Gomitolo di storie

Nel barrio (quartiere) Guaricano, periferia nord di Santo Domingo, una volta conosciuto come «barrio della spazzatura», dal 1991 operano due preti genovesi e quattro suore di N. S. del Rifugio in Monte Calvario (Brignoline). La loro presenza si intreccia in una matassa di storie di ordinaria vita quotidiana, non tutte a lieto fine.

Il ragazzo ha una testa enorme, sproporzionata al resto del corpo. Sei mesi dopo, lo scrivo come l’ho pensato, rettifica compresa: il ragazzo sembra avere una testa enorme, sproporzionata rispetto al corpo. Il fatto è che il corpo non ce l’ha, povero ragazzo di Barrio Guaricano, fulminato da non so quale malattia che gli ha storpiato gambe e braccia, rattrappendo il tronco e lasciando solo alla testa la libertà di svilupparsi secondo natura.
Avrà 18 anni, passati tutti fra un letto e una seggiolina, o strisciando sul pavimento della baracca di casa, nel ventre di uno dei posti più desolati e desolanti del mondo, nella parte di Santo Domingo che le cartoline e i begli spot promozionali non fanno vedere e, chi prenota una vacanza, scopre soltanto dopo, ma subito dimentica, perché la barriera corallina e la bellissima gente dominicana sono tutta un’altra cosa. E in fotografia vengono meglio.
Il mio fratello di reportages missionari si chiama Tito Mangiante e usa la telecamera con la leggerezza con cui farebbe il bagnetto a un neonato: è così delicato e rispettoso che a volte l’inquadratura somiglia a una carezza; e così racconta con garbo anche le cose che si faticano a guardare.
Così nei servizi che ho fatto per il mio telegiornale (quello che tutti conoscono come Tg3 regionale, nel mio caso Tg3 Liguria, si dovrebbe dire TgR Liguria, ma dite come vi piace), sono riuscito a far vedere il ragazzo dalla testa che sembra enorme, senza che nessuno abbia pensato a una spettacolarizzazione del dolore. Ho voluto farlo vedere, questo ragazzo, perché da noi starebbe nelle camere che non si visitano di qualche ospedale, e invece laggiù vive insieme agli altri, non è solo né vittima di curiosità morbose, l’ho visto sorridere, benché affondato nella sedia a rotelle dal telaio rosso fuoco.
Non dico sia stata una lezione; non ho mai pensato che il giornalismo sia dare lezioni, essendo la testimonianza il solo compito richiesto a chi ha il privilegio di essere testimone; dico privilegio perché il testimone vede e riflette senza mediazioni la realtà mentre si svolge, tutti gli altri devono accontentarsi di sentirsela raccontare. Niente può compensare la possibilità di essere occhi, orecchie e cuore del resto dell’umanità.
È un dono che diventa responsabilità e la sento, questa responsabilità: nel lavoro quotidiano, nel lavoro straordinario che una volta all’anno vado a fare da qualche parte nel mondo, per documentare attività missionarie, che oggi più che mai non devono restare sconosciute.
Quanto più i mezzi di comunicazione danno spazio agli argomenti futili, tanto più mi pare importante sventolare qualche bandierina diversa e rivendicarne la piena dignità; se ogni scelta ha proprie inossidabili logiche (è così, ma se ne può discutere) le scelte d’amore e di frateità vanno testimoniate negli spazi della normale informazione quotidiana, perché sono testimonianze di vita quotidiana.
D ico questo perché il filo che con Tito sono andato ad avvolgere in un gomitolo di storie, a Santo Domingo, ci ha portati a frugare fra le baracche di Barrio Guaricano; ma anche intorno agli ombrelloni di Boca Chica e a quelli di Samanà, non distanti dalla spiaggia che viene truccata da isola in un noto reality televisivo. Poi abbiamo visto e non dimenticheremo la Explanada de la verguenza, la spianata della vergogna, sulla quale incombe il Faro a Colón (Cristoforo Colombo), brutto monumento, che ha la pretesa di far sintesi dell’umanità e di porsi come principio del Nuovo Mondo.
Però abbiamo visto anche la «Prima Università», la sobria e sorprendente «Prima Cattedrale» (con la targa che ne ricorda la consacrazione a basilica, firmata dal genovese Benedetto xv), perfino i nobilissimi resti del «Primo Ospedale», intitolato a san Nicola di Bari. In realtà è stato un modo per celebrare il viceré Nicolas de Ovando, passato alla storia certo per la sua abilità di governatore delle terre d’oltremare, ma anche per aver sterminato gli sventurati tainos. Sono quelli che, all’arrivo di Colombo, avevano accolto l’ammiraglio con ingenua cordialità: gli stessi che, dopo la cura Ovando, scomparvero senza lasciare alcuna traccia di sé, a parte quelle che gli archeologi sanno ritrovare e valorizzare come reperti storici.

Così nella matassa sono rimasti immagini e appunti che a volte sembrano avere poco, o comunque meno, a che fare con il cammino pastorale di don Lorenzo Lombardo e don Paolo Benvenuto, insomma con l’impegno della missione diocesana di Genova a Santo Domingo, intensamente vissuta anche dalle suore, che, appartenendo all’ordine delle Brignoline, issano un’altra bandiera con i colori e la croce di San Giorgio.
È vero, a volte certi argomenti possono sembrare fuorvianti, ma servono a costruire ipotesi di contesto ed è questo che rende possibile collocare le cose e le storie, percepire le sensibilità, tastare il terreno, sentire se e dove ci sia uno spazio di dialogo.
Per capire il contesto, una sera abbiamo accompagnato don Paolo in uno studio televisivo (una sorta di Telepace dominicana) e abbiamo partecipato a una messa in diretta, osservando con sorpresa ed emozione il nostro tuo di preghiera; con suor Serafina siamo andati fra i malati del barrio, entrando nelle loro poverissime case; sull’ambulanza di don Lorenzo abbiamo girato la città coloniale, vedendo e toccando i segni del suo essere stata avamposto della Vecchia Europa nel Nuovo Mondo.
Ma siamo arrivati anche nella discarica di Duquesa, dove bambini di 12 anni raccolgono bottiglie rotte e si dissetano spremendo cartocci di bevande presi nella spazzatura: abbiamo registrato i loro sguardi, le loro esplosioni di infantile arroganza, le loro confessate paure di morire sotto un carico di rifiuti o per una infezione, la desolata ammissione che «qui nessuno va a scuola, perché nessuno si occupa di noi e noi dobbiamo procurarci almeno da mangiare».

Abbiamo assaggiato anche la Santo Domingo dei vincenti. Ci ha aiutati l’esuberante ed efficientissimo Aldo Burzatta, portavoce degli italiani residenti. In seguito alle sue segnalazioni abbiamo incontrato uno degli uomini più ricchi dell’isola, il simpatico figlio (il primo di cinque) di un pizzaiolo napoletano che scelse la terra dominicana per riunire la famiglia, non potendo farlo negli Stati Uniti per i vincoli posti dalla legge sull’immigrazione: ricordando i tempi difficili, a Natale fanno in modo che sia festa anche per qualcun altro.
Sempre Burzatta ci ha fatto incontrare un romagnolo con una casa da film: fra luglio e agosto l’ha trasformata in scuola d’italiano per i figli dei connazionali, con la speranza di riuscire a passare dalla fase sperimentale all’insegnamento legalmente riconosciuto: è una persona intraprendente, con interessi nei settori alberghiero e commerciale, grande senso del proprio successo, peccato abbia ripetuto l’invito a pranzo ammiccando un «non preoccupatevi del conto, perché è tutto pagato da me».

Toando ai piani bassi, quelli che francamente ci interessano di più, abbiamo conosciuto la storia di Mamà Tingò, Donna Coraggio, che 30 anni fa non ebbe paura di sfidare i terratenientes che si erano impadroniti delle terre da sempre appartenute ai campesinos, che le lavoravano ricavandone appena di che vivere: la uccisero davanti a testimoni, senza preoccuparsi delle conseguenze. Un sacrificio che purtroppo non è servito: nessuno dei campesinos ha conservato la propria terra; Mamà Tingò non ha avuto nemmeno un monumento dignitoso.
Una storia triste. Del resto è difficile trovare storie a lieto fine cercando fra i disperati. Per esempio, finiscono male, ogni anno, 250 ragazzi del Guaricano, risucchiati dalla vita di strada e morti di morte violenta.
Uno ogni 36 ore resta vittima di un tiroteo con la polizia, ci racconta Francesco Zannini, volontario della Missione diocesana di Genova: «A volte perché lo scontro a fuoco aveva qualche motivo, a volte perché in certi posti basta non rispettare uno stop e si finisce ammazzati».
In questi casi la strada viene disseminata di candele accese e le scarpe del morto vengono appese ai fili della luce, come aquiloni finiti male: nel linguaggio del barrio, è il segno che lì è stato compiuto un sopruso.
È vita quotidiana. «Qui manca qualunque possibilità, ecco perché si vive nella violenza» ci dice il farmacista, mentre sistema grossi lucchetti alle saracinesche della sua tienda. Oltre la cinquantina, brizzolato, occhiali con la montatura in metallo, modi gentili, accompagnato dalla moglie, una signora elegante, dalla cinta dei pantaloni gli spunta il calcio di una pistola: «I delinquenti sono armati, dobbiamo esserlo anche noi: se vedono la pistola ti lasciano stare, altrimenti ti rapinano, ecco perché qui tutti girano armati». La sua, dice, non ha mai sparato.

In questa città disordinata e dalle contraddizioni sociali in piena evidenza, dove viadotti mozzafiato nascondono alla vista la sterminata baraccopoli cresciuta lungo il fiume, a poca distanza dalla discarica si incontra la Città Modello, una zona residenziale totalmente autosufficiente, in cui però non abita nessuno.
Più avanti, percorrendo Calle Emma Balaguer, si sfiora la Cañada, un quartiere-fogna, cinque metri sotto il livello della strada, in cui la gente vive ammucchiata in baracche ad alto rischio. «Lo scarico è a cielo aperto; oggi si sente solo la puzza, ma quando piove diventa pericoloso – ci hanno detto Iris Valensuela e Juan Reyos -. Qui si allaga tutto, la fogna entra nelle case». Starebbero volentieri altrove, ma sono troppo poveri per comprare casa da un’altra parte.
I bambini giocano lungo il fiume maleodorante e nero; gli uomini rinforzano il piccolo argine a protezione della propria baracca. Qui la speranza di vita è così bassa e la povertà così spessa, da non poter portare in ospedale una bambina che ha smesso di camminare dopo essere caduta dalla sedia.

In questa città ci è piaciuto sentire ancora vivo il ricordo di un segno lasciato da Giovanni Paolo ii.
Era l’11 ottobre del 1992; si festeggiavano con un giorno di anticipo i 500 anni dell’impresa colombiana. Davanti al Faro, appena costruito senza badare a spese né alla sopravvivenza dei 50 mila sfrattati dalla Explanada, era stato sistemato l’altare per la messa: spettacolare il colpo d’occhio, una quinta formidabile per le riprese televisive. Peccato solo che l’orario della funzione non permettesse di apprezzare il fascio di luce sparato nel cielo da 250 mila watts (sottratti alla pubblica illuminazione), per formare una croce irradiata, appunto, dal Faro a Colón.
Il Papa disse che quel lato non gli piaceva, meglio celebrare la messa dall’altra parte, quella che si affaccia sulle baracche rimaste, nascoste da un muro fatto costruire proprio per evitare che il mondo vedesse quella miseria. Immenso Wojtyla, gli mandò a pallino la sceneggiata.

Sono le storie che ci hanno raccontato e che a piccole dosi si possono trovare sul blog di don Paolo (Hyperlink «http://www.chiesamissionaria.it/diario»), dove per qualche tempo ho inserito frammenti di quella che in gergo chiamiamo relazione di ripresa. Una sorta di appunti di viaggio, scritti man mano che esaminavo il lavoro fatto con Tito: 10 ore di immagini, comprese le interviste a qualche persona importante e molta gente comune.
La mia relazione di ripresa si è tradotta in una serie di brevi articoli (li ho titolati «Sbobinando» e seguono una numerazione progressiva), che hanno costituito l’ossatura dei servizi che ho realizzato per il TgR Rai della Liguria, per Tv7 (Tg1), per Agenda del Mondo (Tg3). Tutto questo si fonderà in un documentario che metteremo a disposizione delle parrocchie, coronando in questo modo un mio desiderio di sempre. Che poi è l’inizio del mio cammino, in un piccolissimo e lontanissimo cinema teatro parrocchiale. Tanto tempo fa, capanne africane in un filmato tremolante, storie missionarie che chissà quanti di voi hanno visto e certamente ricordano.
A me è stata concessa la gioia profonda della prima persona: ho visto, ho sentito, ho condiviso, e questo è un altro grande privilegio.

Tarcisio Mazzeo

Tarcisio Mazzeo




Tante ragnatele fermano l’elefante

In un contesto di contraddizioni e ingiustizie eclatanti, oggi più che mai, la missione della chiesa è chiamata a promuovere i valori del regno di Dio: giustizia, pace e salvaguardia del creato, facendosi «voce dei senza voce» nelle istituzioni in cui si fanno scelte che riguardano i paesi poveri del mondo.
Lo stanno facendo le congregazioni missionarie operanti in Africa, mediante la «Rete fede e giustizia Africa-Europa» (Aefjn), nei parlamenti dell’Unione europea e dei paesi che la compongono.

In febbraio 2004, circa 11 milioni di inglesi hanno seguito uno dei cosiddetti Reality shows: «Sono una celebrità, venite a liberarmi», dove un attempato cantante rock, una modella e un ex corrispondente governativo parteciparono a un gioco di sopravvivenza, in una remota parte della foresta vergine australiana.
Tale programma non ha niente a che fare con la realtà, perché basato su false sofferenze e false celebrità, con lo scopo di intrattenere cittadini annoiati e ben nutriti di una società consumistica. In molte parti del mondo, invece, si combatte una reale lotta per l’esistenza e nessuno vede. Non si tratta di false celebrità, ma di milioni di persone che lottano ogni giorno per sopravvivere: con loro e per loro dobbiamo essere agenti di speranza e liberazione integrale.
Il cristianesimo è fondamentalmente una religione di speranza: è basato sulla promessa del progetto di Dio per l’umanità e per tutta la creazione; vive perché tale promessa diventi realtà. La missione cristiana scaturisce da questa speranza e le dona un’espressione concreta. Anzi, la missione è «speranza in azione» (David Bosch). È il mezzo con cui l’avvenire che speriamo è introdotto in una relazione trasformante con il presente in cui viviamo. È «il ponte di Dio verso un mondo che non è ancora arrivato alla dimora che gli è stata preparata» (Carl E. Braaten).

UN MONDO GLOBALIZZATO

Oggi tutti parlano di «globalizzazione», ma c’è poco accordo sul suo significato e su come reagire al riguardo. Il gesuita Peter Henriot la definisce come «l’integrazione delle economie mondiali tramite il commercio, flussi finanziari e scambio di tecnologie e informazioni».
Qualsiasi definizione, tuttavia, non riesce a farci percepire le enormi trasformazioni portate in ogni aspetto della nostra vita dal rapido sviluppo delle cosiddette tecnologie di informazione. «Nel bene o nel male, siamo catapultati in un ordine globale che nessuno capisce pienamente, ma i cui effetti sono risentiti da noi tutti» (Anthony Giddens).
Il problema non è tanto il suo processo in sé. La globalizzazione può essere buona o cattiva: dipende da ciò che è globalizzato. Potrebbe essere usata per estendere i benefici di un capitalismo socialmente responsabile e una scienza e una tecnologia umanizzata per tutti i popoli: e sarebbe la ben venuta.
Ma ad essere globalizzato sono il capitalismo liberale irresponsabile («capitalismo selvaggio» lo ha definito Giovanni Paolo ii), a vantaggio dei ricchi e a spese dei poveri, e una tecnologia materialista, che sfrutta e distrugge la natura. Questo è problematico e profondamente inquietante. A dominare la scena mondiale oggi è il libero mercato. Il globo è visto come un mercato guidato dalla voglia di profitto d’imprese private, che non conosce frontiere nazionali né interessi locali.
«Oggi i ricchi capitalisti hanno un mercato globale dove giocare a tutto campo – afferma il teologo indiano Michael Amaladoss -. Le facilitazioni della comunicazione rapida e su scala mondiale sono utilizzate per aumentare i profitti, procurandosi mano d’opera a buon mercato nei paesi poveri. I mercati inteazionali giovano alle nazioni ricche che li controllano. I settori commerciali e di servizi sono favoriti, mentre i prodotti di prima necessità perdono valore. I parlatori di diritti di proprietà intellettuale ignorano i diritti umani e naturali. Le multinazionali sono più potenti di molti paesi. I politici sono dappertutto a servizio di interessi commerciali. Le nazioni più ricche usano la potenza politica e militare, anche fuori dei loro confini, per favorire e proteggere i propri interessi economici… Ciò che abbiamo non è la globalizzazione del benessere e dell’abbondanza, ma dell’ingiustizia e povertà».

AFRICA GLOBALIZZATA

Gli effetti negativi della globalizzazione sono visibili specialmente in Africa: le statistiche mostrano chiaramente che per la maggior parte degli africani non funziona bene. Se in qualche parte del mondo la globalizzazione ha offerto opportunità di crescita economica e sviluppo, in Africa ha aumentato disparità e ineguaglianze. Su 48 paesi in via di sviluppo nel mondo, l’Africa ne conta 33 e ha il più alto debito commerciale. Nell’ultimo decennio il Prodotto interno della maggioranza dei paesi africani ha subito un costante declino, mentre i prezzi dei prodotti da esportazione sono in caduta libera.
Per i paesi più poveri dell’Africa la globalizzazione ha significato l’apertura alle importazioni e industrie straniere e la distruzione delle imprese locali. Ne è un esempio il processo di «deindustrializzazione» avvenuto nello Zambia, dove l’industria tessile, una volta fiorente, è stata spazzata via dalle importazioni dall’Asia; piccole industrie, come quelle produttrici di pneumatici e materiale sanitario, hanno chiuso a causa della concorrenza di grandi ditte del Sudafrica.
La promozione di Investimenti stranieri diretti (Fdi, Foreign direct investment) è stata salutata come nuova motrice di sviluppo, ma il loro flusso in Africa è molto piccolo, a vantaggio di pochi paesi come il Sudafrica e di un’élite già privilegiata.
Inoltre il processo di globalizzazione in Africa ha portato all’imposizione di dure riforme economiche, dettate dal «programma di aggiustamento strutturale» (Sap). Tali aggiustamenti strutturali hanno significato: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, delle tasse scolastiche e sanitarie, diminuzione di occupazione e smantellamento di strutture economiche locali.
Gli economisti neoliberali sostengono che, con l’attuazione del Sap, vi può essere «difficoltà a breve termine, ma un vantaggio a lunga scadenza»; in Africa, però, la «sofferenza temporanea» dei tagli ai servizi sociali, il danno ecologico e l’erosione delle industrie di base avrà a lungo termine effetti disastrosi, rendendo impossibile la speranza di uno sviluppo umano integrale e continuo.
Una delle conseguenze più disastrose di tali aggiustamenti è quella di rendere inutili le popolazioni africane: negli ultimi anni in molti paesi dell’Africa la disoccupazione è aumentata del 14% e i governi non hanno incluso alcun programma esplicito a favore dell’occupazione.
Non esiste né cooperazione né progresso, quando non si tiene conto della popolazione che vive sul posto, salvo venire usata da interessi stranieri per trae il maggior profitto. La globalizzazione guarda all’Africa e agli africani come componenti di un mercato libero globale, prescindendo da considerazioni di sostentamento e sviluppo umano integrale.
In breve, l’88% dei paesi africani sono considerati ad «alto rischio», a causa dell’instabilità politica e leadership corrotta, violenza e anarchia, tribalismo e razzismo, avidità di profitto economico e noncuranza dei diritti umani.
Il 40% dei paesi africani sono in guerra e sconvolge la vita di oltre 100 milioni di africani, in maggioranza donne e bambini, causando dislocamenti di popolazioni, massacri, perdite di vite umane, bambini soldati, fame, distruzioni di scuole, ospedali e infrastrutture varie.
Più di 300 milioni di africani vivono con meno di un dollaro al giorno; oltre un terzo dei bambini sono denutriti; 25 milioni di africani vivono con la sindrome Hiv/Aids (il 70% degli infettati in tutto il mondo).

MISSIONE È…
TRASFORMARE IL MONDO

Fino a poco tempo fa, la missione mirava in generale a estendere la chiesa, così com’era, fino agli estremi confini della terra, più che alla trasformazione di se stessa e del mondo, alla luce della speranza cristiana di una nuova terra e nuovi cieli.
Ma non è stato sempre così. La missione cristiana delle origini, soprattutto come la comprendeva san Paolo, era ispirata e diretta dalla speranza di una nuova creazione. Nella visione di Paolo missione e speranza erano intimamente legate: la missione spiana la strada e prepara l’umanità per la tappa finale del regno di Dio, quando non solo l’umanità, ma tutta la creazione sarà liberata e trasformata sul modello della risurrezione di Cristo.
Per Paolo, missione significa annunciare la signoria di Cristo su ogni realtà e invitare i popoli a rispondervi. Ciò significa proclamare una nuova situazione, che Dio ha iniziato con Cristo; una situazione che interessa tutte le nazioni e tutta la creazione e che culmina nella celebrazione della gloria finale di Dio.
Ma la predicazione in sé non basta. La vittoria finale del regno di Dio non giustifica la passività. La missione chiede e sostiene una partecipazione attiva al piano di Dio per la liberazione dell’umanità qui e ora.
Nella teologia paolina della missione troviamo il fondamento per una protesta coraggiosa contro le strutture oppressive del peccato e della morte e per un impegno totale nella promozione della giustizia, pace e integrità del creato. Alla luce della venuta gloriosa del regno di Dio, i cristiani sono chiamati a sfidare le strutture oppressive e rendere visibili i segni del nuovo mondo di Dio.

DEFINIZIONI E ATTITUDINI

Abbiamo tante definizioni della missione. Quelle che più mi piacciono, in linea con l’insegnamento di Paolo, sono le seguenti: la missione è «trasformazione del mondo in regno di Dio» (Sean Healy); «proclamazione giorniosa e universale della risurrezione di Cristo»; «effusione del divino Spirito di vita e d’amore dal Signore Risorto in tutti gli esseri umani e nell’intero cosmo»; «cooperazione illimitata tra Dio e gli esseri umani nel modellare continuamente un mondo libero da ogni tipo di peccato e schiavitù e nel ricrearlo senza sosta, fino alla pienezza d’amore e vita voluta da Dio».
Da tali definizioni derivano attitudini specifiche. Prima di tutto occorre testimoniare con la vita più che con le parole. «La rosa non ha bisogno di predicare. Effonde semplicemente il suo profumo. La fragranza è il suo sermone» (Gandhi).
E poi, ascoltare prima di parlare; operare con la gente, anziché per la gente; imparare prima d’insegnare; non avere tutte le risposte; essere attenti alla voce dello Spirito che ci parla negli altri e attraverso gli altri; scoprire Cristo nell’altro e convertirsi all’altro; avere il coraggio di essere umili; soffrire con gioia; agire con speranza in mezzo alla disperazione…
La conseguenza ovvia della missione così intesa è che l’ impegno per la giustizia, non è semplicemente un’area o una dimensione della missione della chiesa, ma il cuore di ogni missione e servizio svolto in nome di Cristo e del vangelo.
Se la sollecitudine e l’impegno attivo per un mondo più giusto, pacifico e sano non è al centro delle varie attività apostoliche, non può esserci una vera testimonianza e proclamazione del vangelo integrale di Cristo. L’impegno per creare un mondo più giusto, pacifico e sano è una dimensione essenziale e integrale della testimonianza della chiesa a Cristo e al regno di Dio nel mondo d’oggi. Forse questa è la sfida più impegnativa per le congregazioni religiose.
In tale impegno ci sono tre dimensioni fondamentali e interdipendenti: fare e avere esperienza del mondo degli esclusi ed emarginati; riflettere sul mondo e capirlo dalla prospettiva di tale esperienza; lavorare assieme ai poveri ed emarginati in programmi di azione diretti alla trasformazione del mondo.

ESPERIENZA ED ESPOSIZIONE

Le tre dimensioni sono collegate, ma distinte, con propri metodi e traguardi. La prima (con l’accento sull’esperienza) usa il metodo di esporsi al mondo dei poveri ed emarginati e mira all’empatia con le vittime dell’ingiustizia e a vedere il mondo dal loro punto di vista.
Sperimentare il mondo degli esclusi deve essere il punto di partenza e di riferimento costante per tutti gli impegni di «giustizia, pace e integrità del creato» (Gpic). Tutto ciò è in linea con la «opzione preferenziale per i poveri», adottata più di 30 anni fa come criterio principale dell’impegno apostolico di molte congregazioni religiose e missionarie.
Oggi non se ne sente parlare molto, eppure è essenziale. Tale opzione scaturisce e prende forza dalla via scelta da Dio per coinvolgersi con amore nella vita dei suoi figli; ci fa vivere concretamente le beatitudini di Cristo e imitare i suoi metodi missionari. È dal punto di vista dei poveri e degli esclusi che incominciamo a percepire le vie di Dio e ad allinearci al suo progetto per l’umanità.
Nel passato la formazione religiosa e missionaria in genere avveniva in centri sicuri e confortevoli, lontano dalle inquietudini e lotte per la vita della maggior parte della gente, specie dei poveri. Ma non credo che ci siamo allontanati da questo tipo di formazione in modo significativo. Non è facile. Persino i recenti centri di formazione in Africa e Asia non hanno scelto di rompere con tale tipo tradizionale di strutture; anzi, sono più confortevoli che nel passato.
Per esporsi al mondo dei poveri bisogna entrare nei luoghi dove vivono, identificarsi con le loro paure, frustrazioni, lotte, giornie e speranze, come fece Gesù. Solo così si può imparare a sentire e simpatizzare con quelli che vivono ai margini della società economica e politica e vedere il mondo dal loro punto di vista.

RIFLETTERE E CAPIRE

La seconda dimensione usa l’investigazione, riflessione, ricerca metodica, con lo scopo di capire il mondo dal punto di vista delle vittime dell’ingiustizia. Come ogni esperienza, anche quella fatta con i poveri ed emarginati deve essere interpretata. Non basta l’empatia, il mettersi nei panni dei poveri. È d’importanza vitale leggere e capire il mondo dalla loro prospettiva. Tale lettura deve essere fatta, prima, alla luce del vangelo e della tradizione cristiana; poi alla luce del carisma specifico di ciascuna congregazione o istituto.
La formazione intellettuale, specie all’inizio, dovrebbe mirare a fornire ai candidati non solo fatti e risposte prefabbricate ai problemi sperimentati, ma anche strumenti e metodi che permettano d’interpretare e capire la realtà vissuta di persona e vista dalla parte degli esclusi.
Al tempo stesso è cruciale che siano comunicate certe informazioni basilari, specialmente sugli squilibri che affliggono il nostro mondo nel campo dell’economia, politica, rapporti sociali, relazioni tra uomini e donne e con l’ambiente. Questo non viene ancora fatto. Corsi specifici su tali problemi possono essere necessari per completare e concretizzare i normali programmi dei corsi di teologia, spiritualità e pastorale.
Inoltre i candidati, fin dalla formazione di base, dovrebbero essere incoraggiati a fare delle ricerche personali su problemi specifici, per esempio: valutare un determinato programma di aiuto, trattamento dei rifugiati in una certa area, soluzione di un conflitto, ecc. La conoscenza intellettuale del mondo non basta. Come cristiani dobbiamo avere una comprensione che unisce cuore e mente, spirito e intelletto.

AGIRE PER CAMBIARE
IN SOLIDARIETA’ CON I POVERI

Come servi del vangelo di Cristo, la nostra missione non è solo di capire il mondo, ma anche di cambiarlo, trasformarlo alla luce e in accordo con le esigenze dell’avvento del regno di Dio. La fede nel Risorto ci induce in una profetica scontentezza per come stanno le cose e in vista dell’avvenire promesso al mondo.
Per ciò la formazione alla giustizia include l’iniziazione a tecniche e pratiche necessarie per diventare attori effettivi del cambiamento sociale. Nel passato si dava molta attenzione, nei programmi formativi, alla conoscenza e alle tecniche necessarie per i ministeri spirituali e pastorali. C’è ugualmente bisogno di formazione per diventare attori efficaci in campo socio-economico; cioè attori capaci di motivare le persone, aiutarle a far valere le proprie ragioni, lavorare con loro in programmi di azione scelti dalla gente.

DIFESA DEI DIRITTI UMANI

L’«advocacy» (patrocinio) è una delle strategie più importante per promuovere la giustizia nei paesi in via di sviluppo. Le decisioni prese nell’emisfero nord hanno un impatto enorme e durevole sulla vita di milioni di persone dell’emisfero sud. È imperativo che la loro voce sia udita nel processo decisionale. Le congregazioni religiose non debbono eludere questa sfida, di patrocinare e farsi voce di chi non ha voce.
È chiaro che tale patrocinio (advocacy) è una strategia che richiede la più grande cooperazione possibile tra i religiosi e i gruppi laicali che hanno come comune ideale la creazione di un mondo più giusto.
L’Africa Faith and Justice Network (Afjn) e l’Africa-Europe Faith and Justice Network (Aefjn) sono state istituite specificamente per questo tipo di azione comune.
C’è un proverbio dello Zimbabwe che dice: «Quando le tele di ragni si uniscono, possono imprigionare un elefante». Il «vangelo della speranza», che siamo chiamati a proclamare con parole e opere, c’interpella e ci dà la forza d’imprigionare l’elefante delle strutture economiche ingiuste, in modo che il regno di Dio, che è giustizia, pace e amore, diventi una realtà per tutte le sue creature.

Michael McCabe SMA
*
Padre Michael McCabe, teologo irlandese, della Società delle missioni africane (Sma), è attualmente direttore dell’Aefjn e consigliere generale del suo istituto.

Michael McCabe SMA




La pace … nel pallone

Una volta modello di sviluppo per i paesi africani, la Costa d’Avorio è ora divisa in due dalla guerra civile e la pace è ancora lontana. I missionari della Consolata, da 10 anni presenti nel paese, hanno tenuto la loro conferenza regionale, mettendo a punto nuove strategie per essere tra la gente seminatori di riconciliazione e di speranza.
Vi ha partecipato l’autore di questo articolo, consigliere generale dell’Istituto.

Sono a Sago, 29 gennaio 2006, data importante per i missionari della Consolata: è l’anniversario della fondazione del nostro Istituto. Per i missionari che lavorano in Costa d’Avorio è pure l’occasione per celebrare il decimo anniversario della loro presenza nel paese.
La sera del 23 gennaio del 1996, infatti, i primi tre missionari della Consolata arrivarono al Centro pastorale della diocesi di San Pedro. Questo nuovo impegno missionario, in obbedienza alle indicazioni del ix Capitolo generale, aveva lo scopo di portare «novità in quanto allo stile, ai metodi e alle espressioni dell’azione evangelizzatrice dell’Istituto».
Di fatto, subito dopo il loro arrivo, cominciarono a prendere contatto con la bidonville del Bardot, un agglomerato di capanne di legno con 50 mila abitanti, senza luce elettrica né acqua né altre strutture essenziali. Poi, per essere più vicini ai poveri, fu costruita una casa in legno, accanto a una cappella già esistente, e si trasferirono definitivamente nella bidonville. Al tempo stesso i missionari ebbero l’incarico temporaneo di costruire la nuova parrocchia della cattedrale.
Con l’arrivo di nuovi missionari, nel 1997 fu aperta la missione di Sago, campo di prima evangelizzazione a 120 km da San Pedro. Nel 2000 fu accettata la cura pastorale di Grand Béréby, una parrocchia già organizzata, con numerose comunità cristiane appena incipienti. Nel 2004, restituita la zona del Bardot alla parrocchia della cattedrale, fu aperta una nuova missione a Grand Zatry, a nord di Sago.
Su invito del nunzio apostolico e a richiesta del vescovo di Odienné, nel 2001 tre missionari si stabilirono a Dianra, nel nord del paese a maggioranza musulmana, con lo scopo di avviare anche un primo graduale incontro e dialogo con la consistente popolazione islamica. Nel 2002 altri due missionari hanno iniziato la missione di Marandala, a 80 km a est di Dianra.

È il 12 febbraio 2006. Siamo a Daloa, una cittadina situata a circa 350 km dalla capitale Abidjan. Da quanto si vede, doveva essere una bella città; ma ora si è lasciata andare a causa della guerra.
Siamo ospiti in un centro di accoglienza della Caritas, per celebrare la seconda conferenza regionale dei missionari della Consolata operanti nel paese. È un momento importante per sognare, organizzare, inventare, riflettere sulla missione in questo bel paese.
Siamo nel refettorio: alla televisione passano le immagini del ritorno trionfale in patria della squadra nazionale di calcio, arrivata seconda dietro all’Egitto al toeo africano della Can (Campionato d’Africa delle nazioni). Uno dei dirigenti commenta: «Celebriamo la nostra squadra, orgoglio nazionale e segno dell’unità del paese» (sic!). «Se bastasse una partita di calcio… per riconciliare un paese e portare la pace!» pensano i missionari.
Dal 2002 la Costa d’Avorio è divisa in due: il nord è controllato dalle forze dei ribelli; il sud dall’esercito governativo. Questa divisione pesa non solo sulla popolazione, ma anche sul nostro servizio missionario, dal momento che tre comunità sono nella regione meridionale, due nel nord del paese.
La fragile tregua permette viaggi e spostamenti tra le due zone, ma solo con mezzi pubblici o di fortuna, come i camion militari. Così ho potuto visitare anche le due missioni nel nord del paese.
Girando nelle varie zone ho potuto constatare il degrado causato dalla guerra e della situazione d’insicurezza. La strada, una volta asfaltata, è in un pietoso stato d’abbandono, si vedono delle case smantellate, il «solito» piccolo commercio delle mamme africane, forza dell’economia di sopravvivenza, che rimpiazza il grande commercio del caffè, cacao e cotone e altri prodotti che hanno creato la fortuna del paese.
Dappertutto blocchi militari, posti di controllo, ufficialmente posti per la sicurezza e salvaguardia dei cittadini, ma in realtà, segno dello sfruttamento, corruzione, disinteresse generale di un paese fino a pochi anni fa tra i più belli dell’Africa, ma ora dilaniato e distrutto, in mano a gerarchi che non si interessano del bene della gente.

Le comunità cristiane affidate ai missionari della Consolata sono tutte situate in zone periferiche e presentano ancora la sfida della prima evangelizzazione. Esse sono costituite in grande maggioranza da immigrati, originari del Burkina Faso, Ghana, Togo, venuti a cercare fortuna ai tempi d’oro della Costa d’Avorio e costretti a lavorare per il paese ospitante, ed ora divenuti capro espiatorio di tutti i mali e malessere del paese. Le ritorsioni arbitrarie, le costrizioni, i rubalizi contro di loro sono tristemente noti alla società avoriana.
In questa situazione è difficile evangelizzare, annunciare la buona novella, costruire comunità cristiane. Anche la chiesa ufficiale è divisa e non offre orientamenti per un cammino di riconciliazione nazionale e per una crescita nel rispetto dei diritti di tutti.
Non essendoci una lingua unica nazionale, oltre al francese, che non è capito né parlato da tutti, il lavoro resta ancora più difficile e frammentario. La situazione per il momento non presenta grandi possibilità di soluzione o di miglioramento, si parla di arrivare alle elezioni per il prossimo mese di ottobre, ma sembra che quasi nessuno ci creda veramente.
La pace è dunque solo una parentesi nella storia umana? La Costa d’Avorio come tutta l’Africa è destinata «eternamente» a soffrire? Dal 1960, anno simbolo dell’indipendenza di molte nazioni africane, questo continente ha conosciuto più di 200 colpi di stato, 101 capi di stato sono stati cacciati a forza. Dal 1970 ci sono stati più di 35 conflitti solo nell’Africa subsahariana, che hanno provocato circa 8 milioni di morti, come la prima guerra mondiale.
Toando alla Costa d’Avorio, bisogna dire pure che gli indici di fiducia commerciale sono scesi precipitosamente nella scala mondiale a causa di questa guerra. La guerra ha rovinato gli equilibri sociali e promosso modelli di milizia professionale al servizio dei signori della guerra, arruolando e coinvolgendo sempre più dei bambini, compromettendo così generazioni intere.
Ma cosa è capitato in Costa d’Avorio, una volta «modello» di sviluppo africano? Chi poteva immaginare che un paese che aveva organizzato così bene la propria indipendenza, che bussava alla porta dei paesi emergenti, che dimostrava molti segni di sviluppo nel campo economico, infrastrutture, rete stradale, elettrificazione delle campagne, tasso di scolarizzazione… potesse covare tanto odio tribale. Come è stato possibile che in un paese definito «la patria della pace», «tanto caro e vicino alla Francia», si sia scatenata tanta violenza xenofoba verso gli immigrati, di purificazione etnica tra il nord e sud dello stesso paese, fino a sfociare in autentiche scene di «caccia all’uomo bianco»?
All’origine di questi drammatici eventi ci sarebbero lo scontento di una parte delle forze armate nazionali e le ambizioni di rivalsa dei protagonisti del precedente tentativo di golpe, oggi esiliati. Inoltre lo scontento per la dominazione economica della Francia, a cui ora si aggiunge l’insofferenza della presenza dell’Onu, mediante l’operazione Monuci. E poi ci sono tutti quei fattori presenti nelle crisi degli altri paesi africani: interessi politici ed economici delle grandi potenze per le risorse del continente, che in generale si disinteressano delle sorti delle popolazioni. Nel nord del paese ci sono giacimenti di diamanti, la cui vendita serve a finanziare le Forces Nouvelles, il gruppo ribelle che controlla quella regione. Un gruppo di esperti Onu ha stimato che la produzione annuale in Costa d’Avorio è di circa 300 mila carati, con un giro di affari annuo di oltre 20 milioni di euro.

Durante la conferenza, la parola che ho sentito maggiormente risuonare sulla bocca dei 14 missionari è stata «la speranza», da dare e da ricevere.
Speranza trasmessa, restando accanto alla gente in tempo di guerra e di disordini, condividendo rischi e paure delle popolazioni. Come sono rimasti ai loro posti nel passato, i «nostri» missionari si sono impegnati a continuare nel futuro a visitare i villaggi a piedi e in bicicletta, nonostante l’insicurezza che regna ancora, soprattutto nel nord del paese.
Speranza ricevuta dalla forza della gente, che ha reagito e continua a reagire a situazioni tanto precarie, organizzandosi, lavorando, aprendo cammini nuovi. Speranza nella missione, per costruire sulle rovine lasciate dalla guerra e fare spuntare fiori di novità.
I vescovi della Costa d’Avorio, in un messaggio dal titolo emblematico: «Gesù Cristo è la nostra pace», invitano tutti a essere artefici della pace, mediante il perdono per le sofferenze vissute, le vessazioni subite e anche per le uccisioni che hanno colpito tante famiglie. Essi chiedono a tutti gli uomini di buona volontà di resistere a tutte le tentazioni etniche, regionaliste e nazionaliste. E concludo: «La forza dell’Africa non viene dall’unità dei suoi figli? È la vittoria di Cristo che supera tutti gli ostacoli e ci rende liberi per un amore senza frontiere».

Stefano Camerlengo

Stefano Camerlengo




La terra a rischio siccità e desertificazione

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2006 «Anno Internazionale dei deserti e della lotta alla desertificazione». Gli autorevoli rappresentanti di tutti gli stati presenti all’Onu sono giunti a questa considerazione, consapevoli del fatto che ormai quasi il 40% della superficie del pianeta è a rischio siccità e che irreversibili processi di desertificazione nel mondo, uniti a una continua diminuzione della portata d’acqua dei grandi fiumi, sta portando la terra verso una soglia critica, da cui difficilmente si potrà far ritorno. Varrà inoltre la pena di ricordare che il problema acqua sta diventando uno degli aspetti più preoccupanti per le generazioni future. Non è un caso che nel mondo, già adesso, siano in atto diverse guerre per il controllo delle risorse idriche: oltre al problema dell’«oro nero», sta prendendo piede il problema dell’«oro blu» (*).
Nei paesi poveri, afflitti da aree toccate dalla siccità, la situazione si va sempre più deteriorando. Un argine alla desertificazione viene significativamente dal lavoro delle donne: sono loro nei paesi in via di sviluppo a fornire buona parte della mano d’opera in agricoltura, che serve a fermare l’avanzata della desertificazione; varrà la pena di segnalare che là dove anche ai più poveri viene offerta la possibilità di accedere al mini credito, nascono le opportunità, non solo per acquistare la terra da cui ricavare il necessario per vivere, ma anche, attraverso il loro lavoro, trasformare il clima e l’ambiente stesso.
Contribuire quindi a dare opportunità di sviluppo e creare le condizioni perché le donne possano accedere a una istruzione sempre più incisiva, significa dare la possibilità a questa gente di camminare con le proprie gambe e diventare protagonisti del loro futuro.

Ma un tema come il deserto (questa volta inteso nella sua accezione più conosciuta) ci offre l’occasione di avvicinarci e gustare quella spiritualità che nasce proprio da un’ambiente così difficile e ostile. Nella scrittura la traversata del deserto, conduce Israele verso la Terra promessa; è nel deserto che ci sono le prove e le tentazioni ed è nel deserto che vengono superate; è nel deserto che Dio parla al suo popolo e al cuore dell’uomo, ed è nel deserto che si affina il colloquio e il dialogo tra la persona e il suo Creatore. Chi non ricorda la grande tradizione di spiritualità che ci viene dai padri del deserto dei primi secoli della chiesa, con il loro umorismo sottile e tagliente anche per l’uomo d’oggi. E per restare ai nostri giorni, come non ricordare l’apostolo del deserto, Charles De Foucauld, che proprio in un angolo sperduto del Sahara indicò la strategia ecumenica per avvicinare popoli e religioni diverse, una strategia basata più sulla testimonianza personale che su documenti e prese di posizione radicali.
L’opportunità che ci offre questo anno dedicato al deserto, può essere quindi sfruttata in questa duplice occasione: riscoprire quel tenero colloquio tra l’uomo e Dio, che avviene solo laddove l’ambiente stimola la contemplazione, e nel contempo leggere la carta geografica per capire quali impegni assumere per evitare il degrado di questo nostro splendido pianeta.

Mario Bandera

Mario Bandera




ISRAELE – Si guardano, ma non si parlano

Il blocco dei territori strangola l’economia palestinese.
Il 40% dei lavoratori ha perso l’impiego.
Intanto gli insediamenti ebraici nascono come funghi.
E sono i civili palestinesi a sentirsi prigionieri a casa loro.

Betlemme, città chiusa

«Le città sono isolate. Esistono stradine dove si riesce a passare, ma bisogna conoscerle» ci dice il direttore del Christian information center a Gerusalemme, parlando della Cisgiordania. Vogliamo andare a Betlemme, a pochi chilometri dalla città santa: è il primo centro sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Il minibus pubblico è guidato da un arabo israeliano e ha la targa gialla, le uniche ammesse in Israele. Sfreccia attraverso i quartieri modei della Gerusalemme nuova e, in 15 minuti, giunge sull’ampio corso che porta a Betlemme. Rallenta e si ferma: la gente scende diligentemente. Poi fa inversione e riparte verso il centro città.
Ad una cinquantina di metri, alcuni grossi blocchi di cemento in mezzo alla strada costringono i mezzi ad un’insolita gimcana. Ci sono pure modei autobus turistici, parcheggiati in fila.
Siamo giunti al check point israeliano (controllo) e a nessun veicolo è permesso di proseguire. Si continua a piedi. Un giovane militare in tenuta da combattimento, con il mitragliatore «m16» a tracolla, conversa con una ragazza: sembra rilassato. Intoo, alcuni gruppuscoli di stranieri: pochi pellegrini in visita ai luoghi santi. Passiamo senza essere controllati. Forse è vero che «ci si riconosce dalla faccia», come ci aveva detto qualcuno. Subito dopo il posto di controllo, troviamo altri taxi e bus. Hanno la targa verde, quella palestinese.
La seconda Intifada
Da quando è scoppiata la seconda Intifada, alla fine dello scorso settembre, Israele ha «chiuso» i Territori occupati (costituiti da Gaza e Cisgiordania): ha imposto sanzioni economiche e ridotto la circolazione di persone tra questi e il suo territorio nazionale.
Il 28 settembre Ariel Sharon (leader del partito di destra, Likud, e dal 6 febbraio primo ministro) si recò sulla «spianata delle moschee» a Gerusalemme, accompagnato da oltre mille militari, profanando così il terzo luogo santo dell’islam (dopo Mecca e Medina). Questo ha creato la reazione degli arabi musulmani di Israele e manifestazioni di solidarietà dei palestinesi (arabi dei territori occupati). Presto le manifestazioni sono degenerate e la reazione dell’Israel defence force (Idf, l’ultra moderno esercito israeliano) e della polizia ha lasciato sul terreno parecchi morti. A Nazaret, città della Galilea, in pochi giorni sono stati uccisi 13 arabo-israeliani.
Gli estremisti islamici dei gruppi di Hamas e Jihad islamica hanno ricominciato gli attentati suicidi in Israele, creando un clima di paura nelle grandi città, come Tel Aviv, inducendo il nuovo governo di destra a sigillare ancor più i Territori, dove i terroristi hanno le loro basi. Le città palestinesi, amministrate dall’Anp, sono state accerchiate dall’esercito israeliano, che controlla ancora l’88% della Cisgiordania e il 20% di Gaza. A metà marzo si contavano quasi 400 morti e 14 mila feriti tra i palestinesi e 65 ebrei israeliani tra le vittime.
L’incontro
A Betlemme c’è poca gente per le strade: soprattutto nei pressi della tomba di Rachele, luogo santo per gli ebrei, dove spesso ci sono scontri.
Clara e Nabil ci invitano a casa loro. Sono una coppia sulla sessantina, palestinesi, e appartengono alla minoranza cristiana (il 2% in Terra Santa), ma che a Betlemme è una presenza numerosa (arrivano al 15% nella confinante cittadina di Beit Jala). È una casa della media borghesia, curata da lei senza sfarzo, ma con buon gusto. Lui è commerciante di beni di consumo e, prima che incominciasse l’Intifada, gli affari andavano bene.
Oggi la crisi economica colpisce i Territori. I turisti sono quasi scomparsi e la strada è interrotta. «I nostri fornitori sono tutti a Gerusalemme – rileva Nabil – e ora, per far passare la merce, bisogna scaricare tutto dal lato israeliano del check point, per poi ricaricarla su un altro mezzo da questa parte».
L’economia dei Territori è dipendente da quella israeliana. L’Autonomia palestinese è composta da città-isole in Cisgiordania e da gran parte della striscia di Gaza: non solo non confinano tra loro (perché circondate da Israele o da zone sotto il suo controllo militare), ma non hanno alcuna frontiera con il mondo esterno; non controllano né aeroporti (quello di Gaza è tenuto dagli israeliani) né porti. «Con il blocco, le nostre esportazioni si sono ridotte del 60-70% e le importazioni rese più difficili» ci aveva spiegato un commerciante di Ramallah, il centro economico più importante della Cisgiordania.
Secondo fonti palestinesi, l’economia ha perso 1,3 miliardi di dollari nei primi cinque mesi di guerra. Da ottobre, inoltre, la disoccupazione attanaglia le famiglie palestinesi. Oltre il 40% dei lavoratori era pendolare in Israele, dove svolgeva attività in settori poco qualificati. Oggi le aziende israeliane importano operai da Romania e Filippine. «Li portano in aereo, danno loro una sistemazione presso i cantieri e un salario. Terminato il lavoro, li rispediscono a casa».
Clara prende la parola: «Oggi è molto difficile andare a Gerusalemme; per gli uomini sotto i 40 anni è impossibile». La figlia Nasrin lavora proprio nella città santa e ogni giorno deve trovare il modo per andarci e tornare. Clara e Nabil hanno anche tre figli maschi, tutti emigrati negli Stati Uniti. «Un medico e due ingegneri – dice la madre con fierezza, mostrando una vecchia foto in cui la famiglia era riunita –; qui non avrebbero una vita decente. Se non ci fosse la guerra toerebbero; però oggi non potrebbero neanche raggiungere la città vicina».
È quello che succede a molti giovani arabi (ma anche israeliani), soprattutto cristiani, i quali, vista la mancanza di prospettive, cercano di emigrare. Negli Stati Uniti e in Australia ci sono già città popolate da arabi della Terra Santa.
In Cisgiordania vivono anche tanti rifugiati del 1948, quando nacque lo stato israeliano. Clara è una di loro. Nell’aprile di quell’anno la sua famiglia fu cacciata dalla propria casa di Lod (Tel Aviv): «I soldati israeliani arrivarono e ci mandarono via dicendo che dovevano allontanarci per due settimane. In realtà non siamo mai potuti tornare. Camminammo tre giorni e tre notti senza mangiare, solo con i vestiti che indossavamo. Tutto era rimasto a Lod, documenti compresi. Arrivammo a Betlemme, dove ci siamo stabiliti».
È una storia simile a quella degli abitanti dei 531 villaggi arabi distrutti nella Palestina, nel 1948 protettorato britannico, nell’avanzata israeliana che causò quattro milioni di rifugiati. «Alcuni conservano ancora le chiavi di casa. È come dire che il ricordo non è morto».
I pellegrini non arrivano più
Betlemme è una cittadina di circa 35 mila abitanti ed è stata tirata a lucido per i pellegrinaggi dell’anno giubilare. Nel centro cittadino, rimodeato, le case sono costruite con blocchi di pietra color crema, di cui abbondano le cave nella zona. Anche gli scaloni e i passaggi pedonali sono lastricati con lo stesso materiale, che conferisce un alone di antico. Qua e là, sui muri, alcuni cartelli mostrano la bandiera dello stato che ha finanziato la ristrutturazione di un palazzo o di una via: Belgio, Italia, Germania, Giappone. Ma i turisti e pellegrini che percorrono via della Stella o via Vergine Maria oggi sono davvero pochi.
Arrivati in piazza della Mangiatornia, davanti alla chiesa della Natività, un cordiale poliziotto palestinese in divisa nera ci chiede la nazionalità, con qualche domanda sul check point, cercando di capire se abbiamo avuto problemi a passare. Annota tutto su un foglio.
La visione idilliaca del centro storico si infrange quando entriamo nella più importante via commerciale della città. Qui lo scheletro di un palazzo moderno, senza vetri, si staglia verso il cielo. «È stato bombardato – spiega chi ci accompagna – come anche il villaggio di Beit Jala, qui vicino, dove fino a due sere fa continuavano a piovere bombe». Ci ricordiamo delle parole di una suora, incontrata a Ramallah: «Sono palestinese e vivo a Beit Jala. La stanno distruggendo a cannonate. L’altra notte sono cadute 25 bombe. Un giovane è morto dilaniato: io non riuscivo a guardargli il volto».
Facciamo un giro. Attraversata la via in fondo a una discesa, passiamo da una parte all’altra della città senza accorgercene. Risaliamo una collina su cui è costruito un quartiere per giungere all’altro versante. «La gente che abitava su questo lato si è trasferita presso famiglie di parenti o amici in altri quartieri». Andiamo a vedere le case: alcune sono signorili di 2 o 3 piani; una ha un’intera parete distrutta dalle bombe e il tetto sfondato; un’altra mostra i muri di blocchi bianchi con enormi buchi ovali (causati dagli obici) e molti segni di mitragliate.
Di fronte, in cima ad un’altra collina, troneggia la nuova colonia israeliana di Ghilo e la sua postazione militare. Le case dei due agglomerati quasi si fronteggiano.
Insediamenti ebraici in Cisgiordania e Gaza: le colonie sono centri autosufficienti, collegati da autostrade riservate ai coloni e protette dai militari dell’Idf; sono state aperte per controllare i territori conquistati da Israele nel 1967, ma non ufficialmente annessi. Gli insediamenti vantano i servizi di un’alta qualità di vita, facilitazioni economiche per chi ci va a vivere e, grazie alla rete stradale, sono a mezz’ora di macchina dalle città israeliane della costa, quindi dagli uffici. Sono 200 mila i coloni israeliani in Cisgiordania, Gaza e Golan (Siria).
Le case sono bianche con tetti di tegole rosse, circondate da giardini. Ne vediamo alcune in costruzione molto vicino a Betlemme. In vetta alle colline (sempre in posizione dominante), assumono pure un effetto psicologico. Sono una presenza inquietante: ben visibili, ma inavvicinabili. Due mondi che si guardano in faccia, ma non si parlano.
Ci dicono che Beit Jala sia stata bombardata come rappresaglia, perché Ghilo è stata a sua volta colpita dal fuoco di musulmani infiltrati. Però la colonia, come spesso accade, è stata costruita su terra confiscata agli abitanti di Beit Jala.
Perché l’Intifada?
Sul perché della nuova Intifada ascoltiamo diverse analisi.
C’è chi sostiene che si tratta di una reazione alla provocazione di Sharon. Il leader della destra voleva prendere il posto di Barak (allora primo ministro laburista), che stava concedendo troppo ai palestinesi, e bloccare il processo di pace. In questo modo ci sarebbe riuscito… Altri dicono che l’Intifada era nell’aria. «I palestinesi erano già organizzati per reagire in quel modo».
Fonti israeliane imputano la questione alla fine strategia di Arafat, leader dell’Anp. La nuova guerra sarebbe una sua mossa per riacquistare la popolarità persa a causa del fallimento del vertice di Camp David (luglio 2000), ma anche del malgoverno dei suoi uomini.
La proposta di Camp David non era favorevole ai palestinesi. All’Anp veniva offerto il 50% della Cisgiordania suddiviso in zone separate; il 10% sarebbe rimasto agli israeliani, mentre il 40% non entrava nella discussione (restando all’Idf). L’ultima porzione (che comprende la valle del Giordano) permette di continuare l’accerchiamento delle «isole» palestinesi. Le colonie ebraiche non erano in discussione, come neppure la restituzione di Gerusalemme est.

L asciamo Betlemme a piedi lungo la strada principale. «È successo qualcosa alla tomba di Rachele» ci viene detto. Al check point i militari israeliani appaiono più nervosi. Dall’altra parte, le camionette della polizia seguono una manifestazione. I poliziotti in tenuta antisommossa tengono a bada una quarantina di pacifici manifestanti, che mostrano cartelli scritti in arabo, ebraico e inglese: «Rivogliamo i confini del 1967»; «No alla chiusura delle frontiere». Sembrano stranieri; hanno anche il cartellino con il nome che, di norma, portano i pellegrini. Una signora di mezza età dice di essere americana e di appartenere ad un’associazione di donne per la pace. Intanto un poliziotto filma i manifestanti.
Forse così gli efficienti servizi di sicurezza all’aeroporto potranno dimostrare che sono stati nei Territori occupati e perquisire minuziosamente i loro bagagli.

Marco Bello