La parabola del «figliol prodigo»
Nessuno è escluso dalla tenerezza di Dio (2)
Il capitolo 15 del vangelo di Luca riporta (si dice comunemente) le «tre parabole della misericordia»: il pastore che ritrova la pecora perduta (vv. 4-7), la donna che ritrova la moneta smarrita (vv. 8-10) e infine il padre che ritrova i due figli perduti (vv. 11-32). Vedremo che le parabole non sono «tre», ma «due», ciascuna delle quali si prolunga in un doppione con un significato particolare. Ma procediamo però per gradi.
Il capitolo si apre con una introduzione ambientale: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (v. 1). Luca sembra che voglia esagerare, parlando di «tutti» i pubblicani e peccatori. Questa forma sintetica esagerata è costante nei vangeli, quasi a sottolineare che Gesù aveva in sé una forza attrattiva che non lasciava indifferenti, ma al contrario attirava con forza a sé quanti erano esclusi ed emarginati dal perbenismo religioso e sociale del suo tempo. Gesù attira i pubblicani e i peccatori come in Mc «accorreva (a Giovanni) tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme per farsi battezzare» (Mc 1,5), o come agli inizi della sua attività missionaria gli apostoli gli dicono entusiasti: «Tutti ti cercano» (Mc 1,37; cf Mt 12,23, ecc.).
Nessuno può esimersi dal fascino e «singolarità» di Gesù, che porta una parola tanto «nuova» e tanto attesa, che «tutti» la percepiscono come personale. Potremmo dire che con tale espressione gli evangelisti ci offrono un criterio di pastorale missionaria, che può codificarsi così: l’annuncio del vangelo non può mai essere «generalizzato» e «generalizzante» da divenire anonimo e amorfo; al contrario, esso deve essere sempre talmente «unico» che ciascuno deve sentirlo come rivolto soltanto a sé.
Lc ci vuol dire che i pubblicani e peccatori davanti a Gesù si sentivano «unici» e importanti: sapevano che Gesù parlava a ciascuno di loro con la libertà di chi non giudica e non condanna, ma si avvicina per chiamare e convincere. L’evangelista, infatti, sottolinea che pubblicani e peccatori si avvicinavano con lo scopo «di ascoltarlo» (v. 1), cioè, entrare in relazione vitale con lui, per lasciarsi coinvolgere dalla sua proposta rivoluzionaria e sconvolgente. L’espressione pubblicani e peccatori nei vangeli è quasi un modo di dire tecnico, per presentare due categorie di persone, considerate come la feccia della società dell’epoca, la cui sola vicinanza rendeva impuri: le persone religiose e pie si tenevano pertanto a debita distanza (Mt 9,9-13; 11,19; 21,31-32; Mc 2,13-17; Lc 5,27-32; 7,34; 15,1).
Di fronte a Gesù però, come è abituale nei vangeli, questi schemi sociali saltano. Pubblicani e peccatori, infatti, all’apparire di Gesù compiono due azioni: si avvicinano e ascoltano. I poveri e gli esclusi hanno le antenne pronte per captare il segnale della misericordia e dell’accoglienza, perché intuiscono che l’uomo Gesù non è un uomo qualsiasi, ma qualcuno che porta loro un annuncio folle: Dio è venuto per loro. Chi può venire apposta per un pubblicano? Chi può dire all’emarginato dal perbenismo religioso e sociale che egli è un «valore» fino al punto che Dio ha perso la testa per lui, peccatore o pubblicano?
Lo stesso Lc nel racconto della chiamata/conversione di Levi (5,32) fa dire a Gesù: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi»; e in quello di Zaccheo (19,10) dichiara espressamente che «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto». In Lc 15 tale concetto centrale si trova 4 volte, come un ritornello che ritma le due doppie parabole:
– v 6: «perché ho ritrovato la mia pecora perduta»;
– v 9: «perché ho ritrovato la mia moneta perduta»;
– v 24: «questo mio figlio era perduto ed è stato ritrovato»
– v 32: «questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato».
A l comportamento, abituale per Gesù, di stare con gente poco raccomandabile del v. 1, corrisponde un clima di opposizione da parte dell’autorità ufficiale del tempio: «I farisei e gli scribi mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
Questo contesto di opposizione è espresso dal «mormorio» di coloro che avrebbero dovuto invece «ascoltare» la novità di Dio perché sono «scribi e farisei», cioè i capi, i responsabili della formazione e crescita del popolo e gli specialisti della parola di Dio: essi infatti sono membri del sinedrio, che sovrintende la vita sociale e religiosa del popolo d’Israele. Solo le guide e maestri d’Israele, eppure non sanno riconoscere la novità di Dio (Gv 3,10) e mormorano. È il mistero della salvezza che si fa storia: coloro che dovrebbero «vedere» diventano ciechi e coloro che sono ciechi invece vedono/ascoltano (cf Lc 8,10). Ci troviamo di fronte al capovolgimento delle situazioni già descritto nel «Magnificat» di Maria (Lc 1,51-53) o nelle beatitudini (Lc 6, 20-26).
Per descrivere l’atteggiamento interiore degli scribi e farisei, Lc usa il verbo onomatopeico diegòngyzon che alla lettera significa borbottare/mormorare: si riferisce a colui che brontola sottovoce in malafede contro qualcuno per non farsi sentire, ma in modo che l’altro possa percepire il borbottio. Borbotta chi trama nell’oscurità. Lo stesso verbo e la stessa espressione si trovano in Lc 5,30: «I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?». In Lc 7,34 Gesù è accusato da farisei e dottori di essere «un mangione e beone, amico dei pubblicani e peccatori».
A gli occhi dei benpensanti del tempo (e di ogni epoca), Gesù appariva scandaloso, irritante, pericoloso: il suo atteggiamento di accoglienza verso i «delinquenti», immorali e deviati lo rivelava come un sovversivo dell’ordine costituito o, si direbbe oggi, del sistema.
Nell’Italia di oggi qualcuno lo avrebbe accusato di essere un pericoloso «comunista» e come tale bandito e crocifisso. Se vivesse fisicamente oggi, Gesù non starebbe certamente nei salotti buoni della borghesia, ma andrebbe per tutte le suburre della sua città, nei tuguri degli immigrati senza permesso di soggiorno, dormirebbe dietro i cancelli dei Cpt (Centri di prima accoglienza), radunerebbe tutte le vittime di qualsiasi ingiustizia e, senza cambiare una virgola, rifarebbe lo stesso discorso che fece trasalire i suoi compaesani nella sinagoga di Cafaao, tanto che lo costrinsero ad andarsene dal suo paese: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,18-20).
Poveri, prigionieri, ciechi, oppressi e ora pubblicani e peccatori. In Mt 21,31-32 addirittura pubblicani e prostitute sono portati a modello di fede e hanno la precedenza nel regno di Dio; in Mc 2,15 pubblicani e peccatori mangiano seduti a mensa con lui e, come al solito, le persone perbene e di buona educazione s’indignano per tale comportamento sconveniente.
«È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli» (Lc 7,34-35). Il vangelo della misericordia che Lc annuncia nel capitolo 15 è tutto qui: nessuno può dire di essere escluso dalla tenerezza di Dio. Nessun peccato è più grande di Dio (1Gv 3,20), nessun peccatore può giudicare se stesso più severamente di quanto non faccia Dio, che viene apposta per cercare la pecorella, per trovare la dramma, per salvare i figli perduti. Nessuno. Se qualcuno pensasse ciò, commetterebbe sì l’unico peccato imperdonabile in cielo e in terra: contro lo Spirito Santo (Lc 12,10).
Il tempo della chiesa, dice Lc, è il tempo «dell’anno di grazia del Signore», un prolungamento di tempo per dare a tutti e a ciascuno la possibilità di ritornare, l’occasione di farsi trovare. Allora e solo allora ci ritroveremo figli della sapienza (Pr 8,22), che sanno riconoscere la fonte della giustizia che in Dio si chiama misericordia.
Dai primi due versetti di Lc 15 dovremmo già sapere che l’evangelista ci vuole portare a scoprire la follia di Dio: abbandona, infatti, 99 pecore per andare a cercarne una sola perduta, così come mette sottosopra la casa per trovare una moneta smarrita. Nella seconda parabola abbiamo un padre che si lascia squartare da due figli pur di farli vivere attraverso la sua stessa vita e recuperarli a sé stesso e tra di loro.
A bbiamo detto che le parabole non sono «tre», ma «due». La narrazione vera e propria, infatti, inizia con il v. 3: «Ed egli disse loro questa parabola». Si usa il verbo narrativo per eccellenza (il passato remoto «disse») e subito dopo si usa il singolare «questa parabola», a cui seguono di fatto due racconti: il pastore e la pecora (15,4-7), la donna casalinga e la moneta (15,8-10).
La parabola è unica, ma è illustrata da due esempi. Dopo avere introdotto, infatti, al v. 4 il primo esempio del pastore che perde e trova la pecora con una domanda interrogativa: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia…», l’autore prosegue lo stesso ragionamento al v. 8 con un’alternativa: «Oppure quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende…». Letterariamente vi è una precisa corrispondenza tra i due esempi: chi di voi… oppure quale donna? L’evangelista descrive una sola parabola a due membri o un doppio esempio, uno maschile e uno femminile, dello stesso insegnamento. Un uomo e una donna, cioè la totalità del genere umano, perché nessuno può essere escluso o può escludersi dalla salvezza che Gesù porta in dono a nome del Padre.
Al v. 11 ritroviamo di nuovo per la seconda e ultima volta il verbo narrativo (sempre al passato remoto) «e disse», che introduce la seconda parte del capitolo. Questo duplice uso dello stesso verbo narrativo «disse» è un indizio notevole che per Lc le parabole sono due e non tre.
I l verbo introduce la seconda parabola: del padre e figlio minore (15,11-24), prolungata nella relazione dello stesso padre con il figlio maggiore (15,25-32).
Anche qui abbiamo una parabola a due membri, in cui i protagonisti sono tre uomini: un uomo anonimo e due figli. L’insegnamento è lo stesso della prima parabola, ma prospettato da due angolature diverse: la prospettiva del figlio minore e quella del figlio maggiore, ambedue collegati dalla figura del padre. I due figli nella parabola non s’incontrano mai, non si parlano, sono estranei: l’unico collegamento tra loro è il padre: anche quando i fratelli sono distanti tra loro o addirittura nemici e nessun dialogo intercorre tra loro, essi continuano a comunicare attraverso la vita del padre, attraverso cioè un canale che li supera e li contiene.
Questo vale in ogni circostanza per ciascuno di noi, nella propria esperienza di vita. Ma vale anche a livello geopolitico, riguardo ai tre popoli che si richiamano idealmente al comune padre Abramo: ebrei, musulmani e cristiani. C’è chi vuole la guerra di religione anche attraverso il terrore di uomini-bomba, c’è chi vuole una nuova crociata in difesa di un concetto di civiltà inesistente e c’è chi vuole che il cristianesimo si presti a fare da baluardo contro gli immigrati, specialmente i musulmani, brandendo il crocifisso come simbolo di una identità nazionale che è la negazione dell’universalità di quel simbolo.
In questo contesto, poiché tutti e tre i popoli fanno riferimento ad Abramo e al suo Dio, anche senza saperlo e senza volerlo, essi sono in comunione tra loro perché ogni volta che attaccano gli altri, anche uccidendo, essi ne diventano sempre più parte, sempre più intimi. Essi non sanno che possono agitarsi, possono armarsi, possono uccidersi, ma il loro destino è già segnato: sono condannati a ritrovarsi figli dello stesso Padre, il quale nonostante le apparenze li sta guidando verso un percorso che si concluderà con il riconoscimento reciproco della propria figliolanza e della propria frateità.
Non si può credere in Dio ed essere estranei agli altri. Non si può essere figli di Dio e non riconoscere negli altri i propri fratelli, cioè la carne della propria carne e il sangue del proprio sangue. La pateità è la roccia su cui poggia la frateità e la frateità non può escludere del tutto la pateità, perché il figlio è figlio solo perché c’è un padre e un fratello può anche rinnegare il fratello, ma non del tutto, perché verrà un giorno in cui la pateità avrà il sopravvento e rigenererà i fratelli riportandoli alla stessa mensa della vita.
La parabola del padre e i due figli è la parabola dell’umanità intera di ieri e di oggi; se oggi Lc fosse tra noi scriverebbe la stessa parabola per dare una risposta agli immani problemi che assillano l’umanità a causa della stupidità dei fratelli che perdono tempo a uccidersi, sapendo che prima o poi dovranno ritrovarsi, convivere e aiutarsi.
Il capitolo 15 ha un orizzonte grande, ampio, universale; l’applicazione della sua catechesi non ha confini. Essa si rivolge a uomini e donne in qualsiasi situazione si trovino, in qualsiasi ambiente tentino di realizzare la propria vita:
– c’è un uomo, il pastore, e c’è una donna, la casalinga;
– c’è un animale, la pecora, e c’è una cosa, la moneta;
– c’è il fuori del deserto e c’è il dentro della casa;
– c’è un uomo che è padre anonimo e ci sono due figli anonimi;
– c’è il figlio minore che uccide il padre e il figlio maggiore che odia il padre e il fratello;
– c’è un paese lontano che è l’esilio e c’è la coscienza dell’abiezione che sono i porci;
– c’è il ritorno del figlio minore e l’accoglienza senza misura del padre;
– c’è la gioia e anche la festa in terra insieme all’allegria del cielo.
Le due doppie parabole non sono scritte da Lc per edificarci a buoni sentimenti; al contrario, sono scritte per noi, per chi legge, per l’uomo e la donna di tutti i tempi, di ogni tempo, per me qui e ora, stimolati a essere felici di gioia nell’impegno di una disperata ricerca di cose perdute e trovate. L’uomo-pastore-pecora-deserto fa da parallelo alla donna-moneta-casa, quasi a dire che nessuna situazione della vita può estraniarsi dalla presenza di Dio che viene a fare le cose più impensabili, come rischiare la vita stessa pur di salvare una sola pecora. Il padre non tiene conto del suo patrimonio, perché egli dà la sua stessa vita per i figli, anche se ribelli.
Le due parabole sono anche una esasperazione che contrappongono il comportamento di Dio a quello degli uomini. Questi hanno un concetto di giustizia feroce: non puntano a salvare l’uomo, ma solo a punirlo, secondo il principio apparentemente corretto che chi sbaglia deve pagare. Dio, al contrario, ha un senso di giustizia diverso, opposto a quello dell’uomo: chi sbaglia deve essere salvato, a ogni costo.
Il motivo risiede nella natura stessa di Dio, il quale è Dio non è uomo: «Sono Dio non uomo, sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). In Dio, infatti la giustizia s’identifica con la misericordia perché il Dio di Gesù Cristo che non ha esitato ad abbandonare il Figlio sulla croce per salvare l’umanità (Mc 15,34) è il Dio giusto perché perdona. [continua-2]
Il termine pubblicano (in greco telônês) è un latinismo che designa il funzionario dell’amministrazione: pubblicanus, cioè agente commerciale privato, che aveva in appalto la riscossione delle tasse per conto del governo romano. Per esercitare il diritto di riscuotere le tasse in una data regione, egli riceveva una somma fissa annua, calcolata sulla previsione delle entrate, valutate al ribasso per dare all’esattore/pubblicano lo stimolo e la convenienza.
Egli aveva tutto l’interesse a riscuotere «ogni» tassa perché, doveva dare allo stato solo quanto aveva pattuito e quindi teneva per sé tutta l’eccedenza dell’incasso. In questo sistema gli abusi erano frequenti.
Accanto ai pubblicani ufficiali, vi erano esattori di grado inferiore, di norma arruolati presso le stesse popolazioni tassate: essi erano dei subaltei in sub-appalto, che avevano interesse a fare pagare quanto più potevano per guadagnare anche loro.
Nel vangelo solo Zaccheo (Lc 19,2) non è un subalterno, ma un capo degli esattori (architelônês). Questi esattori erano odiati dal popolo, sia in quanto esattori e sia in quanto truffatori e ladri, ma specialmente perché erano collaborazionisti del nemico oppressore. Matteo (Mt 9,9) e/o Levi (Mc 2,14; Lc 5,27), uno del gruppo dei dodici era un pubblicano chiamato direttamente mentre raccoglieva le imposte (Mt 10,3).
SCRIBI, FARISEI E SINEDRIO
Gli scribi al tempo di Gesù erano gli studiosi del giudaismo ufficiale tramandato nella Toràh scritta (bibbia) e nella Toràh orale (la tradizione dei saggi, che verrà raccolta per iscritto nella Mishnàh e Talmud solo tra il ii e il iv secolo d.C.). Formavano la categoria degli intellettuali dell’epoca, coloro che sapevano leggere e scrivere e, pur non appartenendo a nessuna setta particolare, erano molto vicini alla corrente dei farisei, gli interpreti rigidi del giudaismo.
Essi avevano il titolo di rabbi-maestro/guida e svolgevano anche la funzione di giureconsulti, giudici e consiglieri: seduti nel porticato del tempio, dirimevano problemi e questioni legali che la gente portava alla loro attenzione.
Mt 7,29 dice che Gesù, anch’egli rabbi, ma itinerante, insegnava con autorità, ma non come gli scribi, per dire che l’insegnamento di Gesù non si fondava su una scuola, anche se antica, ma era personale, nuovo e originale come si può osservare nel discorso della montagna di Mt, dove Gesù stesso per ben sei volte contrappone il suo insegnamento a quello della tradizione: «Vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt 5,21-22. 27-28.31-32.33-34.38-39.43-44).
I farisei (ebr. perushìm; aram. perishayyàh = separati). La loro origine risale al sec. i a.C. al tempo dei Maccabei. Sono citati da Giuseppe Flavio come la prima delle tre correnti filosofiche accanto ai sadducei e agli esseni (Guerra Giudaica, ii,8,2,119; Antichità Giudaiche, xiii,v,9,171). Lo stesso Flavio dice che essi insorsero contro il re Giovanni Ircano (135-104 a.C.), che svolgeva anche il ruolo di sommo sacerdote e per questo considerato un usurpatore: «Tanto grande era il loro influsso tra la folla che anche quando parlano contro un re o contro un sommo sacerdote hanno credito immediatamente» (A.G, xiii,x,5,288).
Sono laici e non svolgono funzioni sacerdotali di alcun genere, ma insieme alla casta sacerdotale, i sadducei, fanno parte del sinedrio. Dopo la distruzione del Tempio e l’interdizione agli ebrei di risiedere in Gerusalemme e in Giudea (70 e 135 d.C.), fu l’unica corrente di pensiero sopravvissuta che continua ancora oggi nell’ebraismo moderno.
Il sinedrio (gr. synèdrion) è il supremo consiglio che governa Israele come autorità religiosa e civile, sotto il periodo della dominazione greco-romana. Nell’AT è citato nei libri dei Maccabei che sono databili al sec. i a.C. (1Mcc 11,23; 12,6; 14,28; 2Mcc 1,10; 4,4; 11,27). Al tempo di Gesù era formato da tre classi: gli anziani, ossia i più anziani tra i capi famiglia e tribù; i sadducei che foivano i sommi sacerdoti, gli scribi e farisei; vi appartenevano di diritto gli ex sommi sacerdoti. Era formato da 71 membri, compreso il sommo sacerdote in carica, che durava un anno e svolgeva la funzione di presidente.
Al tempo di Gesù la sua giurisdizione era limitata alla Giudea (sud Palestina), mentre la Galilea (nord Palestina) ne era esclusa. Il sinedrio aveva una certa autorità anche sotto il dominio romano: poteva imporre tasse proprie, emanare leggi e condannare anche a morte, ma non aveva il potere di eseguire la condanna (ius gladii, potere della spada) che era riservata solo ai romani. Il sinedrio vide in Gesù e nella sua predicazione un pericolo per la sopravvivenza stessa del giudaismo.
Paolo Farinella