Gomitolo di storie
Nel barrio (quartiere) Guaricano, periferia nord di Santo Domingo, una volta conosciuto come «barrio della spazzatura», dal 1991 operano due preti genovesi e quattro suore di N. S. del Rifugio in Monte Calvario (Brignoline). La loro presenza si intreccia in una matassa di storie di ordinaria vita quotidiana, non tutte a lieto fine.
Il ragazzo ha una testa enorme, sproporzionata al resto del corpo. Sei mesi dopo, lo scrivo come l’ho pensato, rettifica compresa: il ragazzo sembra avere una testa enorme, sproporzionata rispetto al corpo. Il fatto è che il corpo non ce l’ha, povero ragazzo di Barrio Guaricano, fulminato da non so quale malattia che gli ha storpiato gambe e braccia, rattrappendo il tronco e lasciando solo alla testa la libertà di svilupparsi secondo natura.
Avrà 18 anni, passati tutti fra un letto e una seggiolina, o strisciando sul pavimento della baracca di casa, nel ventre di uno dei posti più desolati e desolanti del mondo, nella parte di Santo Domingo che le cartoline e i begli spot promozionali non fanno vedere e, chi prenota una vacanza, scopre soltanto dopo, ma subito dimentica, perché la barriera corallina e la bellissima gente dominicana sono tutta un’altra cosa. E in fotografia vengono meglio.
Il mio fratello di reportages missionari si chiama Tito Mangiante e usa la telecamera con la leggerezza con cui farebbe il bagnetto a un neonato: è così delicato e rispettoso che a volte l’inquadratura somiglia a una carezza; e così racconta con garbo anche le cose che si faticano a guardare.
Così nei servizi che ho fatto per il mio telegiornale (quello che tutti conoscono come Tg3 regionale, nel mio caso Tg3 Liguria, si dovrebbe dire TgR Liguria, ma dite come vi piace), sono riuscito a far vedere il ragazzo dalla testa che sembra enorme, senza che nessuno abbia pensato a una spettacolarizzazione del dolore. Ho voluto farlo vedere, questo ragazzo, perché da noi starebbe nelle camere che non si visitano di qualche ospedale, e invece laggiù vive insieme agli altri, non è solo né vittima di curiosità morbose, l’ho visto sorridere, benché affondato nella sedia a rotelle dal telaio rosso fuoco.
Non dico sia stata una lezione; non ho mai pensato che il giornalismo sia dare lezioni, essendo la testimonianza il solo compito richiesto a chi ha il privilegio di essere testimone; dico privilegio perché il testimone vede e riflette senza mediazioni la realtà mentre si svolge, tutti gli altri devono accontentarsi di sentirsela raccontare. Niente può compensare la possibilità di essere occhi, orecchie e cuore del resto dell’umanità.
È un dono che diventa responsabilità e la sento, questa responsabilità: nel lavoro quotidiano, nel lavoro straordinario che una volta all’anno vado a fare da qualche parte nel mondo, per documentare attività missionarie, che oggi più che mai non devono restare sconosciute.
Quanto più i mezzi di comunicazione danno spazio agli argomenti futili, tanto più mi pare importante sventolare qualche bandierina diversa e rivendicarne la piena dignità; se ogni scelta ha proprie inossidabili logiche (è così, ma se ne può discutere) le scelte d’amore e di frateità vanno testimoniate negli spazi della normale informazione quotidiana, perché sono testimonianze di vita quotidiana.
D ico questo perché il filo che con Tito sono andato ad avvolgere in un gomitolo di storie, a Santo Domingo, ci ha portati a frugare fra le baracche di Barrio Guaricano; ma anche intorno agli ombrelloni di Boca Chica e a quelli di Samanà, non distanti dalla spiaggia che viene truccata da isola in un noto reality televisivo. Poi abbiamo visto e non dimenticheremo la Explanada de la verguenza, la spianata della vergogna, sulla quale incombe il Faro a Colón (Cristoforo Colombo), brutto monumento, che ha la pretesa di far sintesi dell’umanità e di porsi come principio del Nuovo Mondo.
Però abbiamo visto anche la «Prima Università», la sobria e sorprendente «Prima Cattedrale» (con la targa che ne ricorda la consacrazione a basilica, firmata dal genovese Benedetto xv), perfino i nobilissimi resti del «Primo Ospedale», intitolato a san Nicola di Bari. In realtà è stato un modo per celebrare il viceré Nicolas de Ovando, passato alla storia certo per la sua abilità di governatore delle terre d’oltremare, ma anche per aver sterminato gli sventurati tainos. Sono quelli che, all’arrivo di Colombo, avevano accolto l’ammiraglio con ingenua cordialità: gli stessi che, dopo la cura Ovando, scomparvero senza lasciare alcuna traccia di sé, a parte quelle che gli archeologi sanno ritrovare e valorizzare come reperti storici.
Così nella matassa sono rimasti immagini e appunti che a volte sembrano avere poco, o comunque meno, a che fare con il cammino pastorale di don Lorenzo Lombardo e don Paolo Benvenuto, insomma con l’impegno della missione diocesana di Genova a Santo Domingo, intensamente vissuta anche dalle suore, che, appartenendo all’ordine delle Brignoline, issano un’altra bandiera con i colori e la croce di San Giorgio.
È vero, a volte certi argomenti possono sembrare fuorvianti, ma servono a costruire ipotesi di contesto ed è questo che rende possibile collocare le cose e le storie, percepire le sensibilità, tastare il terreno, sentire se e dove ci sia uno spazio di dialogo.
Per capire il contesto, una sera abbiamo accompagnato don Paolo in uno studio televisivo (una sorta di Telepace dominicana) e abbiamo partecipato a una messa in diretta, osservando con sorpresa ed emozione il nostro tuo di preghiera; con suor Serafina siamo andati fra i malati del barrio, entrando nelle loro poverissime case; sull’ambulanza di don Lorenzo abbiamo girato la città coloniale, vedendo e toccando i segni del suo essere stata avamposto della Vecchia Europa nel Nuovo Mondo.
Ma siamo arrivati anche nella discarica di Duquesa, dove bambini di 12 anni raccolgono bottiglie rotte e si dissetano spremendo cartocci di bevande presi nella spazzatura: abbiamo registrato i loro sguardi, le loro esplosioni di infantile arroganza, le loro confessate paure di morire sotto un carico di rifiuti o per una infezione, la desolata ammissione che «qui nessuno va a scuola, perché nessuno si occupa di noi e noi dobbiamo procurarci almeno da mangiare».
Abbiamo assaggiato anche la Santo Domingo dei vincenti. Ci ha aiutati l’esuberante ed efficientissimo Aldo Burzatta, portavoce degli italiani residenti. In seguito alle sue segnalazioni abbiamo incontrato uno degli uomini più ricchi dell’isola, il simpatico figlio (il primo di cinque) di un pizzaiolo napoletano che scelse la terra dominicana per riunire la famiglia, non potendo farlo negli Stati Uniti per i vincoli posti dalla legge sull’immigrazione: ricordando i tempi difficili, a Natale fanno in modo che sia festa anche per qualcun altro.
Sempre Burzatta ci ha fatto incontrare un romagnolo con una casa da film: fra luglio e agosto l’ha trasformata in scuola d’italiano per i figli dei connazionali, con la speranza di riuscire a passare dalla fase sperimentale all’insegnamento legalmente riconosciuto: è una persona intraprendente, con interessi nei settori alberghiero e commerciale, grande senso del proprio successo, peccato abbia ripetuto l’invito a pranzo ammiccando un «non preoccupatevi del conto, perché è tutto pagato da me».
Toando ai piani bassi, quelli che francamente ci interessano di più, abbiamo conosciuto la storia di Mamà Tingò, Donna Coraggio, che 30 anni fa non ebbe paura di sfidare i terratenientes che si erano impadroniti delle terre da sempre appartenute ai campesinos, che le lavoravano ricavandone appena di che vivere: la uccisero davanti a testimoni, senza preoccuparsi delle conseguenze. Un sacrificio che purtroppo non è servito: nessuno dei campesinos ha conservato la propria terra; Mamà Tingò non ha avuto nemmeno un monumento dignitoso.
Una storia triste. Del resto è difficile trovare storie a lieto fine cercando fra i disperati. Per esempio, finiscono male, ogni anno, 250 ragazzi del Guaricano, risucchiati dalla vita di strada e morti di morte violenta.
Uno ogni 36 ore resta vittima di un tiroteo con la polizia, ci racconta Francesco Zannini, volontario della Missione diocesana di Genova: «A volte perché lo scontro a fuoco aveva qualche motivo, a volte perché in certi posti basta non rispettare uno stop e si finisce ammazzati».
In questi casi la strada viene disseminata di candele accese e le scarpe del morto vengono appese ai fili della luce, come aquiloni finiti male: nel linguaggio del barrio, è il segno che lì è stato compiuto un sopruso.
È vita quotidiana. «Qui manca qualunque possibilità, ecco perché si vive nella violenza» ci dice il farmacista, mentre sistema grossi lucchetti alle saracinesche della sua tienda. Oltre la cinquantina, brizzolato, occhiali con la montatura in metallo, modi gentili, accompagnato dalla moglie, una signora elegante, dalla cinta dei pantaloni gli spunta il calcio di una pistola: «I delinquenti sono armati, dobbiamo esserlo anche noi: se vedono la pistola ti lasciano stare, altrimenti ti rapinano, ecco perché qui tutti girano armati». La sua, dice, non ha mai sparato.
In questa città disordinata e dalle contraddizioni sociali in piena evidenza, dove viadotti mozzafiato nascondono alla vista la sterminata baraccopoli cresciuta lungo il fiume, a poca distanza dalla discarica si incontra la Città Modello, una zona residenziale totalmente autosufficiente, in cui però non abita nessuno.
Più avanti, percorrendo Calle Emma Balaguer, si sfiora la Cañada, un quartiere-fogna, cinque metri sotto il livello della strada, in cui la gente vive ammucchiata in baracche ad alto rischio. «Lo scarico è a cielo aperto; oggi si sente solo la puzza, ma quando piove diventa pericoloso – ci hanno detto Iris Valensuela e Juan Reyos -. Qui si allaga tutto, la fogna entra nelle case». Starebbero volentieri altrove, ma sono troppo poveri per comprare casa da un’altra parte.
I bambini giocano lungo il fiume maleodorante e nero; gli uomini rinforzano il piccolo argine a protezione della propria baracca. Qui la speranza di vita è così bassa e la povertà così spessa, da non poter portare in ospedale una bambina che ha smesso di camminare dopo essere caduta dalla sedia.
In questa città ci è piaciuto sentire ancora vivo il ricordo di un segno lasciato da Giovanni Paolo ii.
Era l’11 ottobre del 1992; si festeggiavano con un giorno di anticipo i 500 anni dell’impresa colombiana. Davanti al Faro, appena costruito senza badare a spese né alla sopravvivenza dei 50 mila sfrattati dalla Explanada, era stato sistemato l’altare per la messa: spettacolare il colpo d’occhio, una quinta formidabile per le riprese televisive. Peccato solo che l’orario della funzione non permettesse di apprezzare il fascio di luce sparato nel cielo da 250 mila watts (sottratti alla pubblica illuminazione), per formare una croce irradiata, appunto, dal Faro a Colón.
Il Papa disse che quel lato non gli piaceva, meglio celebrare la messa dall’altra parte, quella che si affaccia sulle baracche rimaste, nascoste da un muro fatto costruire proprio per evitare che il mondo vedesse quella miseria. Immenso Wojtyla, gli mandò a pallino la sceneggiata.
Sono le storie che ci hanno raccontato e che a piccole dosi si possono trovare sul blog di don Paolo (Hyperlink «http://www.chiesamissionaria.it/diario»), dove per qualche tempo ho inserito frammenti di quella che in gergo chiamiamo relazione di ripresa. Una sorta di appunti di viaggio, scritti man mano che esaminavo il lavoro fatto con Tito: 10 ore di immagini, comprese le interviste a qualche persona importante e molta gente comune.
La mia relazione di ripresa si è tradotta in una serie di brevi articoli (li ho titolati «Sbobinando» e seguono una numerazione progressiva), che hanno costituito l’ossatura dei servizi che ho realizzato per il TgR Rai della Liguria, per Tv7 (Tg1), per Agenda del Mondo (Tg3). Tutto questo si fonderà in un documentario che metteremo a disposizione delle parrocchie, coronando in questo modo un mio desiderio di sempre. Che poi è l’inizio del mio cammino, in un piccolissimo e lontanissimo cinema teatro parrocchiale. Tanto tempo fa, capanne africane in un filmato tremolante, storie missionarie che chissà quanti di voi hanno visto e certamente ricordano.
A me è stata concessa la gioia profonda della prima persona: ho visto, ho sentito, ho condiviso, e questo è un altro grande privilegio.
Tarcisio Mazzeo