La parabola del «figliol prodigo»
La parabola del "figliol prodigo" (4)
Il vangelo della gioia genera la comunità
e uomini e donne liberi
Ripercorriamo il capitolo 15 di Luca mettendo in evidenza in modo particolare il vocabolario in relazione alla vita di ogni giorno. È un vocabolario circolare, perché vi sono parole e concetti che ritornano come un ritornello, quasi che l’autore sia preoccupato che i suoi lettori imparino bene la lezione di vita.
VOCABOLARIO CIRCOLARE
Abbiamo sottolineato più volte che ci troviamo di fronte non a tre, ma a due parabole, ciascuna delle quali è prolungata o raddoppiata con un nuovo personaggio che mette ancora di più in luce l’argomento della prima. Leggendo in parallelo la prima parabola (vv. 4-7) e il suo prolungamento (vv. 8-10) scopriamo "visivamente" che vocabolario e messaggio sono gli stessi.
La parabola vera e propria (l’uomo/pastore) è composta di quattro versetti, per un totale, in greco, di 81 parole, mentre il commento illustrativo (la donna) si compone di tre versetti, per un totale di 51 parole, cioè 28 in meno, rispettando così anche un rapporto proporzionale tra parabola primaria e aggiunta di rafforzamento.
Il messaggio della prima parabola è dunque quella dell’esclusività di ciascuno di noi che Lc indirizza sia al mondo maschile che a quello femminile: nessuno deve sentirsi escluso dall’attenzione di Dio.
Sia la parabola (pastore) che il suo prolungamento (donna) cominciano con un interrogativo ipotetico, che esige la risposta: "Nessuno". Nessuno infatti abbandona una pecora nel deserto e nessuna donna fa finta di nulla se perde una moneta preziosa.
Luca stesso ci aveva preparato a questa svolta, quando, nel contesto della preghiera, ci aveva già anticipato che Dio non si rassegna di fronte alle esigenze dei suoi figli e nessun padre dà al figlio pietra per pane o serpe per pesce o scorpione per uovo (Lc 11,11-13). Ora ci dice che a maggior ragione Dio non si rassegna alla morte dei suoi figli, per quanto peccatori e ribelli essi possano essere. Pateità/mateità e figliolanza non si possono mai rinnegare senza annullare la propria identità e Dio "ricorda sempre la sua alleanza: parola data per mille generazioni" (Sal 105/104,8).
UN UOMO E UNA DONNA PER LA STESSA IMITAZIONE
Appare subito evidente che il secondo esempio è un doppione del primo, che non ha senso nella logica della parabola, ma trova un motivo nel fatto che Lc ricostruisce in forma letteraria un parallelismo, tanto caro alla cultura ebraica: si afferma lo stesso concetto, ripetendolo due volte, in positivo e in negativo o mettendo in evidenza gli opposti, come in questo caso: maschile e femminile.
L’introduzione narrativa del v. 3 è illuminante, come abbiamo già sottolineato, perché parla al singolare di "questa parabola" e poi passa a illustrare due esempi. In questo contesto si evidenzia l’intenzione dell’autore di rimarcare l’insegnamento del primo racconto, ma sotto la prospettiva femminile.
Mettendo come protagonisti dell’unica parabola, un uomo e una donna, l’autore espone la sua intenzione di dire che nessuno, uomo o donna, possa e debba dirsi esentato dall’imitare il comportamento di Dio. La prova che questa sia la volontà dell’evangelista, si trova al v. 4 dove non si parla di "pastore", ma alla lettera (dal greco): "Quale uomo tra di voi…", che trova il suo corrispettivo al v. 8 nella specularità opposta: "Oppure quale donna…".
Lc non è nuovo a questo procedimento, perché, pur non essendo ebreo, è l’evangelista che più di tutti imita lo stile ebraico, in modo particolare quello della bibbia greca dell’AT, detta la Lxx. Gli studiosi hanno contato circa 83 septuagentismi (frasi e modi di dire cioè costruiti sullo stile della Lxx).
Secondo la tradizione ebraica, ogni Israelita per adempiere la toràh doveva osservare 613 precetti: 365 negativi (uno per ogni giorno dell’anno) e 248 positivi (uno per ogni articolazione, nervo e osso che compongono il corpo umano). Le donne erano dispensate dall’osservare i 248 precetti positivi, mentre erano obbligate a rispettare quelli negativi.
In questo contesto, narrare una parabola mettendo sullo stesso piano sia un uomo che una donna, significa riconoscere anche alla donna il diritto di imitare Dio né più né meno come l’uomo: è la dichiarazione dell’uguaglianza dei figli di Dio.
Lc è veramente il discepolo di Paolo che aveva spezzato ogni catena di discriminazione in nome della fede: "Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,26-28).
LA COMUNITA’ LUOGO DELLA GIOIA
Un altro elemento di corrispondenza è l’opposizione che intravediamo nei due ambienti diversi dove agiscono l’uomo e la donna: il primo si trova "nel deserto" (v. 4), la seconda invece in "casa" (v. 8), che in qualche modo ci prefigurano quanto succederà nella seconda parte dove si descriverà un allontanamento dalla casa patea verso "un paese lontano" (v. 13), che non è solo il deserto, ma qualcosa di peggio: è la negazione della santità della casa, perché il figlio minore andrà in una regione impura, popolata da porci (v. 15).
Sia l’uomo/pastore che la donna/casalinga della prima parabola hanno la stessa reazione e provano gli stessi sentimenti di fronte al ritrovamento, forse insperato, della pecora e della moneta: ambedue chiamano amici e vicini per condividere la gioia che li pervade.
Quando l’arcangelo Gabriele visita Maria di Nazareth, entrando da lei la saluta dicendo: "Chàire-Gioisci" (Lc 1,28), che è lo stesso verbo che usano il pastore e la donna quando convocano gli amici, ma rafforzato dalla preposizione di compagnia: "Synchàrete-con-giornite" (Lc 15,6.9). È il bisogno della condivisione del cuore. È la logica della comunità, come luogo naturale della gioia e dell’amore, mentre la tristezza spinge alla chiusura e all’isolamento. Quando si scoppia di gioia, si è naturalmente contagiosi e si cerca una comunità dove potere partecipare i sentimenti di vita.
Forse qui c’è un discreto accenno alla comunità/chiesa, che è tale solo se condivide e partecipa la vocazione alla imitazione del Padre che sbocca nella gioia. Non basta andare in chiesa, bisogna essere chiesa. Va in chiesa chi deve adempiere un obbligo, chi deve pagare un pedaggio.
È chiesa chi invece risponde a una vocazione con il desiderio di incontrare uomini e donne con cui partecipare la gioia di essere ritrovati, con cui condividere il vangelo della gioia, espresso dall’uomo e dalla donna della prima parabola e dal padre della seconda parabola che ora ci accingiamo a studiare insieme.
UN UOMO AVEVA DUE FIGLI, ED ERA SOLO
La 2a parabola, rigorosamente parlando, è limitata ai vv. 11-24: la parte relativa al padre e al figlio minore. La seconda parte (vv. 25-32), che riguarda il padre e il figlio maggiore, è un prolungamento della prima, osservata da una prospettiva opposta. In essa si ripete lo stesso insegnamento della prima, ma da un angolo di visuale diversa. Che sia la seconda parabola lo rileviamo dal v. 11, dove ritroviamo per la seconda volta il verbo narrativo "e disse" che fa coppia con "egli disse" del v. 3.
Se la prima parabola è illustrata dall’esempio di un uomo e una donna, la seconda è dominata da due figure: un uomo e due figli (v. 11) che l’autore divide in due parti:
a) il padre e il figlio più giovane (vv. 12-24),
b) il padre e il figlio maggiore (v. 25).
Il padre fa da peo ai due figli, che sono speculari e l’uno non può esistere senza l’altro, perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro.
Sia nella parabola essenziale (figlio minore) che nel suo prolungamento (figlio maggiore) la figura centrale è il padre: tutto ruota attorno a lui; e mentre i figli fanno i propri interessi, ciascuno dal proprio punto di vista, il padre è in continuo movimento: corre (v. 20), si getta addosso al figlio (v. 20), esce incontro al maggiore (v. 28), mentre i figli e i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in fretta (v. 22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi dalla pateità che li sostiene.
DALL’ESPERIENZA ALLA STORIA DELLA SALVEZZA
La parabola in sé riguarda le scelte e il comportamento del "più giovane" (v. 12), mentre il comportamento del figlio maggiore fa da contrasto e ci permette di accostarci alla figura del padre in modo più pieno e profondo. Il confronto tra la parabola del figlio minore in relazione con suo padre e il suo prolungamento, cioè del figlio maggiore in rapporto con suo padre, non è un doppione vero e proprio, come nella prima parabola del pastore/donna, ma l’altra faccia della stessa medaglia.
Questa seconda parabola illustra il tema della misericordia sullo sfondo della storia della salvezza come si è realizzata, mettendo a confronto Israele e la chiesa.
Esaminiamo le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte (vv. 25-32), riportando solo i temi e non il testo che occuperebbe molto spazio:
I due figli, il più giovane e il maggiore sono simboli di due atteggiamenti: un abisso li separa dal padre; ma anche tra di loro vi è una somiglianza nonostante non esista alcuna comunicazione del figlio minore con il fratello maggiore e di questi con il fratello minore. Sono stranieri in "casa", la negazione della frateità pur vivendo insieme al padre.
APPLICAZIONE: A QUALE DEI DUE FIGLI ASSOMIGLIAMO
Non conosciamo il motivo per cui il figlio minore vuole andarsene via di casa, ma possiamo intuirlo, perché il testo ci offre qualcosa di più di un semplice sospetto.
Viene un tempo nell’adolescenza, in cui i genitori sono colpevoli di tutto: in essi l’adolescente identifica tutte le cause di tutte le sue insoddisfazioni che riguardano il corpo (nessun adolescente "si piace"), la fatica di vivere, lo stile di vita, la casa, la famiglia. Il "figlio più giovane", come tutti gli adolescenti, vuole essere "più grande" di quanto non sia, mentre sperimenta ogni giorno di essere trattato come l’adolescente che è. Il conflitto con tutto ciò che ostacola il suo "essere grande" è inevitabile, il confronto con il fratello maggiore è una sfida che degenera in guerra. Si sogna di scappare di casa, come soluzione della propria irrequietezza. A questa età si sogna la morte dei genitori e si odiano i fratelli e sorelle, perché "loro sono grandi, mentre io a quin-di-ci-an-ni sono trattato/a ancora da bambino-bambina".
Chiunque è stato genitore ha vissuto questi problemi. I fratelli maggiori si divertono alle spalle dei fratelli minori e non perdono occasione per mettere in ridicolo le manifestazioni della loro crescita e del loro sviluppo. Da un lato l’adolescente "sente" di non potere vivere una sua propria vita se non "uccide" (psicologicamente) i genitori, mettendo così in atto quel desiderio inconscio di eliminare qualunque principio di autorità.
In psicologia questo principio è codificato nell’espressione: "Uccidi il Budda che incontri per strada", dove Budda sta per qualsiasi forma di autorità (padre, madre, maestro, direttore spirituale, ecc.). Per ritrovare l’autorità come sostegno di servizio alla crescita, bisogna sapersene separare, altrimenti c’è il rischio di vivere sempre sottomessi a una autorità che diventa sostitutiva e per questo deleteria.
Il figlio minore volle uccidere suo padre per affrancarsi dalla dipendenza, ma non è ancora giunto il suo tempo di maturità; il figlio maggiore non aveva tagliato il cordone ombelicale, ma non era affatto cresciuto, perché si era rintanato nel suo egoismo possessivo, fino a essere geloso del ritorno del fratello, che vede come antagonista e concorrente.
È l’atteggiamento di fondo per vivere una relazione matura e armonica in ogni ambiente, in ogni condizione. Ciò vale per il figlio nei confronti del padre e della madre, per il monaco nei confronti del superiore, per la suora nei confronti della superiora, per il prete nei confronti del vescovo, per la moglie nei confronti del marito, per il marito nei confronti della moglie, per gli alunni nei confronti dei maestri.
Tutti coloro che esercitano una qualche forma di autorità devono diminuire se vogliono che gli altri affidati alla loro responsabilità crescano liberi, pieni, maturi e diventino adulti (Gv 3,30).
Col padre e i suoi due figli, tutti dobbiamo fare i conti e prima lo facciamo meglio è per noi [continua – 4].
Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA
Uomo
4 "Quale uomo di voi
se ha cento pecore
e ne perde una,
non lascia le novantanove
nel deserto
e va dietro a quella perduta,
finché non la ritrova?
5 Ritrovatala,
se la carica sulle sue spalle
tutto contento,
6 va a casa,
chiama gli amici e i vicini
e dice loro:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la mia pecora perduta”.
7 Io vi dico che così
vi sarà gioia
in cielo
per un solo peccatore
che si converte,
che per novantanove giusti
che non hanno bisogno
di conversione".
Donna
8 "Oppure quale donna,
se ha dieci dramme
e ne perde una,
non accende la lucerna
e spazza la casa
e cerca attentamente
finché non la ritrova?
9 E dopo averla trovata,
chiama le amiche e vicine
dicendo:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la dramma perduta”.
10 Così, io vi dico,
vi è gioia
davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore
che si converte".
Figlio giovane
In casa
Lascia la casa
Va in un paese lontano
Commensale dei porci
Il padre gli corse incontro
Padre, ho peccato contro di te
Il padre fa festa
perché "questo mio figlio"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato
Figlio maggiore
È nei campi
Toa a casa
Non entra, ma resta "vicino"
Tu sei sempre con me
(dice il padre)
Il padre uscì a chiamarlo
Non mi hai mai dato un capretto
Il padre invita alla festa
perché "questo tuo fratello"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato
Paolo Farinella