Muro o dialogo?

Dopo la nascita dell’Eire (cfr. dossier MC maggio ‘06), i cattolici irlandesi rimasti nell’Ulster britannico hanno lottato per la riunificazione dell’isola e contro l’oppressione dell’autorità protestante. Per decenni Belfast e Londonderry sono state insanguinate da feroci attentati e repressioni. Ora un muro separa i quartieri cattolici da quelli protestanti; una serie di accordi hanno messo a tacere le armi. Ma la vera pace ci sarà quando le due comunità cominceranno a dialogare.

La famiglia di turisti si ferma davanti al Republican Memorial Hall, che sorge a pochi passi dal Clonard Monastery. Sean, il taxista che fa anche da guida, illustra in modo partecipato e commosso le fasi che hanno portato le comunità cattoliche e protestanti di Belfast a confrontarsi per decenni, mietendo tra il 1969 e il 2006 più di 3.600 vittime.
«Sono stato catturato nel 1974, con l’accusa di essere membro attivo dell’Ira» spiega Sean, quando mi vede seguire con attenzione la sua esposizione; poi continua: «Ho passato 14 anni in diverse prigioni dell’Irlanda del Nord prima di essere liberato. Da allora ho vissuto svolgendo lavori saltuari fino a quando, con alcuni amici ex militanti politici, abbiamo fondato la Belfast Black Taxi Tours, una compagnia che accompagna turisti attraverso i luoghi più simbolici della guerra che ha sconvolto la città».
Mi presenta i suoi ospiti: una famiglia americana di New York che vanta discendenze irlandesi. «Mio padre era membro della Noraid» dice con orgoglio il capofamiglia, stringendomi la mano. La Noraid (Irish Northe Aid) è la potente organizzazione statunitense che, con generosi sovvenzionamenti, ha permesso all’Ira di comprare armi dalla Libia e ai suoi aderenti di addestrarsi nei campi palestinesi dell’Olp.
La famiglia O’Brian continuerà il suo «political tour», entrando nella zona protestante e osservando il bellissimo monastero cattolico di Clonard dalla parte opposta del muro.

BARRIERA DI VERGOGNA

Già, perché se a Berlino il muro che divideva simbolicamente due mondi politicamente e ideologicamente contrapposti, è crollato oramai da diciassette anni, a Belfast il quartiere protestante di Shankill e quello cattolico di Falls continuano a essere separati da una parete di cemento e acciaio alta 5-6 metri. Una barriera di vergogna nel cuore della Comunità Europea e della cristianità che, nel goffo tentativo di farla apparire meno truce e spettrale, è stata denominata Peace Wall (Muro della pace).
Un divisorio, questo Muro della pace, voluto e costruito da una classe politica incapace di amministrare un territorio in guerra, nel disperato tentativo di riportare tranquillità in una Belfast sconvolta dai troubles (disordini) degli anni ‘70 e ‘80. Un muro che da 20 anni divide europei cattolici da europei anglicani, europei repubblicani da europei unionisti, europei filoirlandesi da europei filobritannici.
È pur vero che molti analisti, specialmente quelli più legati alle comunità ecclesiastiche cristiane, pur non negando le radici religiose del conflitto irlandese, spiegano il suo acutizzarsi con lo sviluppo di elementi comuni a tutti gli stati di belligeranza: prevaricazione economica di un gruppo rispetto a un altro, differenze culturali che si ripercuotono sul tessuto sociale e familiare, contrasti politici a sfondo ideologico e, non ultimo, ingerenze di potenze straniere, che, sfruttando la debolezza intea britannica, hanno giocato la carta dell’irredentismo irlandese per rafforzare i propri interessi inteazionali e le lobby di potere.

LACRIME E SANGUE

Il dramma dell’Irlanda del Nord è questa micidiale miscela di ingredienti che, spaziando dal nazionalismo storico al dogmatismo religioso, hanno finito per sfociare in una lotta che divampa sin dal xvii secolo, quando, con le Plantations, Londra sostenne la colonizzazione dell’isola a favore dei coloni inglesi e scozzesi, espropriando le terre coltivate dai contadini locali.
Il fatto che questi ultimi fossero cattolici e i primi protestanti, trasformò quella che sarebbe stata una contesa economica e nazionalista, in una lotta confessionale che vide confrontarsi la chiesa di Roma e quella anglicana; papa e re.
Fu Oliver Cromwell, sbarcato nell’agosto 1649 sulle coste irlandesi, a sfogare il suo odio contro la chiesa di Roma, stritolando l’economia agricola degli irlandesi e massacrando un quarto della loro popolazione. Da allora la storia irlandese è sempre stata segnata dalla divisione tra le due fedi, frattura che venne sancita definitivamente nel 1795, dopo che il re cattolico Giacomo ii fu sconfitto da Guglielmo iii d’Orange. Non è un caso che ancora oggi il movimento Orangista, nato allora «per sostenere il re (Guglielmo) e i suoi eredi, finché egli o costoro sosterranno la supremazia protestante», viene ancora oggi ritenuto l’organizzazione più fedele alla Corona britannica di tutta l’Irlanda.
Eppure furono proprio i protestanti, ansiosi di allargare i loro domini al di fuori delle sei contee in cui erano maggioranza assoluta, a reclamare per primi l’indipendenza da Londra, raggiungendo una semiautonomia nel 1782. La rivoluzione americana prima e quella francese poi, indussero gli irlandesi, prescindendo dalla confessione religiosa, a riunirsi nella Society of United Irishmen (società di irlandesi uniti), un movimento politico che si prefiggeva di ottenere la totale secessione dell’isola. La repressione inglese della Society e l’approvazione dell’Union Act (legge dell’unione), che riportò l’Irlanda in seno al Regno Unito, comportò anche un radicale cambiamento della politica da parte di Londra. I governi britannici vararono una serie di riforme agrarie, economiche e sociali miranti a proteggere esclusivamente i cittadini di fede protestante. Ed è in questo preciso periodo che le parti si invertono: i cattolici diventano nazionalisti e gli anglicani unionisti.
Le carestie che sconvolsero l’Irlanda tra il 1845 e il 1849, vennero viste da Westminster come un’opportunità per sbarazzarsi del nascente movimento cattolico secessionista fondato da Daniel O’Connell. La voluta e cinica inefficienza inglese nel prestare soccorso alla popolazione irlandese, falciò un milione di vite, mentre indusse un altro milione di persone alla fuga verso gli Stati Uniti.
Coloro che rimasero nell’isola, anziché sottomettersi all’impero, ritrovarono la forza di riunirsi in diversi movimenti, tra cui l’Irish Republican Brotherhood (Fratellanza repubblicana irlandese), la Gaelic League (lega gaelica) e il Sinn Fein (Solo noi), sostenitore dell’idea che i deputati irlandesi avrebbero dovuto riunirsi nel Dail (Parlamento) di Dublino e non a Westminster.
Per arginare ciò che era diventato un chiaro tentativo di separazione, nel 1913 Londra varò la Home Rule, una legge che consentiva l’amministrazione autonoma dell’Irlanda a eccezione delle sei contee di Tyrone, Donegal, Derry, Armagh, Cavan e Ulster, dove storicamente risiedevano i protestanti unionisti.
Ma le carte erano state ormai giocate e l’inizio della prima guerra mondiale diede chiari segnali di non collaborazionismo con Londra da parte dei nazionalisti irlandesi, riunitisi nell’Irish Volunteers (volontari irlandesi) tramutatisi in seguito nell’Irish Republican Army (Ira).
Fu prima l’insurrezione di pasqua del 24 aprile 1916, con la proclamazione della Repubblica d’Irlanda, e due anni dopo la riorganizzazione degli Irish Volunteers, da parte di Michael Collins, a indurre Londra a concedere, il 6 dicembre 1921, l’indipendenza dell’Eire, a esclusione delle «Sei Contee» (Ulster).
E mentre il Dail Eireann (parlamento irlandese) accettò la divisione dell’isola, l’Ira continuò la sua battaglia per la riunificazione completa. Le ostilità tra i nazionalisti irlandesi e gli unionisti delle Sei Contee, sostenuti rispettivamente dai governi di Dublino e Londra, si fecero immediatamente pesanti con l’emanazione di leggi speciali, come il Civil Authority (Special Powers) Act (legge sull’autorità civile, con poteri speciali) che, rimasto in vigore fino al 1974, consentiva alle autorità britanniche di arrestare, imprigionare, perquisire senza mandato o accusa chiunque fosse sospettato di attività repubblicana.

VIOLENZA E REPRESSIONE

Gli anni ‘70 videro l’escandescenza della guerra con il culmine raggiunto il 30 gennaio 1972, quando a Derry, tredici civili vennero uccisi dai parà inglesi, in quella che passò alla storia come il Bloody Sunday (domenica di sangue). Fu la svolta: le critiche piovute da tutto il mondo su Londra e, non ultima, l’ondata emozionale rimarcata dal famoso brano degli U2, ebbero l’effetto di indurre Londra a ricercare una soluzione non più solo militare, ma anche politica del conflitto.
Accanto alla recrudescenza della violenza delle organizzazioni paramilitari (tra il 1972 e il 1979 si contarono 1339 morti, di cui 479 solo nel 1972), si assistette a timidi tentativi di aperture. Vennero riallacciate le relazioni diplomatiche con l’Eire e con gli Accordi di Sunningdale del 1973 si stabilì un principio che sarà alla base degli Accordi del venerdì santo del 1998 e di tutti i futuri trattati anglo-irlandesi: se Dublino accoglie lo status dell’Irlanda del Nord come entità separata e integrante il Regno Unito, Londra a sua volta accetta la riunione delle Sei Contee col resto dell’isola, quando la maggioranza della popolazione esprimerà il desiderio di farlo.
Nel frattempo, però, il governo Tatcher perseguì la linea dura, commettendo errori di sottovalutazione del movimento cattolico. Il più clamoroso di questi fu l’insofferenza verso la Blanket Protest (rifiuto della divisa carceraria, indossando solo una coperta), iniziata dai detenuti politici dell’H-Block nella prigione di Long Kesh, i quali volevano essere riconosciuti dal governo di Londra con lo status di prigionieri politici e non come criminali comuni.
Lo sciopero della fame proclamato dai detenuti, portò dieci di loro alla morte e uno di questi, Bobby Sands, divenne l’icona del movimento repubblicano. La sua eredità viene oggi contesa da tutti i movimenti nazionalisti irlandesi, dal moderato Sinn Fein di Gerry Adams, al più radicale 32-County Sovereignity Committe di Beadette Sands, sorella di Bobby.
Per capire quanto profonde siano le divergenze tra i movimenti repubblicani, due frasi estrapolate da interviste effettuate ai leaders delle due organizzazioni: «Mio fratello non avrebbe mai siglato gli Accordi del venerdì santo. Avrebbe continuato la sua battaglia senza compromessi contro gli occupanti britannici» riferisce Beadette, oggi residente a Dublino. «Bobby Sands era un uomo di pace. Voleva raggiungere i suoi obiettivi senza spargere sangue. Gli Accordi del venerdì santo miravano a questo. Per ciò siamo sicuri che Bobby li avrebbe accettati» replica Gerry Adams nella sede dello Sinn Fein a Fall Roads, proprio sotto un murales che ritrae il martire repubblicano.

TACCIONO LE ARMI

Gli Accordi, sanciti il 10 aprile 1998, pur approvati in un referendum dal 71% degli elettori nordirlandesi, segnarono la spaccatura di tutte le fazioni unioniste e nazionaliste. Le organizzazioni paramilitari si frammentarono in miriadi di gruppetti più o meno agguerriti e numerosi, rendendo più problematica la gestione del panorama politico e militare. Solo la presenza di figure come John Hume, leader del Social Democratic and Labour Party (Partito socialdemocratico e laburista) o di Martin McGuinness, fondatore storico dell’Ira degli anni ‘60, riuscirono a sostenere l’arroganza e la determinazione di un Ian Paisley, leader dell’estremismo unionista e ispiratore di molti gruppi militari antirepubblicani.
Il lavoro iniziato con gli Accordi del venerdì santo trovò un importante e forse decisivo sbocco il 28 luglio 2005, quando l’Ira rilasciò il famoso comunicato in cui si invitavano tutte le sue cellule a deporre le armi: «La leadership di Oglaigh na hEireannn (Ira) ha ufficialmente ordinato la fine della campagna armata. A tutte le unità dell’Ira è stato ordinato di deporre le armi. A tutti i volontari è stato chiesto di assistere agli sviluppi dei programmi politici e democratici attraverso metodi pacifici. I volontari non devono ingaggiare alcuna attività».
Ma il comunicato va oltre, affermando che la smilitarizzazione dovrà essere seguita da un rappresentante della chiesa cattolica ed uno della chiesa anglicana. Un segno delle radici che nutrono il conflitto e che solo con la buona volontà delle due chiese potrà essere risolto. E di buona volontà ce ne vorrà tanta, perché neppure la politica potrà essere la panacea che riporterà la pace in Irlanda del Nord.
L’equazione esposta con troppa sufficienza cattolico=repubblicano e protestante=unionista, non regge, come ha dimostrato la storia. Infatti, se così fosse, già oggi l’Irlanda del Nord potrebbe tentare il referendum per l’unione con l’Eire. I cattolici, infatti, rappresentano il 44% della popolazione, mentre i protestanti dichiarati il 36% (esiste un 9% di non dichiarati che le statistiche indicano essere a maggioranza protestante). Ma è anche vero che il 35% dei cattolici, in caso fossero chiamati a scegliere tra le due opzioni, opterebbero per rimanere affrancati al Regno Unito, in modo da non perdere i sussidi elargiti da Londra.
Dalla parte opposta, molto più compatto è il movimento unionista, con il 94% dei protestanti favorevoli allo status quo. «Perché l’Irlanda del Nord si unisca all’Eire, bisogna che accadano due fattori concomitanti: che la popolazione cattolica superi nettamente quella protestante, cosa che, con gli attuali ritmi di crescita demografica potrà avverarsi entro il 2030, e che una considerevole parte dei cattolici sia favorevole all’opzione repubblicana. E questo è molto più improbabile che avvenga in pochi lustri» mi dice Stefan Andreasson, professore di Politica internazionale alla Queen’s University di Belfast.

ALLA RICERCA DEL DIALOGO

Le elezioni per il Parlamento locale del 2005 hanno dimostrato che la polarizzazione dell’elettorato si acutizza sempre più, anche se il divario tra i due blocchi si assottiglia. Il Democratic Unionist Party (Dup) di Ian Paisley è divenuto il maggior partito nordirlandese con il 29,6% delle preferenze, superando nettamente il più moderato Ulster Unionist Party (18,0%); mentre nel fronte opposto lo Sinn Fein, raggiungendo il 23,3% dei consensi, ha aumentato il vantaggio sul Socialist Democratic and Labour Party, rimasto al 17,4%.
Forte dei 9 seggi conquistati, il Dup ha chiesto immediatamente la revisione dei trattati del 1998, al fine di «garantire alla comunità protestante, discriminata dagli Accordi del venerdì santo», il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. «Il fatto significativo delle elezioni del 2005 – dice Sean Mac Labhrai, professore di Studi Irlandesi alla St. Mary’s University College di Belfast – è che sono scomparsi i partiti minori, che garantivano la partecipazione politica delle organizzazioni paramilitari. Questo schiacciamento ha portato le frange più estremiste, come il Dup a raggiungere i risultati ottenuti e ad alzare il tiro sulla comunità repubblicana».
Si sta quindi assistendo a una semplificazione della vita politica del paese, che per molti rischia di rianimare le lotte. «L’Irlanda del Nord è stata sempre snobbata dai grandi partiti britannici – afferma Catherine Mellen, della Campaign for Equal Citizenship -. Se i laburisti e i conservatori propagandassero le loro idee qui, come fanno in Inghilterra, anche le differenze tra le comunità cattoliche e protestanti scomparirebbero, per dare luogo a differenze sociali presenti nella normale vita politica britannica, consentendo a Londra una migliore gestione del conflitto».
Ma c’è chi addirittura si prefigge di lottare per la completa indipendenza del Nord Irlanda, come Murray Smith, del New Ulster Political Rasearch Group: «La soluzione del problema nordirlandese deve essere trovata al di fuori degli schemi convenzionali. Non è uno scegliere tra Eire o Gran Bretagna, perché qualunque sia la scelta, una delle due comunità sarà sempre scontenta. La soluzione che proponiamo noi è la creazione di un terzo stato completamente autonomo e indipendente sia da Londra che da Dublino».
Naturalmente queste ultime due tesi non tengono conto del tessuto sociale impregnato di cultura e tradizione religiosa e del fatto che nessuna delle due comunità vuole una Irlanda del Nord indipendente. Rimane quindi il dialogo costante e senza prevaricazioni con tutte le parti in causa, nessuna esclusa, così come la stessa Ira ha chiesto e ribadito nel proclama del 28 luglio scorso. Ian Paisley permettendo.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali