del paese venivano mostrati al mondo intero il modo in cui sarebbero dovuti essere interpretati gli insegnamenti del Corano, nelle campagne, specialmente quelle meridionali abitate dai pashtun (38% della popolazione afghana), i taleban si sono sempre mostrati ben più tolleranti, a cominciare dall’educazione scolastica, aperta anche alle donne. In queste aree è ancora il pashtunwali, l’antichissimo codice d’onore che per secoli ha regolato la vita giuridica e sociale delle tribù afghane, a sostituirsi alla sharija; indossare il burqa non è sentito come un obbligo per le donne al di sopra dei 15 anni, ma un dovere dettato dalla tradizione, una sorta di rito di iniziazione dall’età adolescenziale a quella adulta.
L’arrivo dei taleban, a Ghazni come a Herat, a Kandahar come a Farah, aveva solo riportato quello che la popolazione voleva dagli anni Ottanta e che, fino al 1996 non aveva mai ottenuto: pace e tradizione. Come mi disse un contadino della regione di Kalat, al quale avevo chiesto per quale motivo appoggiasse il governo dei taleban: "Perché appoggio i taleban? I mujahedeen ci hanno detto che per ottenere la pace dovevamo combattere i sovietici. Poi è arrivato Hekmatyar, dicendoci che dovevamo scacciare Massud da Kabul e avremmo ottenuto la pace. Poi sono arrivati i taleban, che combattevano sia Massud che Hekmatyar. Ma loro, i taleban, hanno mantenuto la loro promessa. Oggi viviamo in pace, coltiviamo i nostri campi e possiamo vivere secondo le nostre tradizioni. Ecco perché appoggio i taleban".
La raggiunta stabilità sociale al sud aveva permesso di poter sviluppare colture cerealicole, sfruttando gli impianti di irrigazione costruiti dai sovietici, mentre la vicinanza con il Pakistan, che assieme ad Arabia Saudita e Emirati Arabi è stato il solo stato a riconoscere il governo taleban, aveva sviluppato un fiorente commercio facendo rinascere la classe mercantile pashtun, quasi completamente annientata dalla guerra civile.
Proprio questa stretta relazione tra il movimento taleban e il Pakistan, ha condotto l’Alleanza Settentrionale di Massud-Dostum-Rabbani a evidenziare il coinvolgimento diretto di Islamabad nella guerra afghana, giungendo a denunciare un piano di annessione militare in atto, in base al quale i taleban rappresenterebbero la quinta colonna del governo di Islamabad.
BUDDHA… DECAPITATO
Seguendo questo copione, i mass media ci hanno sempre mostrato i taleban come un’accozzaglia di invasati integralisti islamici dediti alla coltivazione dell’oppio che si divertono, di tanto in tanto, a distruggere statue.
Eppure, secondo il rapporto dell’UN Drug Control Programme del 2000, i taleban avevano interrotto quasi completamente la coltivazione d’oppiacei, rassicurati anche dalla promessa fatta nel 1998 dall’allora sottosegretario al Dipartimento di stato Usa, Karl Inderfurth, di alleggerire le sanzioni contro Kabul, assieme a un pacchetto di aiuti di 3 miliardi di dollari per i contadini che avrebbero acconsentito di trasformare i loro campi d’oppio in coltivazioni alternative.
"I taleban hanno mantenuto i loro impegni, ma non hanno mai visto un solo dollaro promesso, ricevendo in cambio un inasprimento delle sanzioni Onu" ha confessato in seguito un alto funzionario europeo dell’Onu a Kabul.
È in questo contesto che è venuta a inserirsi la vicenda dei Buddha di Bamiyan, distrutti solo dopo che una delegazione dell’Unesco era giunta nella capitale afghana, offrendo al governo milioni di dollari per evitare la distruzione delle statue. "I taleban saranno criminali, ma quando qualcuno prima nega dei soldi promessi, che sarebbero serviti a scopi umanitari, poi offre quegli stessi soldi per salvare delle pietre, anche il governo più razionale di questa terra può perdere la pazienza" spiegò allora desolato un diplomatico di un paese occidentale in visita a Kabul.
Taleban del Waziristan (Pakistan)
GUERRA CONTRO I FANTASMI
Arroccate tra le montagne, le popolazioni del Waziristan sono state una spina nel fianco del governo coloniale inglese. Gelose delle proprie tradizioni tribali e religiose,
continuano ad essere tartassate dall’esercito pakistano,
perché sospettate di dare rifugio al Mullah Omar e Osama bin Laden.
Dal villaggio di Tormandi si innalzano le voci delle donne che intonano i noha (lamenti) in onore ai parenti uccisi durante gli attacchi pakistani nel Waziristan. È un brutto giorno per incontrare Arianfar, il pathani conosciuto 15 anni fa.
Allora era un mujahedeen che, declamando i versi dell’eretico mistico Bayazid Ansari, combatteva per liberare i fratelli afghani dall’occupazione sovietica; oggi è un malik, uno dei capivillaggio più influenti della regione, come dimostra anche la lunga barba tinta di rosso che porta con fierezza.
E continua a combattere, Arianfar; la sua jihad non conosce tregua, ma i vecchi alleati di un tempo si sono trasformati nei nemici di oggi. Il nuovo satana da esorcizzare per purificare il dar al-islam (casa dell’islam) non è più l’ateismo comunista, bensì il capitalismo occidentale. "Non è la vostra fede che rifiutiamo, ma i valori su cui fondate la società" mi dice.
Non siamo d’accordo quasi in nulla, Arianfar e io; ma la lontananza geografica e ideologica non ci ha impedito di continuare a coltivare la nostra sacra amicizia. È stato lui, nel 1989, a rischiare la propria vita per guidarmi attraverso i villaggi della regione, eludendo un accerchiamento sovietico che stava stritolando il gruppo di mujahedeen a cui mi ero aggregato.
E ancora, è stato Arianfar a scorazzarmi attraverso l’Afghanistan dei taleban poche settimane prima dell’11 settembre 2001. E subito dopo i primi attacchi statunitensi, Arianfar mi ha accolto nella sua casa, tappezzata di manifesti di La Mecca, bin Laden e Abd ul-Ghaffar Khan, il fondatore del Khuda-i-Khidmatgar (Partito dei servi di Dio), che negli anni Trenta lottava perché il Pashtunistan fosse annesso all’Afghanistan.
Sin dal 1996 il panchayat (consiglio di villaggio) di Tormandi si era schierato a favore del governo del Mullah Omar, così come avevano fatto tutti gli altri villaggi della Federally Administered Tribal Area (Fata), una regione di 27.200 kmq, formalmente appartenente al Pakistan, ma dove Islamabad non ha mai potuto esercitare alcun controllo effettivo.
I 6 milioni di tribali che abitano la Fata, hanno in comune con i pashtun afghani la storia, letteratura, commercio, etnia e, soprattutto, il pashtunwali, il ferreo codice di regole sociali, la cui trasgressione porta alla morte, ma che, al tempo stesso, garantisce la completa solidarietà dell’intera comunità. Grazie a esso l’ospite, è sacro e intoccabile, sia esso un occidentale miscredente o un militante di al-Qa’ida.
Tutto questo ha permesso di creare una sorta di stato cuscinetto talebanizzato, dove la dirigenza islamica afghana e quella di al-Qa’ida, protette dai malik pathani, si sono potute rifugiare sin dalle prime fasi della guerra innescata dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Aiutati e difesi dalla popolazione, i membri di diverse formazioni terroristiche facenti capo all’organizzazione di bin Laden, hanno trovato tra i villaggi del Waziristan ripari sicuri, sino a quando l’esercito pakistano, pressato dalle insistenze degli Stati Uniti, ha deciso di rompere gli indugi e attaccare massicciamente l’intera zona.
Ma gli stessi soldati pakistani hanno più volte lamentato la completa inaffidabilità delle informazioni raccolte tra la popolazione.
"Stiamo combattendo contro delle ombre" è la frase più ricorrente tra i militari di Islamabad. Nulla di più normale tra queste montagne, dove il nome del presidente Musharraf viene storpiato in Busharraf, e dove domina il Muttahida Majilis-e-Amal, una coalizione di sei partiti islamici ortodossi, fortemente critica verso il presidente pakistano, che nelle elezioni del 2002 ha conquistato 45 seggi all’Assemblea nazionale, divenendo il terzo partito del paese.
L’ambasciatore statunitense in Pakistan ha dichiarato che i principali dirigenti taleban si muovono senza problemi all’interno del suolo pakistano, organizzando gli attacchi contro i soldati della coalizione. Gli stessi servizi segreti pakistani, lungi dall’essere stati epurati degli elementi pro-taleban, giocherebbero una carta determinante in questa partita. Le loro infiltrazioni nelle forze armate, vedono malvolentieri un Pakistan troppo remissivo nei confronti dell’Occidente e dell’India.
I recenti accordi sulla questione del Kashmir avrebbero indotto i jihadisti a innescare una nuova offensiva contro un governo considerato secolare. Quattro tentativi di assassinare Musharraf in nove mesi, l’arresto del padre della bomba atomica pakistana e la forte opposizione dei pathani all’offensiva del Waziristan dimostrano quanto convulsa sia l’atmosfera nella nazione.
Piergiorgio Pescali