La terra brucia e i popoli scrivono con il sangue la loro carta di identità, non nella tessitura di un’autobiografia, ma nella stesura di una controbiografia: io trovo la mia identità nella contrapposizione con la «tua» storia, invece che nel vissuto della «mia» storia.
Di fronte a questa dilagante ondata di violenza che percorre la terra da nord a sud e da est a ovest, nelle megalopoli dei paesi supersviluppati come nelle immense discariche urbane dei paesi sottosviluppati, c’è da chiedersi: «Come mai? Dove ricercare le radici di questi cruenti rigurgiti d’intolleranza e fanatismo? Donde questa sete di sangue e di vendetta, che ristruttura l’uomo moderno sulla fisionomia del vampiro?».
Dopo le grandi guerre, i progrom e gli olocausti dello scorso secolo, dopo i bui e accecanti bagliori atomici di Hiroshima e Nagasaki, credevamo di esserci lasciati alle spalle la lunga, ininterrotta tradizione di violenza che ha caratterizzato la storia dell’uomo sin dall’età della pietra. Avevamo sognato di aver debellato definitivamente la ragione della forza con la forza della ragione, nella convinzione di aver maturato, nella coscienza morale prima che nelle strutture politiche, il salto di qualità agognato dai profeti della nonviolenza e sancito dallo Statuto dell’Onu.
Pensavamo, con il Concilio Vaticano ii e nell’abbraccio ecumenico che ne seguì, di aver liberato le diverse tradizioni morali dall’involucro di aggressività che le aveva contaminate, riconsegnando le religioni alla loro originaria innocenza.
Non avremmo mai immaginato di doverci ritrovare, all’inizio del terzo millennio, con nelle mani niente altro che le ceneri di sogni svaniti. L’«homo absconditus» sognato da Gandhi e cantato dai figli dei fiori, l’«uomo inedito», come amava chiamarlo Eesto Balducci, è rimasto seppellito sotto le macerie delle grandi ideologie e delle calde utopie.
Si è iniziato stupidamente, già negli anni ‘80, in una volgare ondata riduzionistica. A livello filosofico, la grande tradizione del pensiero marxista la si è voluta degradare a semplice «ideologia». Da più parti si è osannato alla morte delle ideologie, dopo i cui funerali si è voluto innalzare sul trono della «ragione» la «leggerezza dell’essere» ed il suo «pensiero debole». Il successivo passo, dal pensiero debole al pensiero unico, non è stato altro che un passaggio logico.
A livello socio-politico, si è voluto far coincidere tutta la ricca esperienza del socialismo nella triste e parziale esperienza del comunismo reale, nella versione sovietica. In questo calderone si è riversato tutto il male possibile e immaginabile, identificando tout-court comunismo-dittatura-gulag. Berlusconi, che continua a suonare i suoi deliri su questa unica corda, non è altro che la deriva populista di questa operazione.
A livello religioso, è stato messo il bavaglio al Concilio, derubricandolo dal calendario della chiesa universale e di quella italiana in particolare. Nella generale indifferenza di molti, le figure più avanzate ed esposte tra i vescovi, sono state sostituite con personaggi grigi e ultraconservatori, «polonizzando» la chiesa e consacrandone le anime più retrive di certi movimenti ecclesiali. Il discorso che si è voluto far passare come «moderno» è stato quello di una religione tutta e solo intimistica, legata a figure problematiche di «santi» quali Padre Pio e Josemarìa Escrivà de Balaguer. I «teocon» e gli «atei devoti» non sono altro che figli legittimi di questa gestazione.
Sarebbe interessante portare avanti, con sistematica puntigliosità e con severità di ricerca e di riflessione, l’approfondimento di questi tre itinerari.
Personalmente non sono un filosofo, né un politico pur seguendo con interesse e la filosofia e la politica. Tuttavia come cristiano e come sacerdote, non posso non rilevare, per tornare alle domande iniziali, come una certa religiosità possa essere essa stessa fattore di violenza nell’attuale contesto storico.
Il noto aforista Jonathan Swift ebbe a scrivere: «Abbiamo abbastanza religione per odiare il prossimo, ma non per amarlo». Gabriel Ringlet, prete belga, rettore dell’Università di Lovanio, gli fa eco: «Esiste, al centro stesso delle religioni, in particolare delle religioni monoteiste, un’aggressività, un orgoglio, un esclusivismo che talvolta danno i brividi!».
Personalmente sono convinto che la religione non riscattata dalla fede è come una mina vagante; la religione, non fermentata dalla fede diventa insolente.
La fede convince dall’interno, la religione costringe dall’esterno. La fede propone, la religione impone. Fede e religione sono tra loro in un rapporto dialettico ad alta tensione che, comunque, va mantenuto, ma sempre in riferimento alla fede, mancando la quale la religione degrada a devozionismo paganeggiante e fanatismo di presunzione.
Nella storia del mondo le religioni sono state spesso specialiste in arroganza, intolleranza e repressione. Nessuna delle grandi religioni è stata totalmente estranea, nemmeno il nostro cristianesimo, a un certo spirito guerriero provocato dalla malattia del dogmatismo e pretesa di imposizione a tutti.
Lo scontro si verifica sempre quando la Verità viene condensata in un libro. È successo con la bibbia, che è stata usata come un’arma; è successo non molto tempo fa con il libretto rosso di Mao; è successo con il Mein Kampf di Hitler, succede con il Corano. Questi non sono che esempi di quello che succede quando si impongono limiti alle verità plurali: sì, perché la Verità è plurale e non monocroma. La Verità è sinfonica, fatta di molte voci che, ascoltate nel dialogo e nel confronto, liberano dalla presunzione spocchiosa della dittatura del pensiero.
Non si dimentichi, poi, che per i cristiani la «Verità» non è un concetto né un’idea, ma una Persona: Gesù di Nazareth, la sua vita, il suo messaggio.
Egli si propone, non s’impone. A coloro che incontrava soleva dire: «Se vuoi…». Nel suo vocabolario non esiste il verbo «devi!».
Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura 1913, in un discorso pronunciato a Calcutta nel 1937 ebbe a dire: «Quando la religione ha la pretesa di imporre la sua dottrina all’umanità intera, si degrada a tirannia e diventa una forma di imperialismo».
Aldo Antonelli