Paulina e Paola hanno la stessa età e il tesoro di una grande amicizia, nata per le strade di Madrid.
Paulina, ecuadoriana, venuta in Spagna in cerca di lavoro, ha una storia nel cassetto e la voglia di narrarla: la sua storia di emigrata.
Paola, italiana, ama chi si racconta e pensa che la vita della gente ha sempre molto da insegnare. La storia di Paulina rispecchia situazioni, problemi e sentimenti di ogni migrante, con la nostalgia di ciò che ha lasciato e un futuro da inventare.
A maggio ho compiuto sei anni da quando ho lasciato la mia patria, la mia famiglia, gli amici, il lavoro… tutto; non con il fine di conseguire il «sogno europeo», ma obbligata dalle difficili circostanze della mia famiglia, dovute alla crisi economica e politica che attanaglia l’Ecuador.
Sono arrivata in Spagna, il «paese dell’accoglienza», con paura, incertezza e tanta voglia di lavorare. Nella valigia portavo con me anche briciole di speranza, fiducia, innocenza e volontà. Inoltre, non mi mancava il desiderio di farcela.
Appena l’aereo toccò terra, il mio cuore iniziò a battere all’impazzata; ero nervosa perché temevo che qualche poliziotto dell’immigrazione potesse fermarmi e iniziare a fare domande. Grazie a Dio varcai la porta di uscita senza problemi e tirai un grande sospiro di sollievo.
DUE MONDI ALLO SPECCHIO
Presi la metropolitana e poi il pullman, per raggiungere un paese vicino a Madrid, dove sarei stata ospite di una figlia di amici di mio padre. Il percorso per arrivare nella mia nuova casa mi sembrò eterno: non pensavo che Madrid fosse così grande. La paura mi ha accompagnato per molto tempo; temevo che la polizia, o chi per essa, avrebbe potuto fermarmi per strada in qualsiasi momento, chiedendomi di esibire documenti e permessi di soggiorno e di lavoro. Ogni volta che scorgevo una qualsiasi uniforme cambiavo di marciapiede. Per questo motivo uscivo poco di casa e, quando lo facevo, ero sempre accompagnata dalla mia amica con il suo figlio più piccolo.
Per prima cosa ho dovuto imparare a gestire i mezzi di trasporto: fermate fisse, orari fissi, divieti di sovraccarico di gente: tutte cose inesistenti nei servizi di trasporto ecuadoriani. Per non parlare della metropolitana, le cui mappe rappresentavano per me soltanto un intreccio di linee colorate, zeppe di simboli di cui non conoscevo il significato.
Ben presto ho scoperto che l’affitto in questa città è molto caro; per questo la mia amica, i suoi figli e io abitavamo tutti in una stanza. L’altro locale del mini appartamento era affittato da un’altra coppia di immigrati. Tutto era in comune; ognuno aveva il suo spazio riservato nel frigo, nella dispensa e ciascuno si arrangiava nel preparare i propri pasti.
Quante volte, incontrandomi con altri immigrati, ho dovuto ascoltare storie sulla difficoltà di vivere ammucchiati, dormire per terra e dover pagare anche per un bicchiere di acqua! In alcuni casi erano proprio i nostri connazionali ad approfittarsi della situazione di bisogno, anche se va detto, questo non è stato il mio caso.
Il fatto di condividere in più famiglie uno stesso alloggio rappresenta una vera avventura: da una parte si ha la possibilità di conoscere persone diverse, con le loro abitudini ed esperienze, di non sentirsi troppo soli. Si perde però la propria intimità, non si ha uno spazio personale; non si riesce a riposare bene e quello che al principio può sembrare un’ avventura persino divertente si converte ben presto in seri problemi di convivenza. Questo tipo di co-abitazione «forzata» mi ha aiutata a vincere la solitudine, ma nello stesso tempo ha fatto emergere la nostalgia per le relazioni che sono state recise nel momento in cui ho dovuto lasciare l’Ecuador per venire a vivere qui.
Insomma, i primi tempi mi sentivo come una pecorella smarrita; non riuscivo neppure a entrare in sintonia con una comunità parrocchiale. Entravo e uscivo da una e dall’altra chiesa, tentando ogni volta di risollevare il mio spirito e cercando di incontrare nelle celebrazioni una qualche somiglianza con quelle che vivevo in Ecuador.
Sono rimasta sorpresa nel vedere così poche persone (per la maggior parte anziane) partecipare alla messa. La liturgia mancava di animazione e il ricordo della mia parrocchia d’origine mi riempiva di tristezza; più di una volta mi sono messa a piangere. Dovettero passare tre anni prima che potessi ritornare finalmente all’«ovile»: adesso faccio parte di una comunità cristiana che vive e celebra cercando di riscattare le tradizioni della chiesa latinoamericana, partecipando anche della ricchezza di quelle della Spagna.
I PRIMI PASSI
Avevo voglia di lavorare e mi misi subito alla ricerca di un impiego; iniziai a pubblicare annunci di lavoro in un quotidiano della capitale. Fermate di mezzi pubblici, centri commerciali e consultori si trasformarono in altrettanti punti di riferimento per lasciare bigliettini che dicevano: «Ragazza seria e responsabile si offre per lavorare come balia, badante o persona delle pulizie».
Ai colloqui di lavoro andavo sempre accompagnata dalla mia amica, che mi elargiva consigli per l’eventuale impiego, visto che alcuni colloqui potevano nascondere proposte indecenti o contratti capestro, con paghe infime e senza giorno libero.
Impiegai tre mesi per trovare occupazione. Non conoscevo ancora nulla della Spagna: abitudini, modo di mangiare, ritmo di lavoro; perfino certe espressioni nel parlare, tipicamente spagnole, mi erano del tutto sconosciute. Devo ringraziare una famiglia, che, conoscendo un po’ la realtà latinoamericana, insieme al lavoro mi offrì l’opportunità di imparare a condividere il loro modo di vivere. Con il lavoro ho appreso nuovi termini per definire i vari utensili per le pulizie della casa, che da noi hanno tutti altri nomi; ho imparato a distinguere la miriade di saponi e detersivi: quello per i vetri e l’altro per i pavimenti, l’uno per vestiti e l’altro per lavastoviglie, e ancora quello per lavare le stoviglie a mano… In Ecuador è più semplice: un solo sapone funziona bene per tutto. Per non parlare degli elettrodomestici che ho dovuto imparare a maneggiare: vetroceramica, minipimer, microonde… tutte cose di cui ignoravo completamente l’esistenza.
Naturalmente ho dovuto imparare a preparare il cibo alla spagnola. Ma ciò che più mi ha impressionato è l’attenzione che gli spagnoli hanno per i bambini e animali domestici: gli uni come gli altri hanno medico, vaccini, letto, giocattoli, shampoo, cibo speciale e lo stesso diritto di uscire a sgambettare tre volte al giorno.
Non riuscivo a capire come mobili, computer, vestiti venivano scartati e portati in strada solamente perché avevano un piccolo difetto o non servivano più. Questo particolare mi ha fatto riflettere sulla grande differenza che esiste fra questi due mondi: quello che ho lasciato e quello che ho incontrato. Per esempio, il bambino di cinque anni che accudivo era perennemente annoiato e insensibile a ogni provocazione dei genitori. Che contrasto con la gioia di vivere dei bambini nel mio rione a Quito. È proprio vero che «non è felice colui che possiede più cose, ma colui che ne ha bisogno di meno».
Tutto ciò che vivevo era in aperto contrasto con la realtà dalla quale provenivo. Sentivo di dovermi adattare a questa nuova forma di vita, anche se non l’approvavo. Ho preso un impegno con me stessa: non lasciarmi assorbire dal materialismo esistente, cercando di mantenere il più possibile il mio essere autentico.
«ODISSEA LAVORO»
Dopo alcuni mesi di lavoro al servizio della prima famiglia, iniziò a funzionare il «passa parola» che avevo attivato e, grazie alle referenze e all’esperienza maturata, riuscii ad avere un impiego migliore. Ma dovevo al tempo stesso ottenere i permessi di lavoro e di residenza. Il 14 agosto del 2001, iniziai le pratiche per ottenere un documento che certificasse la mia situazione lavorativa. In quegli anni le file agli sportelli per ottenere informazioni e kit di documentazione erano interminabili, anche se non si era costretti a passare la notte all’addiaccio per conquistarsi il tuo, come succede oggi. Il 7 agosto del 2002 notificarono al mio datore di lavoro la non concessione dei permessi, cosa che mi obbligò a fare ricorso.
Passati tre anni di permanenza in Spagna, tempo sufficiente per richiedere il certificato di residenza per arraigo, cioè per radicamento nel paese, decisi di contattare una donna avvocato. Mi assicurò che tutto si sarebbe risolto celermente e che per la fine dell’anno avrei potuto viaggiare tranquillamente in Ecuador e, altrettanto tranquillamente rientrare in Spagna, perché munita di regolari documenti di residenza.
Ero piena di entusiasmo e illusioni quando, come una doccia fredda, mi notificarono che avrei dovuto giustificare l’arraigo, comunicando i dati dei familiari (genitori, coniuge, figli) presenti in Spagna. Tutte le mie speranze crollarono di botto, visto che, non vivendo con me nessun membro della mia famiglia, ero impossibilitata a dare risposta alle richieste dell’Ufficio immigrazione. Tempo, fatica e soldi sprecati inutilmente.
Riassumere in poche righe il mio cammino nei labirinti della burocrazia spagnola non è impresa facile. È una storia lunga, fatta di grandi illusioni e tante repentine delusioni, di lunghe code davanti agli sportelli degli uffici competenti, di ritardi burocratici e inspiegabili «silenzi» amministrativi. A volte io stessa ho commesso errori, che sarebbero stati evitabili con una maggior informazione e conoscenza del sistema giuridico spagnolo. Ma la delusione più cocente la ebbi quando l’ennesimo iter burocratico fu interrotto bruscamente a causa della situazione fiscale irregolare del mio datore di lavoro. Che beffa arrivare a toccare il cielo con un dito per poi vederselo portar via all’ultimo istante.
Grazie a nuovi datori di lavoro e all’esperienza acquisita, sono riuscita a consegnare a tempo tutti i documenti necessari: ora attendo fiduciosa di ottenere, finalmente, i tanto agognati permessi di lavoro e residenza. Con questi documenti in mano mi si apriranno nuove prospettive, tra le quali anche la possibilità di tornare in Ecuador ad abbracciare, dopo sei anni, la mia famiglia.
Sicuramente esistono innumerevoli casi simili al mio. Personalmente, ringrazio il Signore di aver incontrato una donna avvocato capace di aiutarmi a conoscere i miei diritti e a muovermi con sicurezza nel mondo della burocrazia spagnola. La mia esperienza e il suo aiuto mi hanno anche aperto gli occhi e spinta a lottare per quello che sento essere un diritto di tutti; anche se c’è, e ci sarà sempre, qualcuno che pensa di avere il diritto di approfittarsi di altri, solo perché questi sono indifesi o fuori legge, essendo privi dei dovuti documenti.
UN SOGNO DALLE MILLE FACCE
Agli occhi del turista, Madrid si presenta come un intreccio logico di vie oate da palazzi chiari. Orientarsi è semplice, grazie all’ottima metropolitana che con le sue dodici linee urbane e i collegamenti ai frequenti treni interurbani, conduce da una parte all’altra della città in tempi brevi e a prezzi modici.
Signorine sorridenti all’ingresso della metropolitana consegnano foglietti su cui l’amministrazione comunale «si scusa per aver temporaneamente sospeso il servizio tra Plaza de Castilla e Fuencarral», sostituito da un servizio autobus, e le scritte sui cartelloni pubblicitari di quello spazio sotterraneo assicurano a ogni cittadino la possibilità di essere operato entro trenta giorni dalla domanda di ricovero. Incentivi all’imprenditoria giovanile e femminile vengono promessi dagli spot mandati in onda per tenere compagnia ai passeggeri in attesa, e facce di ogni colore si mischiano nel vieni e vai di una mappa che si muove e fa muovere a un ritmo intenso, ma per fortuna ancora umano: c’è sempre tempo per fermarsi a bere un paio di cervezas (non importa che ora del giorno sia, una birra si beve sempre volentieri), accompagnate da qualche tapas, spuntini di pane, prosciutto e salse.
Le vie sono invase da gente che transita, ma che spesso si ferma, si siede e chiacchiera godendo l’aria, mite o fredda che sia: a Madrid il conversare non è questione di stagione. I giovani si ritrovano la notte per le tradizionali bevute in mezzo alla strada, nelle piazze e per le scalinate, tirando fuori dai sacchetti di plastica innumerevoli bottiglie di tinto (vino rosso) e di cerveza.
Madrid è una città che invoglia a fermarsi, che offre teatri, cinema e musei a prezzi modici, e che ha il piacere di essere vissuta.
LA GRANDE CASA
Per molti latinoamericani rappresenta «el sueño», il sogno, la possibilità di riscattarsi. Scelta per motivi geografici e linguistici, soprattutto dopo le molte restrizioni che il governo statunitense ha posto all’immigrazione, la Spagna è diventata uno dei punti di maggior convoglio dei flussi migratori, provenienti in particolar modo dall’Ecuador.
Ben un terzo della popolazione dell’Ecuador è emigrata e attualmente l’economia del paese si basa per il 51% sulle rimesse che i residenti all’estero inviano ai familiari rimasti a casa. La lontananza comporta lo sviluppo di fenomeni particolari, ad esempio lo sfaldamento dei legami tra il migrante e la famiglia di origine (spesso «integrata» o addirittura sostituita con una nuova, creata nel paese di arrivo), o il diradamento della fascia dei trentenni-quarantenni, con conseguente distribuzione nella popolazione di vecchi e bambini.
Sono proprio i bambini a essere chiamati a gestire le rimesse di denaro inviate dai genitori lontani, che devono servire per il sostentamento, ma soprattutto per la «grande prova», per quel segno tangibile di sé che resisterà nel tempo: la costruzione di una casa. L’Ecuador è un paese pieno di case enormi in stile nord americano, con colonne bianche e porticato, costruite come prova di esistenze generate da lì, ma destinate a non tornare: case fantasma, incarnazioni di miti e nulla più.
A Madrid, gli immigrati che mandano soldi in Ecuador per costruire enormi case-fantasma, vivono stipati in piccoli appartamenti della periferia, condividendo in sette, otto, persino in dieci persone, spazi di settanta metri quadrati. Spesso sono i connazionali ad accogliere i nuovi venuti, con lo scopo di estorcere loro un affitto non compatibile con la bassa qualità della sistemazione offerta.
«El sueño» diventa la realtà quotidiana della sopravvivenza, delle difficoltà a trovare lavoro, permesso di soggiorno o la carta sanitaria. Diventa un atteggiamento di diffusione identitaria, che porta a due tipi di reazioni possibili: alla chiusura nella propria comunità di origine, con rafforzamento dei tratti culturali comuni, o al rifiuto degli stessi, con conseguente aderenza superficiale agli stili di vita del paese di arrivo.
Paulina viene da Quito, la capitale dell’Ecuador. Volò in Italia sei anni fa nella speranza di fermarsi nel Veneto ma, non trovando lavoro, fu costretta a tentare la carta della Spagna.
«El sueño» per lei si tradusse in un lavoro di pulizia a ore e in spazi di vita così ristretti da impedire l’intimità. Per Paulina imparare a orientarsi a Madrid non fu certo facile, così come richiese impegno abituarsi alle parole e ai modi di dire che condividono la madre lingua comune agli spagnoli e ai latini, ma non la coloritura culturale che si portano appresso.
Madrid vista con gli occhi di Paulina non è la città dei bei palazzi chiari, della cerveza e delle tapas. Non è la città dei musical, i cui biglietti, rapportati al suo stipendio, diventano proibitivi e persino un po’ offensivi. Non è la città della sanità che funziona e degli incentivi all’imprenditoria femminile: per Paulina Madrid è la coda infinita al Ministero del lavoro che quasi ogni settimana è costretta a fare, per sapere se la sua domanda di residenza è stata accettata o ancora una volta respinta.
Madrid è il negozietto vicino alla stazione, dove un colombiano amico suo importa prodotti latini di cui può riconoscere l’odore e il gusto. Madrid è il parco del Retiro, dove la domenica mattina incontra i connazionali che passeggiano con l’illusione di tranquillizzante omogeneità, è il call center dove telefonare a casa, a Quito, costa meno di un’interurbana a Siviglia.
Camminando accanto a Paulina per le strade di Madrid, si incontrano fiumi di occidentali che comprano un detersivo diverso per ogni tipo di sporco, mentre in Ecuador un sapone basta per tutto. Accanto ai cassonetti della spazzatura si vedono materassi dove ci si potrebbe dormire ancora per anni, e nei menù appesi fuori dai ristoranti si legge che la banale frittata di uova è diventata una ben più chic «tortilla francesa».
Le strade sono ostiche, piene di elementi da decifrare, riconoscere, inglobare nella ricerca di una ridefinizione di sé che fatica ad arrivare. È la nostalgia il sentimento dominante di Paulina. Il termine nostalgia deriva dalle parole greche nostos e algos, cioè «ritorno in patria» e «dolore, tristezza».
Introdotto nel ‘700 dal medico svizzero J. Hofer per indicare il sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalla loro patria, cioè una sorta di malattia, una vera e propria sofferenza per la sottrazione del paesaggio d’origine, la nostalgia è tanto più intensa quanto più è profondo il legame con i luoghi che hanno contribuito a strutturare l’identità individuale e sociale.
Come dice lo scrittore libanese Amin Maalouf, prima di diventare un immigrato, si è un emigrato, e prima di arrivare in un paese, si è dovuto abbandonae un altro: solo considerando i due lati della questione si capisce come i sentimenti di una persona verso la terra abbandonata non siano mai semplici.
Se si è partiti, vuol dire che si è rifiutato delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto si accompagni a un senso di colpa per la terra, la casa, le persone che ci si rimprovera di aver abbandonato; senso di colpa che spesso si accompagna alla nostalgia. In questi casi è importante che gli individui possano rivisitare i paesaggi interiori, grazie ai quali riscoprire le radici che permetteranno la ripresa del processo di crescita.
Paulina prova a cercarsi nelle lunghe passeggiate alla scoperta di Madrid, aprendosi al nuovo e allo stesso tempo imparando a non perdersi. Camminando mi racconta il suo sueño, quello nuovo: sentirsi a casa propria. E non importa in che parte del mondo.
RITROVARE LA STRADA
La strada è sempre stata un luogo tradizionale di incontro e di scambio. Quando si arriva in una nuova città o in un nuovo paese, le prime impressioni sono date dalla strada, che è un insieme di persone, mestieri, storie, oggetti, case, uffici, negozi, direzioni, mete, divieti di accesso, regole e pregiudizi. La strada racconta una storia che è sempre in movimento: l’architettura e l’urbanistica mostrano le origini, i cambiamenti, le evoluzioni, le involuzioni e rispondono a esigenze umane e sociali che non sono soltanto mere risposte a bisogni materiali, ma che rispecchiano soprattutto i mutamenti relazionali.
Il primo passo per conoscere un luogo è l’orientamento, cioè la progressiva acquisizione di dati e punti di riferimento, con cui «un luogo» è trasformato e diventa «il luogo». Le cornordinate spazio temporali prendono forma in base a esigenze personali e a vissuti di attaccamento e radicamento. Con il tempo e l’abitudine «quella» strada diventa «la» strada: la strada di casa, il tragitto per andare a lavorare, il percorso per arrivare al ritrovo di ogni sera… Questa acquisizione di senso permette il passaggio dal sentimento di estraneità all’appropriazione del territorio, dal sentirsi straniero al sentirsi «parte di».
In ogni città esistono luoghi tradizionali di ritrovo per chi «è appena arrivato»: la stazione, il parco, un certo quartiere, un punto di aggregazione religiosa…
I fenomeni migratori hanno disegnato nuove mappe possedute e vissute da chi, straniero, arrivava per necessità nelle grandi città.
Uno dei luoghi che maggiormente raccontano un paese è il mercato, dove si assiste alla circolazione non solo monetaria, ma anche di merci che rispondono a bisogni aggregativi. È sempre più facile incontrare banchi che vendono il tradizionale platano latino americano o le spezie arabe, segno di una sensibilità ai cambiamenti sociali, sia dal punto di vista della domanda e della risposta che della gestione economica, non più a esclusiva conduzione locale.
In alcuni strati sociali, specialmente in quelli più storicamente radicati nel territorio, la strada perde la caratteristica di luogo di incontro e diventa semplicemente luogo di transito, che fa paura per i possibili pericoli che nasconde o palesa, che stressa per i suoi ritmi frenetici, che separa dai rifugi privati, in cui la gente si chiude per stare «bene, al sicuro». In questo caso la domanda principale è quella della sicurezza: «Voglio essere sicuro che per la strada non mi succeda niente». Il tradizionale gioco del pallone, che ha cresciuto generazioni di bambini nelle strade di tutto il mondo, ora rischia di diventare un fatto privato da gestire in spazi ristretti o in luoghi predisposti.
Per chi non può o non vuole godere di «rifugi privati», la strada è ancora l’unica alternativa possibile. Essa è casa, espediente, sede di lavoro, risorsa di sopravvivenza e risposta ai bisogni. È «il gruppo», quella dimensione sociale e identitaria che permette di riconoscersi e di essere riconosciuti. Sulla strada si possono vedere i tentativi di adattarsi al nuovo ambiente, che si sposano con la necessità di ricostruire elementi che appartenevano alla propria terra di origine. La strada dà l’opportunità di riflettere sugli argini: le case, chi le abita, come vengono vissute.
Paulina Ceballos e Paola Cereda