Un bambino ci salverà

La chiesa in Ciad vive eventi simili a quelli presenti nel racconto evangelico del paralitico: le folle bussano alla porta della chiesa, malattie e guerra paralizzano la società, africani, donne e uomini, si fanno carico dei problemi della propria gente, tradizioni culturali ne congelano le aspirazioni di liberazione, giovani sensibili all’invito di Cristo di alzarsi e camminare con le proprie gambe: la salvezza dell’Africa dipende dagli africani; a noi il compito di assecondare tale cammino.

Prima di partire per un soggiorno prolungato (3 mesi e mezzo) nella missione di Fianga (Ciad) affidata a 3 preti Fidei donum di Treviso, mi è stato chiesto di raccogliere alcune informazioni e riflessioni su questo paese che è piuttosto sconosciuto. Vorrei farlo, a esperienza conclusa, sulla falsariga del racconto evangelico della guarigione del paralitico.
Si tratta indubbiamente di un modo singolare di raccontare, ma potrebbe essere un genere letterario molto appropriato quando si voglia «raccontare la missione».

LA RESSA… AMBIGUA

«Quando si seppe che Gesù era in casa, si radunarono tante persone da non esserci più posto neanche davanti alla porta».
L’impressione che in Ciad si faccia ressa davanti alla porta della chiesa è molto netta, specialmente nei giorni di festa. Si possono vedere fiumane di gente, dai vestiti sgargianti, che si affrettano verso chiese, aree sacre, o all’ombra di immense piante, dove si celebra la preghiera domenicale con o senza eucaristia.
Questo è tanto più stupefacente, se si pensa che il cattolicesimo è entrato piuttosto di recente in Ciad. La missione di Fianga, per esempio, non ha neppure 50 anni. La popolazione di questa nazione, che si autorappresenta come paese musulmano dal punto di vista dell’appartenenza religiosa, può essere divisa a metà, se da una parte si collocano i musulmani (51%) e dall’altra si mettono insieme seguaci delle religioni tradizionali e cristiani (protestanti e cattolici).
C’è ressa anche di richiedenti il battesimo. Nella sola missione di Fianga sono in media 200 gli adulti che chiedono di incominciare l’itinerario della preparazione al battesimo, anche se, poi, dopo i 3-5 anni di preparazione non ne resterà che una quarantina.
Questi dati sembrano tanto più lusinghieri, se si tiene conto di quanto mi è stato detto da un vecchio missionario del nord Camerun: l’attuale crescita dell’islam è più di carattere fisiologico e non più di carattere propulsivo, come sembrava essere nelle decadi 70-80 del secolo scorso.
Tuttavia questi dati non sono in grado di giustificare alcun trionfalismo. Molti preti locali, che d’altronde stanno diventando sempre più numerosi, sembrano più attratti dal ruolo che chiamati alla sequela di Gesù, pastore che dà la vita. La loro richiesta di amministrare il battesimo ai bambini segnala la tendenza a una pastorale di conservazione e di contenimento, piuttosto che a una pastorale missionaria. La debolezza delle motivazioni che li conducono al sacerdozio ha pesanti ripercussioni sul loro stile di vita. In genere non li ho visti molto motivati ai problemi di inculturazione del cristianesimo.
La produzione dei testi della bibbia e della liturgia sembra essere più la preoccupazione degli stranieri che dei locali. Per quanto riguarda i battezzati non è raro il caso che un certo numero di essi tornino a certe pratiche ancestrali, abbandonando di fatto la vita cristiana.
La maggioranza dei richiedenti il battesimo è costituita generalmente da giovani appartenenti a famiglie cristianizzate o per lo più di religione tradizionale. «La ressa» che si nota alle porte della chiesa nasconde, quindi, ambiguità e debolezze che potrebbero compromettere l’incontro forte e personale con Gesù Cristo.

I MALI PARALIZZANTI

«Si recarono da lui con un paralitico».
Il Ciad può essere raffigurato dal paralitico? Oggi è un po’ rischioso parlare «dell’Africa del dolore, della fame, della morte…».
Le classi medio-alte africane, assecondate dai mass media occidentali desiderosi di cancellare ogni traccia di neo-colonialismo, rifiutano questa immagine dell’Africa. Non è così in America Latina, dove la presa di coscienza collettiva e dichiarata dei propri mali provoca dinamiche di liberazione. Non vorrei che tale atteggiamento delle classi medio-alte africane significhi una presa di distanza rispetto alle masse dei poveri del continente e un occultamento delle loro condizioni di vita.
Durante il periodo che ho passato nella missione di Fianga ho avuto la forte sensazione che il tema della vita costituisca il messaggio centrale del cristianesimo della savana, la quale resta un luogo dove la vita sembra minacciata dalla onnipresente signoria della morte. Le minacce più violente sono costituite dalla malaria e dall’Aids.
La malaria, più di tutto. La morte per malaria sembra ancora più gratuita, perché è conosciuta e curabile. Ma quando è unita a una mancanza cronica di alimentazione bilanciata, alla tenace resistenza di pregiudizi legati alla cultura tradizionale, alle distanze che separano le persone dai dispensari e ancor più dall’ospedale, all’assenza di mezzi di trasporto, all’impraticabilità delle vie di comunicazione, essa è all’origine di un numero così elevato di morti da creare l’impressione di trovarsi di fronte a una qualche forma di peste.
Il tema della vita e, perciò, il tema della liberazione dalle cause strutturali, ambientali, igienico-sanitarie e culturali che la minacciano è, forse, il motivo profondo che determina l’attrazione avvertita da molti africani della foresta verso Gesù guaritore.
«Il grido dell’uomo africano» come è stato definito dal teologo camerunese J. Marc Ela, è un grido che reclama vita e liberazione.

GUERRA E TURBOLENZE

A questi fattori di morte si unisce ora la guerra. Una guerra strana che riguarda direttamente alcuni territori, soprattutto quelli frontalieri con il Sudan e, particolarmente, con il Darfour. Bisogna tentare di individuare nella migliore maniera possibile, le dinamiche di questa strana guerra e le sue conseguenze sulle popolazioni.
Da più di 2 anni affluiscono verso il Ciad i rifugiati della regione del Darfour, cacciati da ribelli armati, i cui collegamenti con il governo di Khartoum sono avvolti da una complice oscurità. La fuga verso il Ciad era favorita non solo dalla vicinanza con il Sudan, ma anche dal fatto che le popolazioni profughe appartenevano, in genere, alla stessa etnia del presidente ciadiano. Esse, perciò, confidavano in una qualche solidarietà etnica con «il fratello presidente».
Ma all’interno del clan presidenziale, in questi ultimi mesi, si è sviluppata una lotta intestina durissima, determinata, molto probabilmente, dalla spartizione del potere e delle risorse: da 3 anni il Ciad è un paese produttore di petrolio. Gli «oppositori» trovano, perciò, nella regione del Darfour un ambiente favorevole per stabilire alleanze e svolgere eventuali incursioni in territorio ciadiano. Dal mese di dicembre 2005 si è creato uno stato di belligeranza tra il Ciad e il Sudan, il cui esito finale è estremamente incerto.
Il resto del paese apparentemente non sembra sfiorato dalla guerra, anche se alcune situazioni fanno capire che, di fatto, il Ciad si trova in un periodo di turbolenza.
Fra queste segnalo le retate di giovani che, specialmente nei mercati della capitale, vengono fatte dalla polizia che poi, dopo averli rasati e rivestiti di casacca militare, provvede a inviarli al fronte. Insegnanti e personale medico e paramedico da mesi non vengono pagati, creando una forte inquietudine sociale.
Questi e altri fattori fanno capire che i soldi che restano, dopo il saccheggio operato da una voracissima corruzione, vengono utilizzati per la guerra, piuttosto che per lo sviluppo del paese.

I BARELLIERI

«Il paralitico era portato da 4 uomini».
Chi sono i 4 volontari che si fanno carico del popolo della savana, paralizzata dai suoi molti mali? Durante il mio ultimo soggiorno ho avuto la conferma che non siamo noi, i bianchi, i barellieri dell’Africa.
Essi sono africani, anche se per il momento sembrano essere maledettamente pochi e anche se per ora non hanno raggiunto quella dimensione collettiva che caratterizza, invece, i popoli e i credenti latinoamericani.
È giusto ricordare almeno alcuni di questi barellieri che, a mio parere, costituiscono il fermento pasquale, che è all’opera all’interno di una situazione apparentemente stagnante.
Ricordo Arsène, un giovane medico ciadiano di 34 anni, padre di 4 figli. Laureato a N’djamena, scarta l’ipotesi di farsi un gabinetto medico privato nella capitale, per inserirsi nel servizio pubblico. Viene assegnato all’ospedale di Fianga, lasciato già da alcuni anni da médécins sans frontières.
Prima di arrivare a Fianga fa uno stage nel campo specifico dell’Aids. A pochi mesi dal suo arrivo ha già messo in piedi un comitato per la lotta contro l’Aids, dove sono presenti 2 suore cattoliche, alcuni membri delle chiese protestanti, un giovane musulmano.
Allo stesso tempo fa interventi chirurgici e pratica le cure mediche che sono possibili. Nonostante qualche fallimento che gli brucia dentro, continua con passione la sua lotta personale contro «la signoria della morte», che sembra dominare senza efficace contrasto nella zona.
Un efficace ruolo di barelliere è svolto da suor Maria Albert, settantenne senegalese, che dal mattino alla sera visita malati di ogni tipo ed entra nelle case di tutti, accolta con affetto da musulmani e cristiani e non cristiani. Con i suoi metodi, pur ispirati a un cristianesimo di altri tempi e da una molto improbabile farmacopea, riesce a convincere molti malati di Aids a dichiararsi, a sottomettersi al test.
Considero barellieri due signori, nativi di un grosso villaggio, che hanno il coraggio e il potere di far mettere in prigione il temutissimo e intoccabile «capo locale», che aveva bastonato a morte il loro fratello trentenne.
Anche Pascal, responsabile del centro per disabili, fisioterapista autodidatta, fa parte a mio parere del gruppo di barellieri. Con il tempo si è fatto un fiuto particolare per scoprire le persone colpite da handicap e metterle a contatto con il centro.
Infine, dentro questo ristretto gruppo di barellieri, inserirei il giovane emigrato, di ritorno da Douala, che sfida costumi e convinzioni ancestrali, facendo ricorso alla giustizia ordinaria che finisce per dargli ragione.
Sono tutti barellieri con un volto africano. L’opera di qualsiasi bianco sarebbe meno efficace della loro.

FARISEI… AFRICANI

«Seduti là, erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: perché costui parla così?».
L’azione liberatrice di Gesù viene criticata dagli scribi, cioè dai ringhiosi custodi delle leggi e delle tradizioni svuotate di anima e di senso. Nell’Africa profonda sono all’opera fattucchieri, impostori, gerarchie, che vogliono conservare immutabile il passato.
Certo, le culture, perché non di una sola si tratta, non possono essere liquidate come eredità inutile o, peggio, dannosa del passato. Negli anni ‘70, l’Africa ha riscoperto e riaffermato la sua autenticità e identità culturale, a dire il vero in maniera piuttosto sventurata in alcuni paesi, come l’ex Zaire di Mobutu, la Repubblica Centrafricana di Bokassa, il Ciad di Tambalbaye. In ogni caso, la sua cultura costituisce la spina dorsale di un popolo e delle sue strategie di organizzazione sociale e di resistenza.
Tuttavia, nel delicatissimo film Yaaba (nonna), successivo a quel periodo, opera di un regista africano, si ebbe il coraggio di guardare in maniera critica agli aspetti disumani legati al rispetto di certe tradizioni. Il compito di superarli fu affidato, nel film, a un bambino, che nell’innocenza del suo rapporto con una donna anziana, proscritta dalla comunità perché considerata come «strega», ha messo a nudo i limiti e le disumanità di certi comportamenti indotti dalla rigida osservanza della tradizione.
La sfida dell’inculturazione nei diversi paesi africani ha bisogno anche di questi occhi e comportamenti innocenti, liberi e liberati dalla paura.
Congelare le tradizioni e le culture africane, nonostante il mutamento dei tempi, è lo stesso che distruggerle e risponde più agli impossibili sogni degli occidentali che alla ricerca degli africani.

FACCIAMO TIFO

«Ti ordino: alzati e va a casa tua!».
«Alzati e cammina»: è lo slogan della campagna proposta alla gioventù cristiana del Ciad per quest’anno. Con due numerosi gruppi di giovani ho realizzato due ritiri e qualche incontro su questo tema.
La gioventù ciadiana sembra essere particolarmente sensibile a questo appello di Gesù. Penso che, per accoglierlo in profondità, i giovani devono superare due sfide: la prima è la titubanza, o addirittura la paura, che essi provano di liberarsi da maniere di pensare e agire, determinate da alcune tradizioni ancestrali. Credo che, razionalmente, essi riescano a vedee i limiti e la nocività, ma emotivamente è molto difficile opporvi una efficace resistenza.
La seconda sfida è costituita dall’attrazione del consumismo e dei modelli occidentali che esercitano un forte fascino su di essi.
«Africa, alzati e cammina»: se questo avverrà, gli africani lo dovranno solo a se stessi. A noi il compito di stare ai limiti dell’area, di offrire, quando richiesti, la nostra collaborazione e di fare tifo perché ciò avvenga.

Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto

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