SILENZIO! Il padrone ti ascolta
Alteando pugno di ferro e patealismo, il governo ha fatto di Singapore una delle più floride economie dell’Asia, a scapito di libertà politiche, valori sociali e ideali umani. Dietro lo scintillio dei grattacieli, si nascondono sacche di emarginazione, soprattutto tra gli immigrati, aiutati dalla chiesa cattolica e altre associazioni umanitarie.
Nella babele di lingue, culture e religioni, il governo cerca di costruire l’identità nazionale, usando anche le canzoni patriottiche.
Gli Annali Malesi del xvi secolo, raccontano che il governatore di Palembang, Sri Tri Buana, navigando nelle acque dell’attuale Stretto di Malacca, fu sorpreso da una tempesta, che lo costrinse a cercare rifugio su una piccola isola pressoché disabitata, chiamata dai cinesi Pu-luo-chang (isola alla fine della penisola). Qui, mentre aspettava che l’uragano si calmasse, il funzionario credette di aver avvistato, tra la fitta vegetazione, un leone, cosa alquanto rara, se non impossibile.
Si era nel xiii secolo e, da allora, i leoni nessuno più li ha visti. A dir la verità, anche il racconto degli Annali non sembra avere molta attinenza con la realtà; con tutta probabilità, l’animale che Sri Tri Buana intravide era forse un daino, un tapiro o anche una tigre, allora comune nella giungla tropicale.
La leggenda, però, non morì; anzi, il racconto del governatore divenne così popolare e affascinò talmente il sultano, che lui stesso decise di battezzare il minuscolo villaggio dell’isola di Pu-luo-chang col nome di Singha Pura, Città del Leone.
E fu a Singapura che sir Stamford Raffles, nel gennaio 1819 mise piede per fondare un avamposto commerciale per la Compagnia delle Indie Occidentali, dando inconsapevolmente il via a una delle più incredibili e stupefacenti storie di sviluppo economico del mondo.
BENESSERE SÌ, OPINIONI NO
Alteando, in perfetto stile confuciano, pugno di ferro e patealismo, Lee Kuan Yew è riuscito a compiere quello che la maggior parte degli osservatori politici avevano dichiarato impossibile a farsi: costruire una delle economie più floride dell’Asia (sviluppatasi il 6% nel 2005) e dove ogni cittadino, in media, guadagna più di un lavoratore del Regno Unito, a cui Singapore è appartenuta come colonia per più di un secolo.
I costi sociali che hanno permesso un tale sviluppo sono però stati assai pesanti: eliminazione di ogni opposizione intea, soppressione della libertà di stampa e di parola, perdita di valori e di ideali.
Turisti e uomini d’affari, sin dal loro arrivo all’aeroporto di Changi, vengono immersi in una città ovattata, in cui tutto è controllato e programmato. Sul pullman che mi porta dal terminal al centro, una targa scritta nelle quattro lingue ufficiali (mandarino, malay, tamil e inglese), informa che chiunque venga sorpreso a lordare la città, verrà multato e costretto a un periodo di servizi sociali obbligati.
Più severe sono le leggi che puniscono i possessori di droga, la cui pena prevede anche la morte. L’ultimo a essere stato impiccato è Nguyen Tuong Van, un venticinquenne australiano di origine vietnamita, ucciso il 2 dicembre 2005 perché trovato in possesso di 400 grammi di eroina.
Le regole ferree che controllano ogni aspetto della vita dei cittadini di Singapore vengono ridicolizzate con battute da parte degli stranieri. Mentre ceno al ristorante con Reiko, una giornalista che lavora presso un’importante agenzia di stampa giapponese, questa si mette a raccontare una barzelletta: «Un europeo, parlando con un russo, un bengalese e un singaporeano, si lamenta di quanti soldi occorrano per comprare del cibo a Singapore e chiede l’opinione dei suoi tre interlocutori. Il russo domanda: “Cosa sono i soldi?”. Il bengalese chiede: “Cosa è il cibo?”. E il singaporeano: ”Cosa è un’opinione?“».
Solo dal novembre 1990, con la volontaria consegna di Lee dei poteri di primo ministro al delfino Goh Chok Tong, il governo della città-stato, accortosi che la mancanza di libertà e di espressione alla fine si traduceva in perdita d’iniziativa e di inventiva in campo economico, ha ammorbidito la linea, permettendo timide critiche al suo operato.
La parentesi di Goh, però, sembra già essere tramontata, da quando alla poltrona di primo Ministro è salito Lee Hsien Loong, 54 anni, figlio di Lee Kuan Yew. Neppure il parziale flop delle elezioni generali dello scorso 6 maggio, sembra abbia scalfito la leadership di Lee: il Partito di azione popolare (Pap), al governo ininterrottamente dall’indipendenza, è calato dal 75% del 2001 al 67% attuale.
«Vista con gli occhi di un occidentale può sembrare che viviamo in una sorta di dittatura, e in effetti, in un certo senso, lo è. Ma è un dispotismo illuminato, accettato dalla maggior parte dei cittadini come controparte per la stabilità sociale ed economica» dice Liu Kuang-chou, proprietario di un negozio di computer al Raffles City. E come Liu molti altri suoi connazionali giustificano il rigore con cui il loro governo ha condotto la sua politica negli anni passati. Insomma, meglio vivere in una prigione sicura, che liberi ma insicuri.
EQUILIBRIO MULTIETNICO
Nella piccola città-stato, la molteplicità di lingue, etnie, religioni, volti, è la caratteristica che più risalta agli occhi di noi stranieri. I quattro milioni e mezzo di singaporeani si dividono essenzialmente tra cinesi (76%), malay (13,9%) e indiani (7,9%), ma ognuno di questi gruppi propone varianti linguistiche e religiose che spezzettano ulteriormente il mosaico sociale.
Nelle edicole, tra le strade, nei cinema, nei ristoranti, si mischia teochew, mandarino, inglese, hokkien, cantonese, malay, tamil, mentre le litanie buddiste, islamiche, taoiste, hindu e cristiane si intrecciano tra loro nei luoghi di culto. Ma l’equilibrio multietnico è tanto difficile a creare quanto facile a sbilanciare.
«Singapore è una società multietnica e non possiamo permettere che le diverse razze che la compongono lottino tra loro – afferma la suora canossiana Janet Wang, una delle persone più informate e impegnate sulla realtà del Paese -. Quello che tutti noi siamo riusciti a costruire, è qualcosa di meraviglioso: razze di diverse etnie, tradizioni, culture, religioni, lingue, si sono riunite e convivono pacificamente».
La paura di un equilibrio funambolico, ha però sclerotizzato il sistema, come arguisce Sinapan Samydorai, del Think Centre, un gruppo di studio che promuove il multipartitismo e una maggiore apertura politica: «Non è solo questione di libertà civili: il governo considera ogni cosa che può costare la stabilità del sistema sociale, politico ed economico come una minaccia per l’esistenza stessa di Singapore. Ha quindi sempre cercato di eliminare o sedare rivolte sociali e chi le fomentava. Per questo la gente ancora oggi ha paura di parlare. E un popolo che ha paura di parlare non è creativo. L’economia di Singapore risente di questa mancanza d’immaginazione».
IN DIFESA DEGLI SFRUTTATI
La fobia del comunismo e delle tensioni razziali, ha portato i leaders della nazione a sospettare di chiunque difendesse i diritti dei più deboli, giungendo nel 1989 ad accusare la chiesa cattolica stessa di essere portavoce di istanze marxiste.
«La chiesa di Singapore ha sempre lavorato con quelli che in Italia chiamate “sfruttati” – afferma suor Janet – e fino a che si limita a svolgere lavoro pastorale, non ha alcun problema, ma quando invade il campo della giustizia, del sociale, dei diritti, allora ecco che il governo si mette in allarme».
Non per questo, comunque, la chiesa locale ha rinunciato al suo impegno sociale, dimostrando anche ai governanti più scettici la validità dei suoi progetti e, soprattutto, guadagnandosi la loro fiducia. Lee Hsien Loong è stato educato in scuole cattoliche, mentre lo stesso ministro della Pubblica istruzione ha recentemente elogiato il lavoro svolto dalle scuole cristiane nel proporre alle nuove generazioni quei valori che colmino quel vuoto creato dall’eccessivo consumismo e materialismo.
Già, perché la Singapore più conosciuta, quella dei luccicanti centri commerciali e parchi di divertimento, ne cela un’altra meno pubblicizzata, ma non meno reale. Nelle zone più periferiche della città, i palazzoni dell’Housing Development Board nascondono sacche di povertà e di emarginazione che alimentano la crescente microcriminalità.
«Non siamo a livelli europei o nordamericani, ma anche qui a Singapore abbiamo le nostre bande giovanili, formate soprattutto da adolescenti che la società ha escluso, in parte per la crisi economica, in parte perché essi stessi hanno rifiutato le regole che venivano loro imposte» rivela suor Gerard del convento del Buon Pastore, che assiste i detenuti cattolici nella prigione di Changi.
La crisi economica del dopo 11 settembre, a Singapore si è ripercossa nel campo edilizio, un settore dove trovano occupazione la maggior parte dei lavoratori immigrati: una volta persa la fonte del loro reddito, essi acquisiscono automaticamente lo stato di illegalità. Per questi disoccupati particolarmente disagiati, le organizzazioni sociali, sia religiose che laiche, hanno istituito centri di ascolto e di aiuto che cercano, con ogni mezzo a loro disposizione, di ridare fiducia e sostentamento a chi è in condizioni di bisogno.
«Ma la paura di uscire allo scoperto, la mancanza di personale, di strutture e, non ultima, la differenza di credo, riducono di molto le potenzialità di questi progetti» mi confida Maya, una volontaria che lavora al Catholic Welfare Centre di Waterloo Street; e aggiunge che più dell’80% degli stranieri da loro assistiti è formato da lavoratori filippini di estrazione cattolica.
«La nostra speranza è quella di poter raggiungere anche gli immigrati indonesiani, bengalesi e pachistani, che a Singapore sono la parte più consistente dei lavoratori di manovalanza. Ma per coronare questo sogno sappiamo che dovranno passare ancora molti anni» conclude la ragazza.
CONTRO LA CRISI DI VALORI
Oggi l’80% dei reclusi è reo di aver commesso reati comuni come furti, scippi, traffico di droga. E se all’inizio il problema era circoscritto a singole persone che operavano per proprio conto, ora si è creata una rete malavitosa, che comprende anche bande di adolescenti emarginati.
«Il problema della delinquenza non è solo dovuto a mancanza di beni materiali; anzi, se mai è l’opposto – spiega suor Janet Wang -. La società è prosperata sulle basi del materialismo, portando a identificare il successo di una persona con la marca dell’abito o la macchina che possiede. Tutto questo ha mortificato la spiritualità e la morale umana, creando enormi scompensi etici. La crisi che stiamo attraversando non è solo materiale, ma è essenzialmente spirituale».
Lo stesso Lee Hsien Loong, dopo che suo padre ha spinto per anni i suoi connazionali a lavorare per la prosperità economica del paese, ha iniziato a chiamare a raccolta le associazioni di impegno sociale e umano, perché aiutino a ridare valori a una popolazione troppo protesa al successo e al profitto.
I piani del governo, comunque, non sono dettati solo da esigenze umanitarie: l’espulsione di migliaia di lavoratori clandestini, ha creato un’allarmante penuria di manodopera, che il governo non riusciva a colmare. I piani di sovvenzionamento sociale sono sufficienti per evitare che il 3,3% dei disoccupati venga improvvisamente emarginato e molti singaporeani senza lavoro rifiutano di coprire ruoli considerati «poco dignitosi».
TIGRI IN COMPETIZIONE
La competitività di Singapore è ancora elevata, nonostante gli alti costi di produzione, grazie al passaggio di Hong Kong alla Cina: molte delle compagnie inteazionali che avevano la loro sede asiatica nell’ex colonia britannica, hanno preferito trasferirsi a Singapore piuttosto che rischiare di incappare nelle maglie della burocrazia di Pechino.
«Singapore può ancora contare su una produzione di qualità eccellente, nettamente superiore a quella degli altri paesi della regione e questo lo rende ancora competitivo. Per il momento» spiega Chow Hung-t’u, della Camera del commercio cinese. La domanda, quindi è: quanto durerà questo momento?
La Malesia, ha già costruito la sua «Silicon Valley» nell’isola di Penang e molte aziende hanno cominciato a guardare alla vicina nazione con ingordigia.
In altri periodi, sotto la guida di Lee Kuan Yew, Singapore avrebbe risposto alla minaccia dei vicini con aggressività, utilizzando la sua esperienza e i legami con gli istituti finanziari a mo’ di artigli, non esitando a imprimere un’accelerata alla filosofia economica del laissez-faire che, assieme alla stabilità sociale e politica, è stata il leit motive della storia del paese sin dai tempi di Raffles.
Ma Singapore e l’economia mondiale devono fare i conti con nuove sfide: la globalizzazione ha rotto ogni schema, rendendo le economie dei singoli paesi interdipendenti l’una con l’altra. Inoltre al governo della piccola isola non c’è più il duro e dispotico Lee Kuan Yew, ma il più malleabile figlio. Il quale ha capito che il suo paese non avrebbe sostenuto, a lungo andare, il confronto con i giganti di cui è circondato. E allora, piuttosto di riproporre una sorta di konfrontasi economica, il governo ha preferito cercare un accordo che possa avvantaggiare tutti, sfruttando le migliori opportunità che Malesia, Indonesia e Singapore possono offrire al mercato.
Lo aveva già azzardato Goh Chong Tong: far nascere un «Triangolo di Crescita», un’area geografica che ha gli epigoni tra la città di Johor, in Malesia, Singapore e l’isola indonesiana di Bintan, la più settentrionale dell’Arcipelago delle Riau. Johor potrebbe offrire terreno per nuovi insediamenti industriali con regole ambientali meno ferree; l’Indonesia potrebbe coprire il fabbisogno di manodopera a basso costo e Singapore garantirebbe tecnologie, infrastrutture, collegamenti inteazionali di prim’ordine.
«Per ora il Triangolo di Crescita rimane solo sulla carta: l’instabilità politica indonesiana e la crescente islamizzazione della società malese, rappresentano sfide che nessun imprenditore di buon senso avrebbe il coraggio di affrontare» conclude Sinapan Samydorai.
E così, Singapore continua per la sua strada. Coraggiosamente, così come coraggiosamente il 9 agosto 1965 si era distaccato dalla Federazione Malese. Anche quel giorno, Singapore, se ne andò per la sua strada.
Sin dal giorno della sua indipendenza, avvenuta il 9 agosto 1965 con l’abbandono della Federazione Malese, il governo di Singapore ha profuso notevoli sforzi perché indiani, cinesi, malay, europei aventi passaporto della città-stato, ponessero in secondo piano la propria identità etnica per sentirsi tutti singaporeani. Una sfida improba che, forse, non raggiungerà mai una soluzione definitiva, anche se oggi l’80% della popolazione è nata dentro i confini dell’isola.
Nel 1991 il primo ministro Goh Chok Tong, conscio di tali difficoltà, affermava: «Fino a quando l’economia è in fase di crescita e c’è ricchezza per tutti, non penso che la gente abbia voglia di lottare per affermare la propria etnicità. Ma se non vi sarà sufficiente torta da spartire per tutti, allora ci troveremo di fronte al test decisivo per verificare se siamo davvero coesi e solidi».
Il governo deve quindi continuamente proporre nuovi spunti, affinché il trapianto del Dna della «singaporeanità» nei tre milioni di cittadini abbia successo. Una delle difficoltà maggiori riguarda il modo in cui è possibile raggiungere la sfera psichica di ogni singola persona; trovare cioè un linguaggio semplice e accessibile a tutti, quale che sia la razza, religione, grado di cultura, età.
Ecco allora affacciarsi la musica e le parole che, combinati assieme e diretti verso un fine ben preciso, riescono a far suscitare emozioni e sensazioni altrimenti impossibili ad altri mezzi.
Non è un caso che tutte le rivoluzioni siano accompagnate da canti che perpetuano la memoria di chi le ha vissute. E chi più di altri ha bisogno di una rivoluzione interiore, se non stati multietnici come Singapore?
Così il ministero della Comunicazione e dell’Informazione ha pubblicato una serie di motivi orecchiabili, elevandoli a titolo di Canzoni Nazionali e raggruppandole in un Cd dal titolo «Sing Singapore».
I testi, abilmente scritti in modo semplice, così da essere facilmente assimilati nella mente (e nel subconscio), sembrano avvalorare la fama di patealismo, a volte così ossessivo da sfociare quasi in una sorta di dittatura, che viene addossata al governo di Singapore:
«Caro pedone, quando scendi dal marciapiede
e attraversi la strada, segui le strisce zebrate,
rispetta i semafori» si canta in Road Safety for you.
Tale apprensione può essere vista da due angolazioni differenti: in segno positivo potrebbe rappresentare un particolare modo d’insegnamento del codice stradale; nell’accezione negativa potrebbe essere vista come una sorta di ossessivo controllo sul popolo.
Ma il vero obiettivo a cui mirano le Canzoni Nazionali rimane il senso della nazionalità. Nella canzone più nota e più trasmessa da radio e televisione, We are Singapore, la strofa più dirompente esclama:
«Noi, cittadini di Singapore
ci consideriamo come un popolo unito
a prescindere dalla razza, lingua o religione
per costruire una società democratica
basata sulla giustizia e l’eguaglianza…
Noi siamo Singapore, Singaporeani…
Singapore, per sempre una nazione forte e libera».
Durante la festa del Gioo dell’Indipendenza di quest’anno, migliaia di persone intonavano questa canzone, tenendosi per mano e sventolando bandierine bianche e rosse con la mezzaluna e cinque stelle. Uno spettacolo nello spettacolo, se non altro perché è una delle poche volte in cui ho visto cinesi, indiani, europei, malay mischiarsi, bere e mangiare assieme al di fuori dei luoghi di lavoro. Un ennesimo esempio, se ve n’era bisogno, di quanto sia difficile dimenticare le proprie origini e rivestirsi di nuovi abiti.
E nell’occasione del National Day ogni finestra degli appartamenti costruite dall’Housing Development Board, in cui abita l’80% della popolazione, ha esposta una bandiera singaporeana:
«C’è una nuova luna
che sorge dal mare in burrasca…
Ci sono cinque stelle
che sorgono dal mare in burrasca.
Ognuna è una fiaccola
che guida la nostra via…
C’è una nuova bandiera
che sta sorgendo dal mare in burrasca.
Rossa come il sangue
di tutto il genere umano,
ma anche bianca,
pura e libera» (Five Stars Arising).
Rossa, come il sangue di tutto il genere umano per accomunare tutte le razze in un’unica nazione.
È però anche vero che, contrariamente alle prospettive poco rosee lanciate dagli economisti all’indomani della separazione di Singapore dalla Federazione Malese, lo sviluppo che Lee Kuan Yew è riuscito a imprimere alla nazione, ha qualcosa di eclatante, di cui gli stessi abitanti possono andar fieri. E non esitano a rinfacciare a questi Soloni dell’epoca che predicevano un futuro di miserie, la loro prosperità attuale:
«C’era un tempo in cui la gente diceva
che Singapore
non sarebbe mai potuto essere
una nazione,
ma noi l’abbiamo resa una nazione.
C’era un tempo in cui i problemi
sembravano troppo grandi
per essere affrontati,
ma noi li abbiamo affrontati.
Abbiamo costruito una nazione forte e libera
raggiungendo insieme la pace e l’armonia.
Questo è il mio paese, questa è la mia bandiera,
questo è il mio futuro, questa è la mia vita,
questa è la mia famiglia,
questi sono i miei amici» (We Are Singapore).
Il paragone alla famiglia implica anche un impegno di ogni suo singolo componente, per far sì che la sua conduzione sia coronata da successo:
«Riconosci che devi giocare il tuo ruolo…
Sii preparato a dare qualcosa in più…
Per Singapore» (Stand up for Singapore).
Un passo in perfetto stile confuciano, dove ogni cittadino, o meglio, ogni componente della «famiglia Singapore» deve svolgere un compito ben preciso occupando un ruolo ben preciso nella ferrea gerarchia comunitaria,
«per mostrare al mondo cosa Singapore può essere…
Conta su di me, Singapore, conta su di me
per dare il mio meglio e ancora di più» (Count On Me Singapore).
Q uesta filosofia, tipica delle società asiatiche, ha trovato piena attuazione nella minuscola nazione, favorendo la trentennale permanenza al potere di un governante dispotico, ma che sa anche essere benevolo, come Lee Kuan Yew. Grazie alla sua guida «illuminata»,
«in Singapore puoi trovare felicità per tutti» (Singapore Town).
Ma questo benessere deve essere difeso sia dagli attacchi speculativi di operatori finanziari che tentano di assaltare l’economia di Singapore dall’esterno, sia da improbabili, ma non impossibili, attacchi militari dalle nazioni vicine. La «sindrome Kuwait» è assai viva tra il governo, che destina il 5% della finanziaria alle proprie forze armate, tra le meglio addestrate nella regione.
Ma i leaders sanno bene che il minuscolo territorio non potrà essere difeso a lungo in una guerra convenzionale; quindi, anche in caso di invasione dall’esterno,
«C’è una parte per ognuno
in questa terra a cui apparteniamo.
C’è una parte per ognuno e per tutto
per mantenere la pace che vogliamo.
Anche se non tutti con le armi,
per aiutare a difendere la nostra terra
dobbiamo far tutto quello che possiamo
insieme, mano nella mano…
Abbiamo marinai, aviatori,abbiamo soldati,
impavidi uomini addestrati e pronti…
Aiutali ad aiutare tutti noi»
(There’s a Part for Everyone).
Parole dure, sferzanti, che si spera non dovranno mai trovare impiego nella realtà. Già, perché alla fin fine la multietnicità che caratterizza Singapore può essere di esempio anche per gli stati europei che si trovano a fronteggiare, spesso con intolleranza e xenofobia, l’arrivo di rappresentanti di altre culture.
E si potrebbe terminare questa cartolina di Singapore in musica, con le strofe forse più significative di One People, One Nation, One Singapore:
«Abbiamo costruito una nazione con le nostre mani,
con la fatica di gente da una dozzina di terre.
Stranieri quando arrivammo,
ora noi siamo Singaporeani…
Un popolo, una nazione, un Singapore».
Piergiorgio Pescali