Prete di frontiera, è di scena nell’Italia del dopoguerra come padre degli abbandonati. Ligio e ribelle, obbediente e rivoluzionario. Si definisce un acrobata sul trapezio del tempo, un funambolo sul filo d’acciaio della fede a tentare l’esperienza di una comunità di famiglie. Nel 25° anniversario del trapasso di don Zeno Saltini, il suo confidente, Fausto Marinetti, ne celebra la memoria, mettendo insieme, con le sue parole, questa testimonianza: Zeno racconta Zeno.
Fin da giovane sento la missione di dedicarmi agli altri. Sotto le armi, il mio più caro amico, un anarchico, mi provoca: «Voi cristiani mangiate Cristo in chiesa e fuori avete i poveracci; vi dite fratelli e tra voi ci sono sfruttati e sfruttatori. Non m’interessa il singolo, ma il fenomeno sociale. E le crociate, l’inquisizione, le guerre di religione?».
Che lite! Ha torto lui a demolire senza costruire; ho torto io a essere un cattolico borghese. Sconvolto, chiedo a Dio di morire. Prendo una boccata d’aria alla finestra, fisso un punto lontano: «Né padrone né servo. Cambio civiltà in me stesso». Non un santo, ma un ateo è riuscito a farmi sentire complice del delitto sociale. Decido di rispondergli, testimoniando il vangelo con la mia vita.
Pian piano vado scoprendo, che la fede non è una dottrina sterile e astratta; Cristo non è una mummia. Lo abbraccio, vivo, nei diseredati. Affondo cuore e mani nelle stigmate dei piccoli delinquenti. Li tiro fuori dalla galera e li prendo con me.
Fondo una scuola di arti e mestieri. Risultato? Noi assistenti ci gratifichiamo, bevendo le loro lacrime, ma loro si sentono sempre dei beneficati, dei diversi. Finché non si è alla pari, non ci può essere rapporto di amore.
Studio legge per difenderli in tribunale. La laurea in mano, mi dico: «Potrei mitigare la pena, ma sono stanco di fare del bene in modo che tutto rimanga come prima. Curare è bene, prevenire è meglio. Basta con l’assistenzialismo, mi faccio prete».
Dopo un anno mi presento all’altare con Barile, appena uscito dal carcere. Il primo di 4 mila. La mia messa è quella lì: sposo la chiesa, le do un figlio, non un assistito. Odio l’assistenza. Sono le lacrime delle vittime a darmi la passione per una nuova società, a farmi sentire la nausea dell’assistenza. In parrocchia mi faccio padre del popolo, perché sono due secoli che la chiesa insiste sul sociale e sul politico, ma non sentiamo questi problemi.
Conosco le obiezioni del mondo missionario: «Come essere alla pari con gli oppressi del mondo? Da sempre portiamo religione, cultura, civiltà: cosa è cambiato? I popoli del Nord, bianchi e cristiani, hanno in mano mezzi e strumenti per asservire i popoli del Sud. La religione è funzionale all’economia globale? Dove appoggiare l’uomo evangelico, se non c’è il minimo di dignità umana? Come fare l’adozione a distanza dei popoli-schiavi?».
Rispondo con la mia vita. A che serve denunciare le cause del delitto sociale, se non si propongono esempi alternativi? La canonica piena di abbandonati m’impensierisce: va bene accoglierli, ma così siamo servi del sistema. Esso produce le vittime e noi gliele curiamo. È meglio battersi in piazza, perché questi ragazzi sono frutto di una politica sbagliata. Se non si cambiano le strutture, non cambia niente. Non solo, ma collaboriamo con il disordine costituito.
Sulle piazze, nelle osterie, fisarmonica a tracolla, vangelo nel cuore, invito le donne a venire a fare da mamma e le famiglie a frateizzarsi tra loro. Nel ‘41 arrivano le mamme; nel ’48 le famiglie volontarie. Occupiamo l’ex-campo di concentramento di Fossoli, uomini e bambini buttano a terra muraglie e reticolati con le mani. I giornali parlano di guerra degli angeli. Il mio sogno di una città di Dio prende forma: Nomadelfia, dove la frateità è legge.
Finalmente le famiglie si frateizzano, offrendo al mondo un esempio di vita sociale, la cui legge è il vangelo: tutto quello che è mio è tuo; quello che è tuo è mio; non dalla carne, non dal sangue, ma da Dio siamo nati. Una parentela nuova, oltre le razze e le patrie. Vogliamo far vedere come è possibile essere un popolo nuovo a livello individuale, familiare, sociale e politico.
Perché il cristianesimo non ha attaccato in Cina? Perché non l’abbiamo praticato neppure in Occidente. Non è ancora nato. Tante opere di beneficenza, ma di giustizia, neanche l’ombra. Senza di questa non si fa l’uomo, tanto meno il cristiano. Non più una giustizia provinciale, ma planetaria.
Gli orrori della guerra m’insegnano che in situazione di calamità sociale non è lecito non essere eroi. Al tempo degli schiavi, la fede era così viva che sono sorti i mercedari, uomini che scambiavano se stessi con gli schiavi. E oggi cosa risponde la cristianità ai popoli del terzo mondo, incatenati da nuove schiavitù?
Nomadelfia non è che il laboratorio nel quale lo Spirito mi ha introdotto, per fare l’esperimento di applicare la fede a tutto l’umano. Un modellino piccolo piccolo, ma, se riesce, molti potranno ispirarsi ai suoi principi.
Nel ’51 alcuni disoccupati vengono a chiedere lavoro. «Se volete farvi fratelli, condividiamo quello che c’è, ma noi non siamo padroni di nessuno». Macché fratelli! Vogliono la paga a fine mese.
Danilo Dolci vuole tenerli a tutti i costi. Gli spiego: «Non sono io che rifiuto di aprire le porte ai sofferenti, è la legge della impenetrabilità dei corpi che lo impone. Se il chirurgo tralasciasse di operare il paziente che ha sotto mano, per curare quello che bussa alla porta, non sarebbe nei piani di Dio. A operazione ultimata, curerà l’altro. Noi stiamo facendo l’operazione chirurgica più delicata: tagliare l’individualismo globale, per donare al mondo un esempio di santità sociale».
Ci sono due vocazioni: quella del samaritano, che cura i feriti della società-brigante, e quella di chi vuol piantare una nuova società di fratelli, nella quale non ci sia più bisogno di curare le vittime. Io ho scelto di farmi fratello universale. C’è una sola forza che può salvare il mondo: la frateità.
Nel dopoguerra la mia provocazione sarà travisata dalla paura della guerra fredda, dall’inconfessato timore che un governo di sinistra impedisca al papa di esercitare il suo potere spirituale sul mondo intero.
Predico in piazza: «Fate due mucchi! Chi ha i soldi da una parte, chi non li ha dall’altra. Noi poveracci siamo il 95% e andiamo al potere a fare le leggi che vanno bene per noi… Che cosa sono due monetine, niente! Ma se le metti davanti agli occhi, come fai a vedere gli altri? Dio ti ha dato una misura precisa: uno stomaco, non due. Perché vuoi guadagnare più dell’altro?».
Ripeto in alto e in basso: «Le opere di Dio per loro natura portano lo scompiglio nelle coscienze». Le folle, elettrizzate, sognano con me un mondo nuovo. Dio m’ha insegnato a toccare le corde magiche del cuore. Comunico più con la presenza, con il gesto, con tutta la persona. Il mio linguaggio è tagliente, ma non urta, perché parlo col cuore in mano: «I poveri sono dei derubati, non dei condannati da Dio a essere miseri. E da chi? Da tutti coloro che non sono poveri».
Quando narro le parabole politiche, il popolo annuisce, applaude il sogno di tutti. Come nella piazza di Vignola: «Il signorotto abita nel castello sulla collina. Tutte le terre della vallata sono lavorate dai suoi sudditi. Un giorno apre la finestra e vede una moltitudine dirigersi verso lo stradone del castello, chi con il badile, chi con la forca, la falce, la vanga. Chiede al capo dei servi: “Cosa fa quella gente, laggiù? Parla chiaro e subito”. Capiva che si preparava il temporale.
– Béh! Se vuol proprio saperlo, quella gente è stanca di essere sfruttata… da suo padre, dal suo nonno, dal suo bisnonno.
– Ma questo è contro la legge, l’ordine!
– Signore, vada lei a spiegarglielo.
Il signorotto raduna tutti i servi: “Tu, prendi mille lire, corri là in mezzo e grida: viva Gesù Cristo. Tu, ecco mille lire, vai là e grida: viva Carlo Marx. Tu, grida: viva la Russia. Tu: viva l’America”. E sta alla finestra a guardare.
I contadini dicono a quello che grida viva Gesù Cristo: “Dai che andiamo al castello a farla finita”.
E lui: “Viva Gesù Cristo”.
“Cosa dici? Cosa c’entra?”.
In quel mentre saltano su gli altri: “Viva Carlo Marx”; “Viva l’America”; “Viva la Russia”. E si danno tante di quelle botte da orbi, che è un disastro.
Il signorotto chiude la finestra: “Anche questa volta mi è andata bene. Posso dormire tranquillo“».
Negli anni ’50 il sogno della città di Dio è alle stelle. La domenica, curiosi e tifosi della carità, invadono il campo. La comunità, benedetta dai prelati, ammirata dai visitatori, elogiata dalla stampa, sogna borgate e città. Le mamme prendono dal brefotrofio di Roma 120 scartini. Il card. Schuster, in duomo, affida loro una quarantina di abbandonati, pronunciando parole famose: «Tutto il resto è coice, Nomadelfia una pagina di vangelo». Il nunzio, mandato per inquisire, torna entusiasta: «Una città così non la si può capire da Roma, bisogna vederla con gli occhi».
Io guardo in prospettiva: con questo tasso di crescita annua, nel 1972, se non succederanno diaspore, saremo 120.000. È logico, quindi, chiedere al governo un territorio di 30 mila ettari solo per cominciare…
Il congresso di Nomadelfia stabilisce di «costruire una borgata nomade per la missione al popolo; prepararci a costruire una città in Africa; avere un’ambasciata presso la Santa Sede; il papa, oltre che vescovo di Roma, sarà anche vescovo della città di Nomadelfia».
Quali reazioni possono provocare, al di qua e al di là del Tevere, sfide e denunce, proiezioni di città fratee con le vittime della società? Intanto un dossier della prefettura di Modena parla di «amministrazione incontrollata e debiti a non finire». Il ministro Scelba non accetta Nomadelfia e non ripassa gli aiuti assistenziali. Non mi resta che scrivere a mons. Montini: «Guardi, eccellenza, che lo stomaco è d’interesse divino…». Il ministro invia il rapporto modenese al Vaticano, lamentandosi della mia fede troppo audace nella Provvidenza e delle «idee sociali un po’ spinte di Zeno».
Troppo dure le mie sfide, inapplicabili le proposte? «Nessuno ci vuole, perché non siamo né di destra, né di sinistra, né di centro: abbiamo cambiato strada». Paradossale prendere il vangelo sul serio? Praticarlo, poi…? Svuotare il brefotrofio di Roma, farla finita con i correzionali, pretendere di liberare i carcerati, urlare in piazza che siamo fratelli, incominciando dal portafoglio… Non è troppo fustigare i ricchi e le istituzioni inadempienti?
Il silenzio della chiesa avrebbe potuto voler dire consentimento? Secondo padre David Turoldo, proprio la chiesa mi avrebbe impedito di applicare il vangelo: «Ci hanno fermati perché avevano paura che stessimo riuscendo, che noi facessimo la rivoluzione cristiana. Ed è stata impedita dalla chiesa con la DC».
Nel 1951, ridotti alla fame, i miei rifiutano di votare il partito della chiesa, per dare una lezione ai politici. Il Vaticano mi impone di ritirarmi dalla comunità, non può tollerare che un prete, nell’Emilia rossa, predichi la giustizia, facendo il gioco dei senzadio! La mia identificazione con le vittime s’è consumata. È in nome loro che mando lettere e cuore al papa, per scuotere le fondamenta di San Pietro: «Il costume sociale della chiesa è pagano. Santo Padre, la rivoluzione comincia dall’alto. Non sono un ribelle, ma una vittima».
Dei politici dirò: «Il caso Nomadelfia, una delle infinite prepotenze di Scelba. Il mondo ritiene necessario sopprimerci, perché non ci sopporta. Ci hanno crocifisso nel nome di Dio. Non è un’accusa, ma un pianto».
Il ministro Scelba, temendo un’emorragia di voti, ordina la liquidazione coatta di Nomadelfia: gli adulti sono rispediti nei luoghi d’origine, gli accolti riportati nei collegi. Senza il padre alcuni figli tornano in galera. Con la morte nel cuore chiedo la laicizzazione pro gratia: «Se non posso essere loro padre come prete, lasciatemelo essere come laico».
Mi capita un fatto strano e corro a raccontarlo al card. Ottaviani: «Sa cos’è successo stanotte? Entro in pizzeria e vedo una ragazza tutta pitturata, con un uomo: una delle mie figlie.
– Cosa fai qua?
– Tu mi hai abbandonato. Questo signore mi mantiene e faccio quel che vuole…
Neanche a farlo apposta, ho sotto il naso la riprova che i figli tornano alla malavita per causa mia. Io ho il dovere di dirle che, se non rimedio, non posso celebrare, perché sono in peccato. Adesso lo sa anche lei ed è corresponsabile. Fra poco lei parla con il papa ed è responsabile anche lui. Se non mi date la laicizzazione, né io, né lei, né il Santo Padre possiamo celebrare. Mi sono fatto prete per salvare i figli alla deriva e adesso chiedo la laicizzazione per salvarli di nuovo. Tanto, se sono sacerdote, lo sono lo stesso».
Qualche giorno dopo il vescovo mi convoca:
– È arrivato il decreto. Quanto mi dispiace!
– Dispiace anche a me. Fino ad oggi ho sacrificato Cristo, ma questa mattina ho immolato lui e la mia persona. Ed è stata l’ultima messa.
Quasi tutti mi disapprovano. La laicizzazione è considerata una defezione sacrilega o un castigo per colpe gravi. Dalla mia, pochi intimi. Il sacrificio più grosso della mia vita. Quando si arriva a questi estremi, ciò che conta non è la propria persona, ma il bene dell’umanità e della chiesa.
Ma io continuo a torturarmi e a torturare: «Può la chiesa condannare Nomadelfia? A me pare di no, perché condannerebbe se stessa».
E seguito a pestare i piedi, perché senta, nella mia, la voce delle vittime: «Perché ubbidiamo? Lo facciamo come fanno i bambini, consapevoli che da soli nulla possono. Perché ci impenniamo senza ribellarci, ma solo pestando i piedi? Lo facciamo come fanno i bambini, sicuri che, se avremo ragione, il Padre ce la darà e piegherà la Madre a farlo».
Laicizzato, alla fame, continuo il pellegrinaggio nel deserto della chiesa verso la nostra terra promessa, per donarle un popolo che dica con le opere: «Siate nostri imitatori come noi, in quanto popolo, siamo imitatori di Cristo».
Tra noi non c’è il ricco e il povero, padrone e servo, benefattore e beneficato, assistente e assistito. Tutti figli, tutti fratelli, spezziamo il pane sicuri di non mangiare la nostra condanna.
Per dieci anni (1953-1962) vado a messa come un laico qualsiasi. Vi lascio immaginare il mio sacrificio a sentire certe prediche! L’unica cosa, cui mi aggrappo con le vittime è quella briciola di pane innalzata sul mondo, che dice alla storia la verità ultima sull’uomo: «Avevo fame di fratelli e voi vi siete fatti miei fratelli».
Negli anni ’60, irrobustiti i figli, placati i creditori, chiedo di riprendere l’esercizio del sacerdozio. Il 6 gennaio 1962 salgo l’altare, con Barile e tutti gli altri figli, per celebrare la mia seconda prima messa.
Che cosa è rimasto della semente evangelica, che ho gettato a piene mani? Una comunità con una cinquantina di famiglie frateizzate, una tenuta di 380 ettari, sulla statale Siena-Grosseto: Nomadelfia, dove il sogno di un mondo fraterno vive e continua.
Fausto Marinetti