A quarant’anni
dalla morte del prete «guerrigliero» colombiano Camillo Torres, la
chiesa continua a predicare l’astensione da ogni tipo di violenza, ma
non quella dall’impegno sociale, per la giustizia e la pace. La storia
di Giacinto (Jacinto) Franzoi, missionario della Consolata in Colombia,
incarna questo secondo cammino.
Nato a Trento nel 1943, in pieno conflitto mondiale, padre Giacinto Franzoi si definisce un «figlio della guerra». L’esperienza della fame, la grande povertà, la prematura scomparsa della madre e la dura esperienza del dopoguerra lo hanno forgiato, lasciandogli un carattere ribelle e un atteggiamento da leader nato, tratti che ancora oggi lo accompagnano e contraddistinguono.
La sua storia di missionario comincia da giovanissimo, quando suo padre lo fece entrare nel seminario della Consolata, l’unico modo che aveva per potergli offrire un’istruzione decente. Lì, ebbe modo di incontrare amici, ma anche di dover fare i conti con la disciplina che l’istituzione imponeva. Nonostante le difficoltà, l’unico momento di crisi che ricorda di quel periodo fu quando, in pieno noviziato, stava per cedere alle sirene di due importanti squadre di calcio, ben impressionate dalle sue gambe atletiche poste al servizio della squadretta dei missionari. Ma più del football poté la missione…
Nel 1978, venne inviato in Colombia, a Cartagena del Chairá, una piccola cittadina adagiata sulla riva del fiume Caguán, nella provincia meridionale del Caquetá. Del viaggio di andata gli sono rimasti ben impressi nella mente i 45 giorni di mare e l’improvvisa notizia della morte di suo padre, che lo colse nel bel mezzo della traversata atlantica. Dovette ricacciare indietro la tentazione di ritornare per poter andare a benedire la tomba del suo vecchio e tirò dritto per il suo cammino. Fu su quella nave che iniziò a scrivere il diario, un racconto che lo accompagnerà per anni e verrà pubblicato tempo dopo con il titolo: «Dio e coca».
«Arrivavo nel Caguán carico di tutto quanto avevo letto sulla teologia della liberazione: molti sogni albergavano nel mio spirito che è sempre stato un po’ rivoluzionario. Sul posto mi incontrai con rivoluzionari di altro tipo: i guerriglieri. L’incontro, devo ammettere, fu alquanto deludente: trovai una guerriglia che non aveva sostanza e aveva perso tutta la sua carica profetica», commenta al riguardo padre Giacinto.
UN’AMARA LEZIONE
I libri non avevano potuto prepararlo in anticipo su quanto avrebbe incontrato in quelle terre: la coca e la guerra. L’amaro apprendistato con la guerra iniziò immediatamente dopo il suo arrivo, quando le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia, il principale movimento guerrigliero colombiano, ndr) assassinarono due catechisti della parrocchia. Il sacerdote ricorda così quest’avvenimento: «Li crivellarono di colpi mentre andavano a cavallo e mi toccò seppellirli. La guerriglia non ha mai potuto sopportare chiunque avesse una posizione di preminenza all’interno della comunità. Come sempre accade quando c’è un funerale fra la nostra gente il cimitero era stracolmo di persone venute a dare l’estremo saluto a questi due concittadini. E lì – non potevo credere ai miei occhi – mischiati fra la gente c’erano anche i loro assassini. Scelsi il brano di Caino e Abele, dove si dice che l’assassino non deve essere perseguitato dagli uomini perché ha già ricevuto il proprio castigo: andrà per il deserto come un serpente, carico del rimorso per la sua colpa. Pare, però, che alla gente del nostro tempo queste parole suonino come leggende vuote che non provocano nessuna reazione».
Quasi per par condicio, la seconda amara lezione la ricevette pochi mesi dopo dall’ esercito governativo, che stava facendo operazioni militari nella zona. Arrivarono in forze, portando cadaveri di guerriglieri che pendevano appesi ad un elicottero; li lasciarono cadere dall’alto nella piazza centrale del paese. «Fu un vero e proprio insulto alla decenza», ricorda con rabbia padre Giacinto. Insieme a un funzionario del comune di Cartagena si recò immediatamente a reclamare i corpi dei guerriglieri morti per poter dar loro sepoltura, ma i soldati presero tempo, e non vollero procedere alla consegna dei cadaveri. Passò la notte e, al mattino successivo, i corpi erano scomparsi. «Mi dissero che erano dei banditi e che non meritavano nessuna sepoltura. Questa frase mi offese moltissimo. Nell’antichità si usava trattare con pietà il corpo di un nemico morto. Si rendeva onore al cadavere. Questa guerra, però, non sa neppure che cosa significa la parola onore».
Padre Giacinto non si arrese e continuò a cercare con determinazione nei campi intorno al paese, fino a quando, dopo tre giorni, scovò la traccia delle fosse scavate di fresco nel terreno del vecchio aeroporto di Cartagena. Giacinto, che non è solito «mandarle a dire» a qualcuno, non risparmiò una battuta ai militari che continuavano a seguirlo come ombre: «Andate a dire al presidente Turbay che il prete di Cartagena del Chairá è stufo di essere angariato e preso in giro. Perché l’esercito colombiano deve uccidere due volte i propri nemici?».
Giacinto fece ritorno in Italia, dove vi rimase per cinque anni. Arrivato nuovamente in Colombia, nel 1988, la situazione era peggiorata ulteriormente. Gli venne assegnata la parrocchia di Remolino del Caguán, un villaggetto che egli stesso aveva collaborato a fondare anni prima e che ora stentava a riconoscere: «Una Babilonia. La coca era venduta per le strade. Il paese era pieno di bordelli e la violenza il pane quotidiano. A Remolino ho imparato a convivere con il delitto, la corruzione e la guerra», ricorda con dispiacere. Gli toccò persino comprare una sala da ballo per poter costruire la chiesa del paese.
«Lo stato è sempre stato assente in quest’angolo della Colombia, come se questo luogo non significasse nulla per la politica del governo, visto che era così lontano dalle città e dai centri di potere».
LA PROVA PIÙ DIFFICILE
Nonostante le grandi difficoltà, padre Giacinto si è sentito in dovere di restare sul posto, per difendere il valore della vita. Un lavoro, il suo, ricco di tante, troppe delusioni. Nel 1992, avvenne un episodio che ricorda come il più amaro di quel periodo.
«Un sabato, proprio alla vigilia della celebrazione delle cresime, la guerriglia arrestò un individuo accusato di aver violentato un bambino e voleva fucilarlo sul posto, nella pubblica piazza, davanti a tutta la gente. Tutto il paese era lì riunito, gridando di ammazzarlo. Decisi di intervenire; afferrai l’uomo di peso e lo consegnai alle autorità del comune. Persino i bambini del posto mi correvano dietro, prendendomi in giro e insultandomi. Mi sentii come defraudato. Avevo rischiato la mia vita, la mia reputazione e questi erano i frutti! Presi su due piedi la decisione di andarmene. Quella, fu la notte più amara della mia vita. Piansi a lungo, perché pensai di esser stato un fallimento come sacerdote e come uomo», dice Giacinto, ricordando come aveva pensato di lasciare il paese la mattina successiva, all’alba.
«Avevo la valigia pronta, vuota, con dentro solo la mia rabbia quando la gente iniziò a riunirsi nella piazza. C’erano circa 700 persone. Gli uomini riconobbero il loro errore e mi chiesero perdono. Ma io, veramente, sentivo di non farcela a rimanere. Infine, arrivò un bambino, uno di quelli che il giorno prima era stato tra i più aggressivi nei miei confronti. Mi disse: “Padre, io ero tra quelli che ieri non la stavano ad ascoltare e la insultavano. Mi perdoni”. Quel bambino mi provocò una stretta al cuore. Mi chiusi un attimo nella mia stanza, dicendomi “Giacinto, è vero, questi te l’hanno fatta sporca, ma che hai intenzione di fare?”. Uscii con forza dalla canonica e, con tutto il coraggio che avevo, dissi agli adulti presenti: “Non è per voi che ho deciso di restare, ma per questo bambino che è venuto a chiedermi scusa. È per lui che continuerò a lavorare in questo posto”. Decisi di restare a Remolino».
Padre Giacinto non se ne andò, sapendo che la sua vita sarebbe stata costellata di giorni felici e di altri amari. «Il benessere, frutto della coca, finì presto e tutto ciò che rimase fu la stessa povertà di sempre. Con l’unica differenza che, in questi ultimi 15 anni, la chiesa si è convertita in un punto di riferimento morale e nel motore di una nascente economia basata su attività economiche lecite, come la produzione di cacao e caucciù e l’allevamento di bestiame. Infine, per rispettare l’impegno contratto con i giovani del posto, quest’anno entra in funzione un collegio per 60 giovani che potranno studiare e conseguire l’esame di maturità. Avranno così un’alternativa in più per non scegliere un futuro fatto solo di guerra o narcotraffico».
Sono stati in molti a definire una pazzia il pensare di poter costruire un collegio nel profondo della foresta, ma in padre Giacinto Franzoi vibra ancora il cuore di quel ragazzo orfano e ribelle che imparò a Trento come si può ricostruire una nazione dopo la guerra. O nel bel mezzo di essa.
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