Che fare quando non si può più arginare la malattia o farla regredire?
In questi casi (in rapida crescita) occorre cercare di controllare i sintomi
e di ridurre la percezione del dolore.
«Nella medicina modea – scrive Giovanni Paolo II – vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette cure palliative, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano» (Evangelium vitae, n.65). Nell’assistere il paziente può giungere il momento in cui dal punto di vista terapeutico non si può più arginare la malattia o farla regredire, e in questa situazione ogni intervento rischia di essere eccessivo, non proporzionato.
Però la medicina anche in queste situazioni ha ancora delle risorse da impiegare e pertanto ha l’obbligo di ricorrervi, nei limiti del possibile, con atti non più rivolti esclusivamente alla guarigione e al prolungamento della vita, ma come un dovere nei confronti del paziente e della sua dignità.
Di fronte a un certo concetto della medicina che in questi casi afferma di non poter fare più nulla, si è fatto riferimento al termine latino pallium, cioè «mantello», volendo significare che anche in questa fase occorre «avvolgere» il malato di tutto l’amore, l’accompagnamento e la cura necessaria.
COSA SONO
LE CURE PALLIATIVE?
Per cure palliative si intendono pertanto quei trattamenti a favore di pazienti affetti da malattia ritenuta inguaribile, finalizzati al controllo dei sintomi più che della patologia di base, per mezzo dell’applicazione di procedure che consentano una migliore qualità di vita per chi soffre.
Secondo i dati registrati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel prossimo futuro sarà sempre più impellente la necessità del ricorso a queste cure, proprio a causa della notevole incidenza di mortalità da cancro (circa 7 milioni di persone all’anno che in previsione verranno raddoppiati), da Aids, da malattie degenerative del sistema nervoso, come la sclerosi multipla e il morbo di Alzheimer.
L’Oms già nel 1990 ne ha dato la seguente definizione: «Le cure palliative sono la continua, attiva, integrale cura del paziente e dei suoi cari ad opera di un team interdisciplinare. L’obiettivo primario delle cure palliative è la più elevata qualità di vita del paziente così come per i suoi cari. Il paziente viene curato da un partner responsabile. La cura palliativa risponde ad esigenze spirituali ed essa dovrebbe estendere questi supporti».
Si può perciò affermare che si tratta di una «cura integrale», che abbraccia cioè tutte le dimensioni (fisica, psichica e spirituale) del malato.
L’équipe deve quindi essere obbligatoriamente multidisciplinare, composta cioè da medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, sacerdoti o operatori pastorali, ma anche volontari. Tutte le figure professionali coinvolte lavorano in sinergia tra loro, si alternano, cercando di venire incontro alle molteplici, articolate e sempre nuove necessità del sofferente.
L’ESPERIENZA
DEGLI «HOSPICES»
L’organizzazione di tali attività avviene sia in strutture specialistiche chiamate «hospices», sia in reparti ospedalieri, sia infine in ambito domiciliare. La promotrice di questa autentica svolta del pensiero medico moderno è stata Cecily Saunders, la quale, prima infermiera e poi medico, nel 1967 poté aprire il St. Christopher’s Hospice a Londra come luogo di cura incentrato sull’assistenza dei malati terminali. L’idea di questo hospice si è rivelata vincente diffondendosi prima negli Usa e poi in Europa.
Importante è stata infine la costituzione di un vero e proprio «Movimento Hospice», differenziato a seconda dei paesi e delle connotazioni religiose. L’obiettivo è l’evoluzione del concetto di «cura palliativa», che ha sviluppato un intento formativo per affrontare la grande tematica della sofferenza e della morte in corsi per operatori sanitari e volontari, nonché la gestione di «unità palliative», sia come strutture simil-ospedaliere che come team operativi, anche in cooperazione con i servizi sanitari nazionali.
A conferma del successo di queste iniziative, negli ultimi anni è stata fondata la «Società europea di cure palliative», che raccoglie le già esistenti società nei diversi paesi del continente.
In Italia, dopo un primo periodo di sospetto nei confronti degli hospices si è avuta una diffusione di questo tipo di medicina, sia a livello ospedaliero, sia a livello domiciliare.
LA TERAPIA DEL DOLORE
Oggi le cure palliative comprendono principalmente:
• la terapia oncologica, cioè l’insieme delle applicazioni delle classiche terapie oncologiche (chirurgia, radioterapia, chemioterapia) destinate a pazienti in cui si ricerca il controllo dei sintomi;
• le cure di supporto, cioè l’uso di analgesici al fine di ridurre o abolire la percezione del dolore; la valutazione nutrizionale e la regolazione idro-elettrolitica; il trattamento delle infezioni opportunistiche; le procedure fisioterapiche di riabilitazione; il sostegno psicologico a cui spetta un posto di particolare rilievo sia per il paziente che per i familiari; la sorveglianza psicologica della équipe degli operatori sanitari, che in questa delicata fase della malattia cronica è fondamentale per l’ottimizzazione terapeutica.
Il controllo del dolore e degli altri sintomi associati, quali la nausea, il vomito, l’astenia, nonché dei problemi psicologici, sociali e spirituali rappresentano comunque il punto focale delle cure palliative, il cui obiettivo primario è quello di garantire la migliore qualità di vita possibile al paziente.
Le cure palliative affermano il valore della vita, considerano la morte come un evento naturale, offrono un sistema di supporto per aiutare il malato a vivere dignitosamente e la famiglia a convivere prima con la malattia e poi con il lutto.
L’etica medica impone di valorizzare le cure palliative. Esse si pongono tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. Costituiscono la cosiddetta «terza via» da perseguire in modo privilegiato con i malati terminali o comunque cronici. L’impossibilità della guarigione non deve far desistere dalla volontà di curare. Tuttavia, da una medicina ai confini della vita non possono che scaturire inevitabilmente molteplici problematiche bioetiche di non sempre univoca interpretazione e risoluzione.
ESISTONO DEI LIMITI?
I problemi di fondo riguardano da un lato la terapia antalgica, che mira ad eliminare il dolore fisico, percepito come inaccettabile e lesivo della dignità; dall’altro lato vi è lo sforzo di aiutare il malato a trovare un senso alla sofferenza e alla morte.
Le questioni morali inducono a considerare il morente non soltanto dal punto di vista delle sue condizioni fisiche, ma anche come persona con esigenze psicologiche, spirituali e religiose; una prospettiva che non può che rendere maggiore l’attenzione e la capacità di aiuto nei confronti di chi si trova al termine della vita.
In tale contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai vari tipi di analgesici e sedativi per alleviare il dolore, quando ciò comporta il rischio di accelerare la morte. Se infatti può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità, tale comportamento non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali». In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Non si può parlare quindi di eutanasia attiva, ma di una cura appropriata e proporzionata ad un quadro clinico grave ed irreversibile.
Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo»: avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto «devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio».
LA NUTRIZIONE E L’IDRATAZIONE
La questione nodale consiste in questo: è sempre necessario nutrire ed idratare il paziente terminale? Da un lato l’alimentazione fa parte dell’assistenza cosiddetta ordinaria, però in un morente la necessità e il desiderio di alimentarsi diminuisce gradualmente fino ad annullarsi.
Il problema è perciò quello della nutrizione e dell’idratazione artificiale, che di per sé è una terapia e richiederebbe pertanto il consenso informato. A tal proposito la «Carta degli operatori sanitari» afferma: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia».
La questione oggi è più che mai dibattuta e rimane aperta, prestandosi a diverse interpretazioni, come ha dimostrato il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti.
L’Organizzazione mondiale della sanità, in un documento-manuale del 1998 ha ribadito: «La nutrizione intravenosa è controindicata nei pazienti terminali. Non migliora l’aumento ponderale e non prolunga la vita. La nutrizione enterale ha un ruolo molto limitato nella malattia terminale. Dovrebbe essere usata solo nei pazienti che ne hanno un chiaro beneficio. La nutrizione artificiale non dovrebbe essere usata nei pazienti moribondi». In tali casi si può parlare, non impropriamente, di accanimento terapeutico.
IL DIRITTO ALL’INFORMAZIONE
Una problematica specifica è rappresentata dalla questione se, e in che modo, si deve dire al paziente la verità riguardo alla diagnosi e alla prognosi.
«C’è un diritto della persona ad essere informata sul proprio stato di vita. Questo diritto non viene meno in presenza di diagnosi e prognosi di malattia che porta alla morte, ma trova ulteriori motivazioni» (Carta degli operatori sanitari n.125).
In passato, soprattutto nei paesi latini, si era portati a non dire la verità o a dirla non completamente, per non privare il malato della speranza di guarigione. Oggi invece, mutando il contesto socio-culturale, si è maggiormente propensi a comunicarla, pur valutando attentamente ogni singolo caso.
La sensibilità dell’operatore sanitario e la sua capacità di comunicare e di relazionarsi con il malato ed i suoi cari rappresenta forse la risposta più convincente per risolvere questo eterno dilemma.
Le cure palliative costituiscono un’espressione profonda nel percorso di umanizzazione della medicina, come una risposta alla richiesta drammatica e sempre crescente di eutanasia, che non è altro che sintomo di una società in cui si rimane soli davanti alle domande angoscianti sulla morte e di una scienza non solo troppo tecnologica e avulsa dai veri problemi del malato, ma anche assolutamente priva di autentica relazionalità umana.
L’eutanasia legalizzata è un sistema per sfuggire all’approccio delle cure palliative, che richiedono mezzi economici, personale specializzato, tempo e formazione adeguata. È un modo per non riconoscere che la vita del malato ha un valore fino all’ultimo istante, se sorretta da una presenza umana, motivata, preparata e solidale.
In netta contrapposizione con ogni atto deliberato del medico volto a porre immediatamente fine a una vita, le cure palliative possono aiutare realmente a migliorare le condizioni dei morenti e, alleviando le loro sofferenze, portare ad una drastica riduzione delle richieste di eutanasia.
A tal proposito, l’«Istituto dei tumori» di Milano ha condotto recentemente un’indagine sui malati terminali, che ha evidenziato come dopo un’adeguata terapia antalgica, dalle iniziali 996 richieste di eutanasia, si è passati a cinque sole richieste.
Di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte gli operatori devono essere tutti maggiormente impegnati non solo a garantire «fredde» soluzioni tecniche, ma anche ad instaurare un approfondito rapporto con il malato e con chi lo circonda. È un compito sicuramente gravoso, emotivamente stressante, ma che ripresenta tutto il fascino dell’originario modo di far medicina, che è saper di nuovo stare vicino a chi soffre per lenire il dolore, con tutto il bagaglio tecnico delle più aggiornate conoscenze, ma anche e soprattutto con una piena, ampia e cristiana partecipazione umana.
«Molto spesso – ha scritto Cecily Saunders – si può tradurre la domanda “fatemi morire” con “alleviate il mio dolore e ascoltatemi”. Se soddisfate questi due bisogni, la domanda in genere non sarà ripetuta».
Enrico Larghero