Il ponte sullo Spreca
Dopo i 10 lunghi anni di guerra condotti negli anni Novanta fra le popolazioni della ex Jugoslavia, le giovani generazioni possono realmente giocare un ruolo attivo nel processo individuale e collettivo di elaborazione costruttiva del dolore e nella ricostruzione non solo materiale del proprio paese? Nove ragazzi tra i 16 e 20 anni, 4 musulmani e 5 serbi, sono da anni impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica delle comunità a cui appartengono.
Per secoli, serbi e musulmani che abitavano lungo il fiume Spreca erano convissute pacificamente. Poi, con lo scoppio della guerra serbo-bosniaca, tutta la regione da esso attraversata diventò teatro di combattimento tra l’esercito dei serbi bosniaci (sostenuti dalle truppe regolari serbe) e le forze spontanee delle comunità musulmane: sulle sue sponde si sono consumati scontri continui tra persone che fino a poco tempo prima si erano sposati e imparentati, costituendo numerose famiglie miste.
In base agli accordi di pace di Dayton del dicembre 1995, questo confine naturale costituisce anche la linea di separazione fra la comunità di Orahovica, paesino della Federazione musulmana croata di Bosnia, e Petrovo, cittadina della Repubblica serba di Bosnia. Per molti anni, nonostante la guerra nei suoi aspetti più distruttivi fosse finita, tale confine fu considerato invalicabile dagli abitanti delle due parti.
La paura costituiva un blocco che inglobava, però, la necessità di ricominciare. Da un lato, gli adulti sembravano come paralizzati, in lotta con i fantasmi del passato, mentre i giovani venivano trasportati dalle esigenze dell’età. Fra questi ultimi, però, vi erano Sheila Dugic, Verko Popadic, Samina Ahmetovic, Sulio Ahmetovic, Rade Cvijanovic, Jelica Mihajlovic, Ivana Todorovic, Alma Becic, Svetlana Ceca Petrovic, che non potevano e non volevano farsi scivolare addosso l’adolescenza.
Da tempo, questi 9 giovani tra i 16 e 20 anni, di etnia mista, quattro musulmani e cinque serbi, sono impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica tra le comunità di Orahovica e Petrovo a cui appartengono.
A raccogliere le istanze di questi giovani e incanalarle in un processo di riconciliazione è un gruppo di italiani di Cremona, che opera nella zona dalla fine della guerra, portando aiuti umanitari. «Quando iniziammo a portare gli aiuti alle due comunità, svolsi anche il ruolo di messaggero – racconta Maurizio Furgada -. Andavo da una parte all’altra in bici, portando dei bigliettini che le famiglie si inviavano. A questi contatti facemmo seguire l’organizzazione di corsi separati di computer, italiano, inglese; poi lanciammo l’idea di prenderci una vacanza nel mare del Montenegro, riunendo in un solo gruppo i ragazzi delle due parti».
Nell’estate 2002 il direttore didattico della scuola di Orahovica, Adburaman Dzinic, mette a disposizione la casa di villeggiatura per l’occasione. Nel clima vacanziero, notando l’affiatamento dei ragazzi, Maurizio Furgada e Stefano Cirelli propongono loro di costituire un gruppo interetnico per elaborare le esperienze vissute e per interrogarsi su temi che li toccano da vicino: conflitto, diritti umani, discriminazioni, pregiudizi.
L’idea è accolta con entusiasmo e da quel momento i ragazzi cominciano a lavorare per consolidare e far maturare il gruppo. Nel luglio 2003 i ragazzi furono ospitati da alcune famiglie cremonesi per due settimane di svago e formazione; successivamente, alcuni di essi ricambiano l’ospitalità, accogliendo a casa loro tre ragazzi della città italiana, dando vita a uno scambio ancora in corso.
Intanto maturano le riflessioni. I giovani cominciano ad avvicinarsi a certe tecniche che permettono di mediare i conflitti e prevenie l’escalation violenta. Indagano sulla natura della violenza e analizzano le cause dei conflitti, non solo sul piano del coinvolgimento di nazioni o fazioni, ma anche a livello più domestico, come nei casi di dissidio fra due amici; esplorano le posizioni, gli interessi, i bisogni primari messi in gioco in ogni conflitto; ricercano gli stili risolutivi, provano a immaginae una trasformazione costruttiva.
In tale approccio perde di valore il confronto vincere/perdere. Si evidenzia la capacità di promuovere rapporti di collaborazione nelle diversità, il dialogo, il riconoscimento reciproco, l’ascolto e partecipazione.
Con tali tecniche, si scopre che il conflitto ha un connotato positivo, poiché è occasione di incontro tra bisogni, interessi, visioni opposte e apparentemente inconciliabili. Fondamentali sono le modalità con le quali lo si gestisce e risolve.
Il 2003 è pure l’anno della fondazione della scuola di pace «Fabio Moreni» (volontario di Cremona, ucciso il 29 maggio 1993 presso Goj Vakuf, insieme a Sergio Lana e Fabio Puletti, componenti un convoglio umanitario). Tale scuola è formata dai ragazzi e i direttori didattici delle scuole bosniache, che accolgono il gruppo per farlo lavorare, e dagli italiani, che nel frattempo hanno costituito allo scopo l’associazione di volontariato «Iniziative spontanee di solidarietà fra i popoli» (Issp).
«L’originalità del progetto sta nel voler “costruire” ambasciatori di pace, partendo da candidati che portano ancora addosso le conseguenze tragiche di quegli eventi – spiega Furgada -, non quindi bravi funzionari, maestri della teoria come potremmo al limite diventare noi, ma veri attori, capaci di recitare la loro parte nelle trame che portano alla risoluzione delle divisioni fra popoli. Questi ragazzi stanno superando in concreto le barriere che altri hanno costruito per loro».
La creazione della scuola porta in sé un significato più ampio, il direttore della scuola di Petrovo, Jovo Jovovic, quando accompagnò il gruppo nella prima visita a Cremona, affermò: «L’esempio portato da questa esperienza contribuisce a frantumare il muro eretto dalla guerra». «È un modo per rendere i ragazzi consapevoli delle possibilità di pace che dimorano dentro di loro. Ai loro genitori va il merito di aver staccato la corrente che li legava in modo quasi indelebile al passato e a quello dei loro genitori per dare ai ragazzi questa possibilità che sapevano bene di non aver mai avuto» continua Furgada.
Durante i corsi di formazione a Cremona e poi nel gennaio 2004 in Bosnia, i ragazzi elaborano e maturano i concetti acquisiti attraverso giochi, simulazioni, rappresentazioni teatrali. «Quando scoppiò la guerra avevo quattro anni – dice Jelica, di origine serba, in un’esercitazione in cui doveva scrivere una lettera ad un amico israeliano – e non sapevo neanche il significato della parola. Mi limitavo a chiedere che cos’è la guerra. È stato orribile crescere in quegli anni.
Il brutto è che ben presto finisci per abituarti alla violenza, che diventa un qualcosa di normale nella vita di ogni giorno. Non capivo perché non mi era permesso di uscire dalla mia casa. Se devo proprio imparare una lezione da quei giorni terribili del mio passato, allora vorrei usarla per chiedere di pensare a ciò che ti sta succedendo. Davvero vuoi la guerra? Immagina di vedere te stesso nelle condizioni dell’altro e ti accorgerai di come può pensarla lui».
Sheila, musulmana, scrive ad un amico palestinese: «Noi, che abbiamo sofferto le conseguenze della guerra, dobbiamo essere in grado di indicare una nuova via di pace. Cerca di parlare con la tua gente, cerca di persuaderla a tentare di cambiare il loro approccio ai problemi, di smetterla di gridarsi contro. Fa’ in modo che considerino le loro pretese nei confronti degli altri con rispetto e forse allora potremmo trovare la via verso la risoluzione».
Sheila sfuggì con la famiglia alla pulizia etnica che travolse Olovo, piccolo paese perso tra le montagne sulla via che da Sarajevo porta a Tuzla. Sostarono un anno in un campo profughi vicino ad Orahovica; ora il padre è riuscito a trovare un lavoro e a costruire, nel paese di adozione, una piccola casa.
Un’idea lega i 9 giovani: tutti gli uomini sono uguali e allo stesso modo diversi; l’identità di ognuno deve essere rispettata.
Il concetto emerge più volte nelle discussioni guidate, in particolare in relazione ad alcune letture sul popolo cherokee, nell’episodio ricordato come «trail of tears» (sentirnero di lacrime). Nel 1838 e nel 1839, la nazione cherokee fu costretta ad abbandonare le proprie terre ad est del fiume Mississipi e migrare nell’area oggi chiamata Oklahoma: una marcia forzata con effetti devastanti e la morte di oltre 4 mila indiani cherokee, per questo chiamata trail of tears.
Samina fu costretta ad abbandonare la sua terra, Srebrenica, e a sopportare l’uccisione del padre nella strage compiuta in città. Si immedesima nel nativo americano e si rivolge, in uno scritto, a un immaginario amico bianco: «Abbiamo cominciato ad arrampicarci come capre per raggiungere la nostra destinazione, dove pensavamo che avremmo vissuto pacificamente. Ma la pace è durata solo due settimane, quando i bianchi sono tornati per obbligarci a lasciare anche quel posto. Se qualcuno della tua famiglia moriva, bisognava portarlo nelle proprie braccia e continuare, in lacrime, distrutti dal dolore. Portare un padre morto nelle braccia non è cosa da niente. In quel momento ti è solo concesso di piangere, maledire chi ti ha fatto questo. Ti prego, cerca di capire il mio sfogo. Perdonami per l’odio che provo verso l’uomo bianco; ma ricorda che io ti considero mio amico e so che non sei come loro».
Sheila rimarca, nello stesso esercizio, l’importanza di evitare le generalizzazioni: «È stato difficile vedere la tua gente farsi beffa del nostro dolore. Tutto ciò che la tua gente ha fatto alla mia è un’ingiustizia totale, frutto di razzismo; ma la tua amicizia è il più bel regalo per me, riesce in parte a lenire i sentimenti d’odio e tristezza che mi porto dentro».
Dopo tre anni di lavoro, il gruppo si sente pronto a trasmettere le nozioni acquisite sui banchi della scuola di pace e l’esperienza viva dell’incontro con l’altro.
Attraverso la collaborazione con l’associazione di volontariato Faros di Atene, nell’estate 2004, i 9 partono alla volta della capitale greca; a loro si uniscono quattro ragazze e un ragazzo di Cremona. Per la prima volta conducono la formazione di un gruppo di coetanei greci. Una volta tornati in Bosnia, i ragazzi, entusiasti, esprimono la volontà di migliorarsi nelle competenze raggiunte e nella capacità organizzativa.
Il gruppo dedica le settimane finali di luglio 2005 alla elaborazione di nuovi materiali dialettici e concettuali, acquisiti con l’esperienza greca, e alla organizzazione delle giornate in cui si sperimenteranno nuovamente come formatori. L’avventura formativa ha un simbolico inizio: una festa svolta nella scuola di Orahovica, che coinvolge i genitori, 12 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, i direttori didattici. L’organizzazione è rigorosamente interetnica. Così il cerchio si allarga; i nuovi partecipanti appartengono ad altre due comunità: quella musulmana Dobosnica e quella serba Krtova (frazione della prima).
In quel caldo pomeriggio estivo, musulmani e serbi, di generazioni diverse, si avvicinano timidamente. Sullo sfondo dell’aula appaiono appesi i poster che illustrano i pericoli delle mine antiuomo e ricordano il peso del passato.
«Credo e ho sempre creduto in questo progetto – esordisce Jelica – e sento la responsabilità verso il gruppo e verso mia sorella di 14 anni, che voglio che impari qualcosa di nuovo per la vita. Voglio essere utile a tutti».
Svetlana di Petrovo prosegue: «È mio desiderio mettere in pratica ciò che ho imparato in questi anni, all’inizio è stato un gioco, ma ora è scuola; ed è qualcosa dentro di me che uso per migliorare i miei rapporti con la gente». Sulio, che con la cugina Samina condivide il triste esodo e il massacro del padre, conclude: «Dobbiamo creare legami fra noi sempre più forti».
È l’inizio di un alternarsi di giornate, tra le aule scolastiche di parte musulmana e serba, in cui si fa strada un difficile equilibrio, costituito dalla volontà di comunicare neutralità e apertura verso le comunità.
Il nuovo gruppo, quello composto dai ragazzi più giovani, mostra da subito una disinvolta capacità di amalgamarsi; capacità che progredisce di esercizio in esercizio e che li differenzia dai loro formatori. Questi, infatti, necessitano ancor oggi di qualche spinta estea per non creare gruppi monoetnici, a dimostrazione del fatto che più è lontana la memoria diretta della guerra più è naturale l’incontro fra gruppi diversi.
«È bene che i miei figli facciano quello che noi non facciamo più» dice Boro Stamenic, padre di Milka, dodicenne serba, scampata al rogo della sua casa nel 1996, cresciuta in un campo profughi vicino a Belgrado e ora di nuovo nella casa ricostruita.
Gli adulti hanno ricordi vividi e forse insormontabili: le case bruciate e sventrate, lasciate per non morirci dentro; i faticosi ritorni alla propria terra dopo anni da profughi; le catene di torti, rivendicazioni, odi subiti e perpetrati; le ferite sulla pelle, gli arti mancanti e gli affetti perduti.
Il nazionalismo più fanatico è tuttora presente e domina il contesto economico, politico, sociale e culturale. La linea di confine, tracciata 10 anni fa a 10 mila chilometri di distanza, è nella carta, nella terra e nella mente. Così è possibile che sulla scrivania dell’ufficio del direttore della scuola di Krtova, che ha ospitato parte delle attività estive dei ragazzi, campeggi una cartina della Serbia e, dietro, un quadro di principi serbi.
I luoghi di divertimento sono separati e hanno nomi che definiscono in modo netto la provenienza culturale. E i genitori, fra i quali si contano molti ex combattenti, indietreggiano di fronte a un loro impegno in prima persona.
Sul fronte istituzionale, del resto, nessuna autorità promuove veramente la riconciliazione. Gli attori inteazionali riconosciuti (Onu, Nato, Osce, Eu, chiese) hanno, per diverse ragioni, ridotto notevolmente gli sforzi in tal senso. Queste popolazioni sono lasciate pressoché sole a cercare una nuova forma di convivenza non violenta se non proprio pacifica.
C’è ancora il bisogno di terze parti imparziali ed estee, che favoriscano il riavvicinamento fra le etnie e che sappiano introdurre nel dialogo contenuti di rispetto per la dignità umana. È d’importanza vitale la creazione di occasioni d’incontro e dialogo fra le comunità, oltre a quelle che spontaneamente crea il commercio. Spesso avviene che si superi il confine per andare ad acquistare beni che dall’altra parte sono più convenienti.
A fronte di tutto ciò, ecco che l’esperimento di Orahovica e Petrovo assume la valenza di progetto pilota per la ricerca della pacificazione interetnica. E il risultato sembra essere posto esclusivamente nelle mani delle giovani generazioni, alle quali è richiesto di svolgere il lavoro più imponente nel processo personale e collettivo nel superamento dei risentimenti e nella riappacificazione dei cuori, per creare una dimensione dinamica della pace che vada al di là delle logiche di potere.
Silvia Bianco