Ebrei del borgo rosso

Inviati dagli imperatori persiani, fin dal secolo vi,
a popolare le regioni orientali del Caucaso, gli ebrei si erano integrati negli usi e costumi degli altri abitanti, che i russi, arrivati all’inizio del xix secolo, chiamarono «ebrei della montagna». La fine del regime sovietico e libero mercato hanno rinfocolato la loro intraprendenza. Ma rimangono soggetti a paure e diffidenze, soprattutto da parte degli azeri musulmani, rimasti economicamente al palo.

Un tempo dovevano avere lo stesso aspetto dimesso i due insediamenti sulla riva destra e su quella sinistra del fiume. Il primo si chiama Quba, ed è abitato da azeri, l’altro Krasnaja Sloboda, ed è abitato da ebrei.
Sono arrivata a Quba in un sonnolento pomeriggio di sabato. Per strada pochi passanti e ancora meno macchine. Ho cercato invano un luogo di ritrovo, una piazza centrale dove ci fosse un po’ d’animazione. Non ho visto che case basse, a un piano, massimo due, per lo più in cattivo stato, e vie silenziose. Tanto valeva andare subito dall’altra parte del fiume, a Krasnaja Sloboda: quella era la meta, il vero motivo per cui ero giunta fin lì, a quattro ore di autobus da Baku.
La cittadina azera, difatti, non presenta particolari motivi di attrazione, ma un paese abitato esclusivamente da ebrei in un territorio musulmano e turco, ebbene, quella è cosa più unica che rara. Così ho attraversato il piccolo parco cittadino e sono scesa per l’ampia scalinata, costeggiata da statue argentee di atleti e atlete palestrati – un commovente kitsch sovietico – che porta al ponte pedonale di collegamento tra le due sponde del fiume.
Prima ancora che mi si spalancasse alla vista, tuttavia, ho avuto del luogo dove ero diretta una percezione sonora. Da dietro gli alberi del parco ho sentito a un certo punto un diffuso picchiar di martelli provenire proprio da quella parte. Lo sguardo, invece, è stato subito attratto dalla mole squadrata di un edificio che, primo ad accogliere il pedone al di là del ponte, con le sue sgraziate dimensioni nasconde alla vista un bel pezzo di paese.
Una volta lasciatolo alle spalle, mi sono trovata all’imbocco della strada principale del paese e ho finalmente scoperto perché i martelli non cessavano di picchiare. L’intera via era costellata di cantieri; ad una ad una le modeste case a un piano vengono sostituite da palazzine di due, tre piani, dall’aspetto solido e pretenzioso, tutte coicioni, architravi, colonnine e torrette. Ne ho subito riconosciuto lo stile: quello dei nuovi palazzi di Mosca, che l’occhio vede crescere in grandezza e numero senza mai abituarsi; uno stile che pare voler dire: «Guardatemi, quanto sono potente e quanto valgo».
Ma qui perché questa ostentazione d’arte architettonica?

Qui vive la più grande comunità di «ebrei di montagna»: così furono chiamati dai russi questi ebrei, che parlano un dialetto persiano e che nelle abitudini e nell’aspetto non si distinguono in nulla dagli altri abitatori del Caucaso. Sulla loro origine circolano le ipotesi più disparate, alcune decisamente leggendarie, come quella che vi vedrebbe le perdute tribù d’Israele, o l’altra che li farebbe un resto del popolo turco dei khazari, che occuparono il Daghestan nei secoli vi-x e che avevano il giudaismo come religione di stato.
Secondo un’altra tradizione sarebbero un ramo degli ebrei di Babilonia. Tuttavia, l’ipotesi più accreditata è che siano i discendenti degli ebrei persiani, mandati dai Sasanidi nel vi secolo a popolare il Caucaso orientale, estrema periferia del loro impero e regione di grande importanza strategica. Quel primo nucleo avrebbe poi raccolto nel corso dei secoli flussi migratori di ebrei provenienti sempre dalla Persia, soprattutto dalla regione caspica del Gilan, e da altre parti del Caucaso.
Non si sa quante migliaia di «ebrei di montagna» vivessero nel territorio degli attuali Azerbaigian e Daghestan, quando i russi vi arrivarono all’inizio del xix secolo. Un volonteroso ricercatore ne contò circa 21 mila nel 1888, di cui 6 mila solo a Evrejskaja Sloboda, il Borgo Ebraico, diventato Rosso, Krasnaja, dopo la rivoluzione del 1917.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso erano, secondo stime approssimative, 50-52 mila. Con la perestrojka, però, molti cominciarono a trasferirsi in Israele, in America, o in Germania. Ve ne sono tuttora dei nuclei a Mosca e in altre città della Russia e c’è anche una grossa comunità a Baku.
Con la fine dell’Urss e l’introduzione del libero mercato, hanno avuto modo di manifestare appieno il proprio spirito imprenditoriale, si sono dati al commercio su larga scala; e le cose devono andare abbastanza bene, a giudicare dalle palazzine che stanno sorgendo nel «Borgo Rosso».

Nonostante l’alacre attività che si sospettava nei cantieri, sebbene fosse sabato, giorno del riposo (che fossero muratori azeri?), per strada di passanti ce n’erano pochi; così per scambiare due parole ho pensato di andare alla chaikhane, dove gli uomini si trovano a bere il tè, chai, a fumare, o a giocare a nardi, una sorta di dama mediorientale.
Gli avventori erano per lo più signori anziani; uno di loro, che nel frattempo aveva fatto arrivare al mio tavolo una teiera bollente, mi ha spiegato che tanti giovani del paese sono in giro per il mondo; i suoi figli, ad esempio, vivono a New York, lui, però, non ha nessuna voglia di lasciare la sua casa per raggiungerli.
Eravamo ormai al tramonto, ma nessuno degli avventori pareva intenzionato ad andare alla funzione del sabato sera; io, invece, avrei voluto assistervi, così ho chiesto al mio ospite di indicarmi la strada per la sinagoga.
L’ho visto imbarazzato. «Nel Borgo ce ne sono sette, mi ha spiegato, ma solo una è aperta e non la più interessante». Ci potevo andare, naturalmente, ma poi mi consigliava di fare un salto a una delle due feste di matrimonio che si preparavano per la serata. Come straniera avrei dovuto considerarmi invitata. Sarebbero state feste ricche, con molti invitati provenienti da ogni parte e cantanti azeri fatti venire apposta da Baku. Era chiaro che, a suo avviso, quella parte della serata sarebbe stata per me di maggiore interesse.
Mentre seguivo le indicazioni per l’unica sinagoga aperta, sono riuscita a individuae altre due, alquanto decrepite. Un tempo a Krasnaja Sloboda le sinagoghe erano 11 – ogni quartiere ne aveva almeno una – tanto da meritare al paese l’appellativo di «Gerusalemme del Caucaso». Poi erano venuti gli anni dell’ateismo di stato: qualche sinagoga fu abbattuta, le altre andarono in rovina o furono adibite ad altri usi. Ora, con la libertà di culto e la nuova prosperità economica della comunità, le cose sono migliorate e si è provveduto a restaurae qualcuna. Gli ebrei del Borgo, tuttavia, non sembrano brillare per zelo religioso.

Davanti alla sinagoga ho trovato solo un gruppetto di uomini in attesa della funzione. Io ero l’unica donna. Siccome alle donne non è consentito pregare assieme agli uomini, per farle in qualche modo partecipare alla funzione la fantasia degli architetti locali ha escogitato un sistema ingegnoso: la stanza loro riservata ha una finestra che dà su un corridoio di separazione, proprio in corrispondenza di un’altra finestra che dà sul locale principale. Grazie a questo gioco di finestre le donne possono seguire la preghiera.
Mi è stato detto che mi sarei potuta fermare nel corridoio, così da vedere meglio. Ne ho approfittato per guardare alcune fotografie lì appese, che documentavano i buoni rapporti della comunità con le autorità azerbaigiane: visite ufficiali di alti funzionari di Baku alla sinagoga e, viceversa, di notabili ebrei ai funzionari di Baku.
Al calar del sole i fedeli sono entrati, togliendosi le scarpe come in una moschea, e la funzione ha avuto inizio. Dal mio punto d’osservazione ho visto gli uomini muoversi al canto della preghiera, passarsi il Libro per leggerlo a tuo, e inchinarsi ai rotoli della Torah, esposti a occidente.
È per questo motivo, oltre che per le differenze nel rito e nelle parole delle preghiere, che quando gli ebrei europei cominciarono ad arrivare nel Caucaso, a seguito della conquista russa, non si mischiarono ai loro fratelli «di montagna», ma si costruirono sinagoghe separate.
Nel quartiere ebraico di Baku i templi delle due comunità si trovano in due vie adiacenti, orientati rigorosamente in direzioni opposte. Il diverso orientamento fa memoria delle diverse direzioni prese dalla diaspora ebraica. Coloro che andarono a occidente rivolsero le loro sinagoghe a est, dove avevano lasciato Gerusalemme, e il contrario fecero coloro che andarono a oriente.
Tra le due comunità non c’era molta simpatia. Gli «europei» snobbavano i «montanari», che quasi non si distinguevano tra la massa degli «incolti asiatici»; questi ricambiavano la diffidenza dei correligionari europei e sembravano trovarsi più a loro agio con i vicini musulmani, con i quali, fuorché la fede, condividevano tutto, perfino l’architettura dei loro luoghi di culto.
Me ne sarei resa conto il giorno dopo andando a spasso per Quba. Per un attimo, nel passare accanto a una moschea di quartiere, ho creduto di aver trovato un’altra sinagoga: la stessa forma a casetta bassa, la stessa torretta sul cucuzzolo. Solo che, a ben guardare, al posto della stella di David, appariva una discreta mezzaluna.

Quando sono uscita dalla sinagoga già imbruniva. Ora in strada c’era animazione. Il martellare era cessato, in compenso si sentivano le note di un’orchestra.
Mi sono ricordata dei due ricchi matrimoni e anche, chissà perché, che non avevo pranzato. Avevo una gran voglia di mettere qualcosa sotto i denti, ma, con i due banchetti di nozze in pieno svolgimento nei due unici ristoranti del paese, non sarebbe stata cosa facile.
Sono tornata un po’ delusa verso il ponte e mi si è nuovamente parato davanti lo sgraziato edificio che avevo notato all’inizio. Era uno dei ristoranti. Al primo piano, dietro il parapetto dell’enorme terrazza coperta, si vedeva un pullulare di teste, in un angolo s’intuiva la presenza dei musicisti, davanti a loro emergevano i mezzibusti dei cantanti.
Non mi aveva un signore per strada appena confermato che avrei dovuto considerarmi invitata alla festa? Così ho fatto un timido tentativo di avvicinarmi alle scale, ma l’ingresso era guardato da due solidi ragazzotti in giacca e cravatta, che non avevano un’aria incoraggiante.
Lì, sul ponte, tra gli sfaccendati venuti a guardare da lontano la festa, ho riconosciuto alcuni ragazzi che avevo visto in sinagoga. Sono stati loro a ridarmi speranza. Esattamente dall’altro capo del ponte, nascosto tra il verde della riva c’era un ristorantino. Si sono offerti di accompagnarmi, perché conoscevano bene il padrone, un azero piccolo e mite, e gli avrebbero detto di trattarmi bene. Nell’attesa che arrivasse la mia cena si sono trattenuti a chiacchierare con me, poi si sono dileguati, nonostante il mio invito a restare. Non volevano disturbarmi mentre mangiavo.

Rimasta sola, mi sono messa a riflettere sul caso singolare di quelle due comunità che da secoli si guardano da una sponda all’altra del fiume. Come in tutto il mondo islamico, anche nel Caucaso gli ebrei non avevano gli stessi diritti dei musulmani, erano soggetti a maggiori obblighi e tasse.
Tuttavia, la loro posizione era qui migliore che altrove. Veniva loro perfino riconosciuto il diritto di portare il pugnale, accessorio indispensabile dell’abbigliamento di un montanaro. Il pugnale nel Caucaso non era solo un’arma, aveva anche un valore simbolico, perché era lo strumento con cui si stipulava un patto di sangue tra due membri di clan diversi; in questo modo si diventava fratelli per elezione, pur non essendolo per nascita, e ci si impegnava a comportarsi in tutto e per tutto come i figli di un’unica madre. Ci furono casi in cui un simile patto unì musulmani ed ebrei. Ma ciò avvenivano soprattutto nei villaggi sparsi tra i monti.
A Evrejskaja Sloboda, ai piedi delle montagne, il rapporto con i vicini turchi era, invece, piuttosto freddo. Gli ebrei avevano potuto insediarsi in quel luogo solo per volere del Khan di Quba, che intorno al 1730 aveva loro concesso un lembo di terra su cui costruirvi il villaggio. Non avevano diritto di occupare i terreni circostanti, motivo per cui, con l’arrivo di nuove famiglie e il crescere della comunità, le case si erano sempre più infittite.
Raramente gli ebrei si arrischiavano ad andare sulla riva opposta, per paura di essere aggrediti o derubati. È significativo che il ponte sia stato costruito solo nell’Ottocento e che, anche in seguito, il traffico tra le due sponde fosse minimo.
Ora, però, i destini delle due comunità sembravano invertirsi: grazie alle doti nel commercio dimostrate dai suoi abitanti, Krasnaja Sloboda prosperava, le case crescevano in altezza, la via principale era appena stata riasfaltata, e le numerose auto vi correvano senza fare la gimcana tra le buche, o sobbalzare sui grossolani rattoppi del fondo stradale.
Speriamo, mi dicevo, che tutta quella mostra di ricchezza non susciti cattivi sentimenti nei vicini azeri, evidentemente non così abili nell’adattarsi ai nuovi tempi.
In Azerbaigian la ricchezza che viene dal petrolio si vede solo in centro a Baku, non arriva neanche alla periferia della capitale, figuriamoci a Quba. Qui, non diversamente che in tante altre parti dell’ex Urss, bisogna conoscere l’arte di arrangiarsi, oppure avere parenti all’estero che mandano di tanto in tanto un po’ di valuta pregiata. Se non si hanno né l’uno, né gli altri, la vita è grama. Speriamo, dunque, che la miseria non sia cattiva consigliera.
Questo pensavo, mentre le note delle canzoni azere mi giungevano da oltre il fiume, così come qualche ora prima il picchiettio dei martelli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra

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