Calcio: metafora della vita

Il nostro portiere cercava di trattenere i bianchi che volevano sbranare l’arbitro,
e quel Sancocho ebbe la pessima idea di citare Frantz Fanon, il pensatore anticolonialista che a quell’epoca spopolava… Avete sentito, signori, uno spudorato ha osato citare Fanon… E chi avrebbe citato se avessi dato un rigore alla razza bianca? Althusser? Mao? Lo stesso Marx? La guerra imperiale si porta avanti con modi da cavaliere e colpi da animale…

Osvaldo Soriano, Fútbol, storie di calcio

Il calcio è soltanto un gioco? Certamente è un gioco e un gran bel gioco di squadra, quando i retroscena non l’offuscano con intrighi e imbrogli. Un attento osservatore può, però, scorgere in una o più partite di calcio le avventure della vita.
Lo dimostra molto bene lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, nato a Mar del Plata nel 1943 e prematuramente scomparso a Buenos Aires nel 1997.
"Mi ricordo i tempi in cui abbiamo cominciato a rotolare insieme, la palla e io. È stato su un prato a Río Cuarto de Córdoba che ho scoperto la mia vocazione da attaccante" scrive Soriano, maglia numero 9, soprannominato el gordo (il grasso). Purtroppo, però, "mi sono rotto il ginocchio contro il Centenario, a Neuquén" prosegue lo scrittore argentino, promettente centroavanti e costretto a divenire un cronista sportivo dai tratti originali.
Nel 1971 è redattore del quotidiano La Opinión, ma, nel 1976 a causa del colpo di stato, è costretto ad abbandonare l’Argentina, per vivere prima in Belgio e poi a Parigi. Rientrerà in Argentina nel 1984, ormai giornalista affermato e conosciuto anche in Italia per i suoi romanzi tradotti in 12 lingue come: "Triste, solitario y final" (1973), "Mai più pene, né oblio" (1979, soggetto di un film del regista Héctor Olivera, vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino), "Quartieri d’inverno" (1981).
Con l’ironia condita da humour, che caratterizza tutti i suoi scritti, Soriano si descrive così: "Non amo lavorare troppo, né correre per i corridoi di uno stadio, né forse capisco di sport quanto l’incarico richiederebbe. Ma so inventare storie bellissime".
Le sue storie sono, infatti, così belle che hanno entusiasmato tutto il mondo. Lo scrittore argentino riesce con leggerezza e realismo a produrre una rara miscela di esperienze realmente vissute, condite con massime di scrittori amati o a mala pena digeriti, e inserite in eventi storici dai risvolti drammatici e farseschi del xx secolo, senza scordare di citare scene e citazioni dei suoi amatissimi film. Insomma, leggendo e ridendo per strabilianti acrobazie, molto spesso inserite in fantasmagoriche partite di calcio, si scoprono realtà sconosciute o fatti notissimi si rivelano in una nuova prospettiva di luci e di ombre.

"Fútbol", una raccolta postuma di alcuni suoi racconti, brilla come un scintillante e originale mosaico di creatività e capacità narrativa. Le tessere del mosaico rappresentano storie di vita vissuta, come quella di Obdulio Varela che, nel 1950, fece vincere "il mondiale" allo spaurito Uruguay contro il favoritissimo Brasile, o la fantastica partita dei mai giocati mondiali del 1942, arbitrata dal figlio di Butch Cassidy e vinta dagli indiani mapuches, perché gli italiani "entrarono in campo nascondendo manciate di peperoncini rossi da tirare negli occhi degli avversari", oppure la storia vera dell’onesto "pibe de oro" Eesto Lazzati, o quella degli arbitri corrotti e venduti che chiedono "mille pesos per dare un rigore e due o tremila per annullare un goal".
Infine, il lungo racconto "Memorie del Míster Peregrino Feández" rappresenta un po’ una "summa" della scrittura spregiudicata e ironica dell’ineguagliabile Soriano. Il giornalista intervista l’ottantacinquenne argentino "el Mister", ormai costretto su una sedia a rotelle, in una casa di riposo nei pressi di Parigi, e scopre che da giovani si erano già incontrati sui campi da calcio in Argentina. Mister Feández, "innamorato del bel gioco e creatore del calcio-spettacolo", ha infatti iniziato a far giocare ragazzi, perché "si comportino bene e mettano sul terreno il meglio che hanno", ma, dopo aver girato il mondo, a malincuore ammette: "Avevamo messo fine alla bellezza per garantire la resa delle squadre".
Dall’Argentina el Mister era approdato in Francia e, "quando l’avevano cacciato dalla Lega francese per aver giocato una partita con dodici uomini, se n’era andato in Australia". Afferma, infatti, che scriverà le sue memorie "in turco, in inglese e in castigliano, senza tradire né reprimere i sentimenti", perché "nella mia vita ho visto diverse epoche di vari paesi", tra questi l’Italia fascista, l’Urss di Stalin, la Francia occupata dai tedeschi, l’Africa di Lumumba.
Lo sfacelo provocato da ogni tipo di dittatura è ben tratteggiato nella partita giocata davanti a Stalin: "Il problema era che nessuno sapeva se il compagno Stalin fosse tifoso della Dinamo o della Stella Rossa, per cui non era possibile fare il trucchetto per lasciarsi vincere… Dovevo stare attento a fare i passaggi tenendo conto dei problemi di ognuno: all’ala destra mancava l’occhio sinistro, per cui non avrebbe visto niente che gli fosse arrivato da quel lato.
Il centromediano portava un collare rigido, per cui non poteva colpire di testa né guardarsi attorno. La mezzala sinistra, te l’ho già raccontato, era zoppo e si spostava saltellando. Invece, l’ala era un piccoletto mezzo sordo, a causa di una granata che era finita nella sua trincea, e con lui bisognava comunicare a gesti. Tarmanowski era monco, ma si difendeva abbastanza bene. Mi sono un po’ rincuorato quando mi hanno detto che quelli della Stella Rossa erano più malconci di noi… Mi dissero che il portiere portava scarpe ortopediche e che uno dei terzini soffriva di amnesia continua, cioè non sapeva nemmeno quale partita stesse giocando".
Il Mister Feández con lucidità denuncia inoltre la situazione del suo paese: "A quel tempo credevo che noi argentini avessimo intelligenza da vendere, per quello me ne sono andato per il mondo a fare il furbo, il presuntuoso. Adesso, invece, a vedere il paese che abbiamo creato penso che non siamo intelligenti, ma siamo furbi, che è un’altra cosa. Tra i furbi ci sono molti cretini. Credo di averlo imparato da un francese che si chiamava Camus, uno dei pochi intellettuali che si intendeva di calcio. Era un ottimo portiere!".

Soriano termina i suoi racconti, fantastici ma non troppo, citando il suo maestro Américo Tesorieri, portiere del Boca, che ha scritto: "Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che forse tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere, se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio, dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio… Questi sono i profeti. I poeti del gioco".
Osvaldo Soriano con il suo narrare metaforico e fantasioso è anche lui "un poeta del gioco".

Silvana Bottignole

Silvana Bottignole