L’impegno sociale…«è rock»

Intervista a Bono, leader del gruppo musicale «U2»

Folgorato dal successo, la rockstar Paul Hewson, meglio conosciuto come Bono, non ha mai dimenticato le sue umili origini. Da molti anni, la sua forte coscienza sociale lo ha portato a schierarsi in difesa dei più poveri del mondo, mettendo a loro servizio le sue due grandi passioni, tipicamente irlandesi: religione e musica.

A Dublino, in Earl Street North, c’è un negozio di articoli acustici: il Bonavox Hearing Aid Store. Un giorno, Derek Hanvey detto «Guggi», del gruppo punckettaro The Villane, e Paul Hewson voce solista degli Hype, passarono di fronte alla piccola vetrina in cui erano esposti coetti acustici. Guggi guardò l’insegna ed ebbe una folgorazione: ricordando che bonavox in latino significa «bella voce» scelse di affibbiare questo soprannome al suo amico Paul. Il giovane Paul Hewson, gradì il nomignolo, abbreviandolo in Bono, pseudonimo con cui, di lì a pochi anni, diverrà famoso in tutto il mondo.
Pochi mesi dopo la passeggiata in Earl Street North, il cantante dei Radiators, Steve Rapid, propose agli Hype di cambiare il nome del loro gruppo, scegliendo un nuovo sostantivo dal doppio significato: U2. U2 erano gli aerei spia americani, utilizzati nella Seconda guerra mondiale; ma la fonetica inglese, «iu tu» può essere interpretata anche come «you too», «anche tu».
Anche tu sei partecipe di tutto quello che sta accadendo; anche tu porti le responsabilità delle catastrofi che attanagliano il mondo; anche tu hai la possibilità e il dovere di combattere per un mondo più giusto e dignitoso… Anche tu non ti devi tirare indietro…
Il binomio U2-Bono è oramai consolidato sia nel mondo musicale che in quello dell’impegno umanitario. Abbiamo incontrato Bono durante una pausa nella touée mondiale dell’ultimo album pubblicato, How to dismantle an atomic bomb (Come smantellare una bomba atomica).

Lei si dice contrario al mondo delle corporazioni e multinazionali, ma il suo gruppo nel 2004 ha sponsorizzato l’uscita dell’iPod della Apple. Non c’è una contraddizione di fondo?
La musica deve andare al passo con la tecnologia e non rimanere al palo, pena la sua sclerotizzazione. Inoltre, noi non sponsorizziamo l’iPod in sé, ma l’U2-iPod, che è anche un nostro prodotto perché contiene le nostre canzoni.

Cosa rappresenta la musica per lei?
La musica è il mio modo di parlare al mondo, ai giovani. Non dimenticherò mai le mie origini: il buco in cui a 17-18 anni suonavamo, il fatto che al di là degli stadi, del mondo in cui vivo ora, c’è un altro mondo fatto di povertà, miseria, disperazione.

Lei è ricco, famoso, ma al tempo stesso non dimentica le sue umili origini. Chi vuole rappresentare?
Rappresento quei paesi che, per pagare gli interessi dei loro debiti, non possono finanziare scuole, ospedali, istituti di ricerca. Rappresento quei milioni di persone che sono malate di Aids e che muoiono di fame.

Perché, secondo lei, gli Usa e gli stati più ricchi dovrebbero finanziare la ricerca sul vaccino dell’Aids e appoggiare le aziende farmaceutiche che producono farmaci inibitori del virus a prezzo inferiore?
Perché è una questione di sicurezza mondiale e perché combattendo questa battaglia, che a differenza di altre può essere vinta, l’immagine dell’Occidente può venire riabilitata agli occhi del terzo mondo. Viviamo in un mondo dove ogni giorno 6.500 africani muoiono a causa di una malattia che potrebbe essere debellata. Riportare un minimo di giustizia: è questo il risultato che mi prefiggo di ottenere.

Ha fiducia nei politici?
Sono cresciuto in un mondo che odiava e non aveva fiducia nei politici. Quando cresci in una famiglia povera, in un quartiere emarginato e dimenticato, non credi più alla politica. Vorresti distruggere tutto. Ma oggi ho in loro maggiore fiducia, perché la facilità delle comunicazioni, i mass media meno ossequiosi costringono i politici a mostrare i fatti, oltre che le parole.

Questo è il suo parere; quello dell’opinione pubblica forse è meno ottimistico…
Ed è qui che dobbiamo lavorare: la gente non ti darà un centesimo se non è sicura che i soldi che elargirà vadano a buon fine. Oppure te li darà una volta, ma poi chiuderà la sua borsa. La gente sa che la corruzione è un grande problema in Africa. È per questo che non chiediamo soldi se non siamo sicuri dove vadano a finire. Sono sicuro che la gente è generosa. Prendiamo gli esempi di interventi che hanno avuto successo, come in Senegal, Mozambico, Tanzania: qui i governi hanno accolto con favore le richieste di aiuto e si sono prodigati per creare servizi utili alla popolazione.

Eppure molti governi africani, come quello etiopico, sudanese, ugandese, rwandese, non dimostrano certo di voler ripristinare la democrazia o combattere la corruzione.
Il governo britannico ha bloccato ogni aiuto ad alcuni di questi governi. Ma sono anche dell’opinione che gli aiuti umanitari non debbano essere subordinati allo stabilimento delle regole democratiche in uno stato. Chi è in difficoltà deve avere la possibilità di essere salvato e questo è il nostro compito.

In che modo il suo impegno umanitario si è radicato in lei divenendo la sua filosofia di vita?
È la disperazione di un padre etiope, che mi ha supplicato di prendere con me la sua bambina di pochi mesi, affinché sopravvivesse alla carestia, che mi ha convinto di dedicarmi alla causa umanitaria. In lui ho visto Gesù Cristo.

Chi pensa sia Gesù?
Penso che sia il figlio di Dio. Lo penso, per strano che possa sembrare.

Come si sviluppa il suo rapporto con la religione?
Per ogni uomo arriva il periodo di vita in cui inizia a riflettere su se stesso, sul fatto che un terzo della popolazione soffre la fame e che tu sei un cantante di un gruppo superpagato. Sono contraddizioni, come forse lo è la nostra sponsorizzazione all’U2-iPod o la mia amicizia con Soros o Bill Gates. Ma sono queste contraddizioni che generano nuova vita. E allora mi affido a Dio. Penso che Dio non è definibile dall’uomo. È più grande, più vasto, più profondo di qualunque pensiero l’uomo possa avere su di lui. Se cerchi Dio, cercalo tra i più poveri, lì lo troverai. Sono credente e voglio portare un po’ di paradiso su questa terra.

Lei ha incontrato Giovanni Paolo ii. Cosa ricorda di quell’incontro?
Grande uomo, grande religioso. Non sono d’accordo con le sue posizioni sulla contraccezione e lui lo sapeva, ma abbiamo parlato delle cose che più ci univano che di quelle che ci dividevano. Abbiamo parlato dell’impegno umanitario, del debito pubblico, della guerra in Iraq e in Afghanistan. Lui si è fatto fotografare con gli occhiali che gli ho regalato ed io porto la copia del suo rosario; quella originale l’ha voluta tenere mia moglie Ali. Mi ha anche fatto i complimenti per i nomi dei miei figli, tutti nomi biblici: Eva, Giordano, Elia e Giovanni.

Come le è venuta l’idea di sventolare la bandiera bianca al Live Aid del 1985?
Sono irlandese e nell’Irlanda del Nord si sta combattendo un vero e proprio conflitto che ha causato migliaia di morti. So cosa significa vivere in un paese diviso e in guerra. La bandiera bianca, drenata da ogni colore, simbolo di purezza e di resa, cioè di pace perfetta, mi ha permesso di esprimere ciò che volevo dire con le mie canzoni in altro modo, forse più plateale e visibile a chiunque.

Lei si reputa un politico, un musicista, un operatore umanitario o semplicemente un idealista?
Mi piacerebbe considerarmi un operatore umanitario che fa della musica. A destra mi criticano perché mi considerano di sinistra; viceversa, a sinistra mi criticano perché «flirto» con politici di destra, come Bush o con i repubblicani americani. Ma io non mi interesso di politica. Mi interessa aiutare chi soffre, gli ultimi, per dirla con parole cristiane. Quello che è accaduto negli anni ‘80, è stato disastroso, perché tutto si muoveva in base alle ideologie, sia di destra che di sinistra. Oggi non hanno più senso. È chiaro che il marxismo-leninismo, nato sull’onda della rivoluzione industriale dell’Ottocento, non può più essere applicata al mondo odierno, anche se questa idea venisse rivisitata. Ma anche il liberalismo, con l’economia capitalista, è ormai desueta e sorpassata.

Allora cosa ci rimane?
La religione. Nella bibbia ci sono più di 2.100 versetti che parlano della povertà. Le folle che papa Giovanni Paolo ii portava ogni volta che si muoveva erano ben più numerose di quelle che possono mobilitare i concerti degli U2 o di qualsiasi gruppo musicale sulla scena mondiale.

Cosa pensa di Bush? Di recente l’ha elogiata, dicendo che in lei apprezza il fatto di utilizzare la sua celebrità per compiere opere buone.
Bush è un politico intelligente e, sorprendentemente, molto spiritoso. Ha accettato di aiutare la causa per cui si batte l’organizzazione da me co-fondata, la Data, facendo approvare al Congresso americano una legge che stanziava 485 milioni di dollari per la lotta all’Aids. È stato il programma di cura e prevenzione dell’Aids mai lanciato prima in Africa e ha avuto un successo straordinario; ma è solo l’inizio. I governi occidentali non stanziano sufficienti fondi per la lotta a quella che chiamo la nuova lebbra del xx secolo, l’Aids, o non stanziano fondi per finanziare l’acquisto di zanzariere per evitare il propagarsi della malaria. Tutto questo Dio non l’accetterebbe. E se per combattere l’Aids, la malaria, la fame debbo farmi fotografare con Bush, ebbene, io mi faccio fotografare con Bush.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




San Columba: dono ricambiato

Columba (o Colombano di Iona), figura di grande fascino e forte irradiazione, monaco, fondatore di monasteri e missionario, uomo di cultura, calligrafo eccellente e poeta, nonché personalità politica di rilievo, forma, con Brigida e Patrizio, la triade dei grandi patroni d’Irlanda.
Columba nasce a Gartan (Irlanda del Nord), attorno al 521, da una famiglia del potente clan degli Ui Néill: 4 suoi cugini, lui vivente, diventeranno re. Lo sarebbe diventato pure lui se non si fosse ritirato a Clonard, abbracciando la vita monastica.
Tornato al Nord, fonda vari monasteri, tra i quali Derry (546), Durrow (553). Nel 563, a 42 anni, con 12 compagni, ripercorre il cammino inverso di Patrizio e Finniano, per portare il dono della fede in Britannia. Si stabilisce nell’isola di lona, nell’estremità della Scozia, dove fonda un monastero che sarà presto un centro di cultura e irradiazione missionaria. Alla vita monastica, scandita da preghiera, penitenze, studio e lavoro manuale, unisce l’evangelizzazione, rivolta sia ai cristiani (regno irlandese dei Dalriada) che ai pagani, convertendo le popolazioni dei pitti e degli angli.
Tra Scozia e Irlanda, sono più di 50 i suoi monasteri, che vengono organizzati in una sorta di federazione, nota come «familia Columbae», governata secondo il sistema giuridico dei regni celtici. Più volte torna in Irlanda per visitare i monasteri della sua «famiglia», per importanti missioni di carattere diplomatico e politico, per difendere la classe dei bardi, poeti-cronisti laici, malvisti dalla nuova classe di monaci letterati.
Uomo di grande cultura, a Columba sono attribuiti vari inni in latino e in gaelico, manoscritti e codici miniati di grandissimo valore. Un suo biografo lo descrive come «angelico nell’aspetto, fine nella parola, santo nelle opere, di ottima indole e grande nel dare consigli. Non riusciva a lasciar passare anche solo un’ora senza essere occupato a leggere o scrivere o fare un qualche lavoro».
Muore il 9 giugno 597. Il suo spirito, fatto di ascetica severa, passione per il vangelo e amore per la cultura, caratterizzerà a lungo il monachesimo di Iona, quello che avrà il suo frutto più bello in Aidano, il fondatore di Lindisfae e grande evangelizzatore degli angli.

B.B.

Benedetto Bellesi




Santa Brigida: pub …paradiso

Fondatrice e badessa di uno dei primi monasteri irlandesi, santa Brigida è la santa più popolare in Irlanda, seconda solo a san Patrizio, di cui continuò l’opera di evangelizzazione dell’isola. Ella nacque verso la metà del v secolo a Fochairt, presso Dundalk.
Secondo alcune tradizioni agiografiche, avrebbe avuto solo 6 anni alla morte di san Patrizio, si sarebbe consacrata al Signore in tenera età, secondo l’usanza del tempo, per poi ricevere il velo dalle mani di altri santi.
La sua vita è intrisa di leggende: sarebbe addirittura stata ordinata vescovo. È storicamente certo che fu badessa del monastero maschile e femminile da lui fondato a Kildare, a 60 chilometri a sud ovest di Dublino. Era infatti abbastanza comune nella chiesa celtica che una donna in qualità di superiora governasse entrambi i rami di un monastero.
La sua leggendaria figura costituisce una sorta di anello di congiunzione tra il mondo pagano celtico e il cristianesimo appena esordiente. Per questo i racconti della sua vita, come di molti altri santi celtici e medioevali, è ricalcata sulla falsariga degli episodi evangelici della vita di Gesù, inestricabilmente intrecciati con mitologia e saghe celtiche. Oltre alla nascita preannunciata da un druido, alla raccolta di discepoli attorno a se, le vengono attribuiti vari miracoli, come nel caso di Gesù, rispondenti ai bisogni del prossimo. Il più famoso è quello ricalcato sulle nozze di Cana: nel Meath la santa «spillò birra da un solo barile per 18 chiese, in quantità tale che bastò dal giovedì santo alla fine del tempo pasquale» (Breviario di Aberdeen).
Simpatica è una sua preghiera, in cui descrive il «banchetto celeste», con tutti gli abitanti del paradiso, e termina con queste parole:
«Vorrei un lago di birra per il Re dei re.
Vorrei che ci fosse allegria nel bee.
Vorrei anche Gesù qui.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l’eternità».

Morì verso l’anno 524. Data della sua festa fu da sempre il 1° febbraio, giorno in cui è ancora oggi ricordata anche dal martirologio ufficiale della chiesa cattolica, che nel delineare il profilo della santa riporta i pochissimi dati certi sulla sua vita: badessa e fondatrice di uno dei primi monasteri irlandesi, nonché prosecutrice dell’opera di evangelizzazione intrapresa da san Patrizio.

B.B.

Benedetto Bellesi




San Patrizio: santo del trifoglio

SAN PATRIZIO: SANTO DEL TRIFOGLIO

San Patrizio, santo patrono d’Irlanda, viene festeggiato il 17 marzo, giorno della sua morte, in tutti i paesi che ospitano grandi comunità di irlandesi, come Stati Uniti e Australia.
Nato intorno al 385 d.C., presumibilmente a Kilpatrick (Scozia), all’età di 14 anni fu catturato da predoni irlandesi e venduto come schiavo a un re del nord, che lo costrinse a 6 anni in cattività, trovando conforto e forza nella fede in Dio. Fu un sogno, in cui il Signore gli chiese di uscire dall’Irlanda per propagare la fede, che indusse Patrizio a recarsi a Wexford e da lì in Britannia, dove venne catturato di nuovo. Liberato dopo 60 giorni, capì che prima doveva prepararsi alla sua missione. Si recò a Auxerre, nel continente, dove intraprese gli studi e venne ordinato prete dal vescovo san Germano, nel 417. Un altro sogno portò Patrizio in Irlanda per compiere l’evangelizzazione e nel 432 venne nominato vescovo d’Irlanda, succedendo a san Palladio.
Una leggenda afferma che il primo irlandese convertito e diventato suo braccio destro nell’evangelizzazione, fu Dichu, uno dei predoni che lo aveva tenuto schiavo da ragazzo: costui voleva uccidere il vescovo, ma il braccio gli si pietrificò e riprese a muoverlo solo dopo aver placato la sua ira.
Per poter evangelizzare la gente, Patrizio aveva bisogno del benestare del più potente sovrano dell’Irlanda, Laoghaire, re di Tara. Per attirae l’attenzione, approfittò dell’usanza dell’accensione del falò per salutare la primavera: siccome chi lo accendeva per primo aveva diritto di regnare, Patrizio e i suoi discepoli incendiarono per primi una grande pira e spiegarono al re che il loro unico scopo era quello di portare il vangelo tra la gente. Il re fu bene impressionato dalla spiegazione del santo e lo invitò nella sua corte.
Ma i druidi, temendo di perdere il loro prestigio, cercarono di screditare il santo vescovo davanti al re. Una volta gli chiesero di far nevicare, nonostante la primavera fosse ormai avanzata. Egli rispose che solo Dio poteva avere un simile potere, ma appena finito di parlare, la neve scese copiosamente, sciogliendosi quando Patrizio si fece il segno di croce. Un’altra volta derisero la sua predicazione sulla Trinità. Patrizio chiese aiuto al Signore affinché gli suggerisse un modo per spiegare tale concetto. Raccolse allora un trifoglio da terra e spiegò che la Trinità era come quelle foglie: un’unica Divinità in tre personalità distinte. Il re, favorevolmente impressionato dalla spiegazione, permise al santo di continuare la predicazione del vangelo alla gente, che si convertì in massa.
Per questo motivo il trifoglio è considerato simbolo d’Irlanda.
San Patrizio morì a Downpatrick nella contea di Down il 17 marzo 461.

Marta Puerari

Marta Puerari




Da evangelizzati a evangelizzatori

Grazie all’opera di san Patrizio, santa Brigida, san Columba e molti altri, la chiesa irlandese è nata con tratti originali. Moltissimi monaci irlandesi hanno evangelizzato il continente, contribuendo fortemente alla costruzione dell’Europa.

I romani la chiamavano Hibeia, ma se ne disinteressarono. Priva di città, di metalli preziosi, con un clima ritenuto inospitale, non fu sfiorata dalla colonizzazione romana né da invasioni barbariche; così l’Irlanda rimase isolata dal continente europeo e poté conservare le sue tradizioni celtiche, la sua struttura agricola e pastorale.
E quando nel secolo v iniziò l’evangelizzazione dell’isola, l’Irlanda, più che accogliere il cristianesimo, ne fu assorbita e trasformata in qualcosa di totalmente nuovo. Alleggerita del bagaglio sociopolitico del mondo greco-romano, la chiesa irlandese nacque e si sviluppò con tratti originali, ma fieramente cattolica; si strutturò secondo una propria peculiarità, attingendo le tradizioni giuridiche dalla cultura celtica e sviluppando una straordinaria capacità di irradiazione spirituale e missionaria.

MONACI, ABATI E BADESSE

L’Irlanda diventò totalmente cristiana per opera del monaco bretone Patrizio (vedi riquadro). Per 30 anni, con zelo infaticabile, egli fondò vari monasteri, divenuti punti di riferimento della vita religiosa e culturale del paese. Nella sua attività apostolica ebbe una geniale intuizione: associare i bardi (poeti e maestri di scuola) all’annuncio del vangelo.
La missione di Patrizio aveva avviato una chiesa modellata sull’organizzazione diocesana, secondo la struttura amministrativa romana, incentrata sui vescovi, per lo più insediati nelle antiche città romane. Ben presto però, mancando l’Irlanda di una vita urbana, la struttura ecclesiale fu adattata al sistema socio-politico della società celtica, che era tenuta insieme da legami tribali e familiari.
Già prima della fine del vi secolo l’organizzazione della chiesa fu incentrata sui monasteri. La parrocchia o diocesi monastica corrispondeva al distretto di un clan, il cui capo era fondatore, patrono e proprietario del monastero, tanto che l’abate era scelto dal capo tribale. Il monastero, a sua volta, fungeva da chiesa e scuola, punto di convergenza spirituale e sociale del clan o del gruppo familiare.
Capo spirituale del monastero e del territorio annesso era l’abate, che non necessariamente era consacrato vescovo o sacerdote. La gerarchia ecclesiastica tradizionale, quella istituita al tempo di Patrizio, continuava a esistere, ma i vescovi operavano normalmente all’interno della parrocchia monastica e sotto l’autorità dell’abate.
Alcuni monaci, infatti venivano ordinati per svolgere le funzioni sacerdotali: amministrazione dei sacramenti, ordinazioni sacerdotali, consacrazione di chiese e altari. Vescovi e preti venivano pure inviati in missioni itineranti per convertire altri clan e altri popoli. Si svilupparono così alcune grandi abazie, che abbracciavano pure i territori delle nuove fondazioni, anche al di là del mare, in Scozia e Britannia.
Il secolo vi fu il periodo d’oro delle fondazioni monastiche. La tradizione attribuisce tale sviluppo all’azione di Finniano, un altro monaco della Britannia occidentale, che fondò nel Meath il monastero di Clonard, passato nella tradizione come una «scuola di santi».
Una caratteristica prettamente irlandese era il ruolo della donna nella società celtica, trasferita automaticamente nell’organizzazione ecclesiale e monastica. Oltre ai monasteri rigidamente maschili, infatti, sorsero spesso i cosiddetti «monasteri doppi», che ospitavano comunità di uomini e donne, separate ma vicine, in alcuni casi con una chiesa comune per gli uffici liturgici.
In molti casi le badesse dei «monasteri doppi» esercitavano la loro autorità su uomini e donne. Le regole concedevano loro anche il potere di ascoltare le confessioni e dare l’assoluzione. Si trattava, in genere, di fondazioni aristocratiche, per cui tali badesse erano di nobili origini, colte ed energiche. Ma la regola raccomandava che «una badessa doveva essere nobile in saggezza e santità, più che nobile di nascita».
Il primo dei monasteri doppi sarebbe stato fondato da santa Brigida a Kildare (vedi riquadro). Nobildonna di una delle più antiche famiglie irlandesi, «madre delle monache d’Irlanda», la vita di santa Brigida era radicata nei miti e nei riti della sua terra; per cui anche i racconti della sua vita sono inseparabili dalle mitologie e saghe celtiche. Per quanto leggendari, tali racconti rivelano l’importanza del ruolo femminile nel movimento monastico irlandese, caratterizzato da una tumultuosa varietà di vita religiosa, ben diversa dal più ordinato monachesimo benedettino.

«MARTIRIO VERDE»

Evangelizzazione e crescita della chiesa in Irlanda avvennero in modo pacifico, senza persecuzioni e senza martiri, almeno per un millennio, fino al tempo di Elisabetta i d’Inghilterra. In assenza del «martirio rosso», cioè con spargimento del sangue, gli irlandesi escogitarono altre forme di martirio: una di esse era il «martirio verde».
I martiri verdi, rinunciavano alle comodità e ai piaceri comuni alla società umana e si ritiravano in luoghi solitari (boschi, montagne, o isole deserte), fuori delle giurisdizioni tribali, per studiare le scritture e vivere in comunione con Dio.
Vita monastica ed eremitica era interpretata dagli irlandesi secondo la propria identità psicologica e religiosa, con pratiche ascetiche dure e intransigenti, da rasentare l’eccentricità (stando alle leggende tramandate), come cantare i salmi distesi sul ghiaccio, oppure pregare con le braccia distese a forma di croce così a lungo, che gli uccelli avevano il tempo di fare il nido sulla testa dell’orante.
È certo, tuttavia, che i monasteri, centri di spiritualità e di cultura, pullulavano di monaci, molti dei quali entrarono nel calendario liturgico, meritando all’Irlanda il titolo di «isola dei santi».

«MARTIRIO BIANCO»

Tra questi santi ci sono anche tanti missionari. Popolo socievole e nomade per indole, agli irlandesi non bastava il «martirio verde» e inventarono il «martirio bianco», una geniale combinazione di ascetismo ed evangelizzazione, attività quest’ultima che da sempre ha caratterizzato la chiesa irlandese.
Moltissimi monaci abbandonavano il monastero di origine, senza farvi più ritorno, e andavano peregrinando di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio. Grazie a tale forma di ascesi, chiamata pure «peregrinazione per Cristo» o «peregrinazione per amore di Dio», essi si sparsero a migliaia prima in Gran Bretagna, poi in tutto il continente: da evangelizzati gli irlandesi diventarono evangelizzatori.
Cominciarono con il portare il vangelo alle altre popolazioni celtiche stanziate nelle coste occidentali della Gran Bretagna; spingendosi fino all’estremità della Scozia, dove san Columba (521-597), fondò il monastero di Iona (vedi riquadro), ben presto diventato centro di irradiazione culturale, religiosa e missionaria, per le isole circostanti, fino alle Orcadi, Shetland e Islanda.
Nello stesso periodo, un numero incalcolabile di missionari-pellegrini varcarono l’oceano e invasero il continente, dalla Francia alla Polonia, dalla Svizzera all’Italia. Anche le loro gesta sono tramandate con toni epici e fantasiosi; ne è un esempio san Brentano (484-578), il quale, avventuratosi con 17 monaci in una spedizione oceanica, su una barca di vimini rivestita di pelli, celebrò la pasqua in groppa a una balena gigantesca, scambiata per un’isola.
Tali leggende, tuttavia, non fanno altro che esaltare la realtà storica, testimoniata da città e regioni che fanno risalire le loro origini ai missionari celtici e bretoni, o ne portano addirittura il nome. Per limitarci all’Italia, quasi ogni regione ne vanta uno, e spesso tanto popolare da apparire come tipico del luogo: sant’Orso d’Aosta, san Frediano di Lucca, san Cataldo di Taranto, san Donato di Fiesole, sant’Emiliano di Faenza, san Felice di Piacenza… Il più noto dei missionari itineranti è san Colombano (543c.-615), anche lui conteso tra Bobbio, Luxeuil, Bregenz.
Nel 590, con 12 compagni, Colombano lasciò il suo monastero di Bangor e passò in Gallia; dopo molto peregrinare fondò in Borgogna i monasteri di Annegray, Fontaine e Luxeuil, che diventò la Montecassino francese.
Cacciato dalla Borgogna, peregrinò lungo la valle del Reno, evangelizzando i pagani in Alsazia e Svizzera, dove fondò un monastero a Bregenz, a ovest del lago di Costanza, mentre il suo compagno san Gallo ne fondò un altro che porta ancora il suo nome. Raggiunta l’Italia, Colombano terminò la sua corsa a Bobbio (Piacenza), dove morì nel 615, mentre stava costruendo il suo ultimo monastero.

RADICI DELL’EUROPA

L’evangelizzazione di Colombano, e dei missionari irlandesi in generale, non era programmata né guidata dall’alto e, per molti aspetti, era fortemente innovativa. Il cristianesimo da loro vissuto e predicato conservava tutte le caratteristiche desunte dalle tradizioni celtiche. Regime di vita monastica, consuetudini rituali e liturgiche, data della celebrazione della pasqua, metodi ascetici e spirituali, prassi pastorali, come la confessione privata… costituivano elementi di novità, che spesso entrarono in contrasto con le tradizioni di origine romana già affermate nella cristianità del continente.
Scontri e tensioni con i vescovi erano inevitabili, sia per le bizzarrie di qualche «pellegrino», sia perché i missionari irlandesi rimproveravano preti e prelati di lassismo, re, principi e papi di rompere l’unità della chiesa.
Colombano difese con passione e solide argomentazioni la legittimità delle tradizioni della cristianità irlandese, rimanendo scrupolosamente unito e fedele alla chiesa di Roma. Ma nei secoli seguenti, con l’espansione del monachesimo benedettino, molte di tali tradizioni furono assorbite, ordinate o cancellate. Sopravvissero, invece, alcuni gusti nel campo della musica, arte, architettura, scrittura, trascrizione di codici e nella liturgia, come la confessione privata, adottata dalla chiesa universale.
Della missione Colombano e dei suoi discepoli rimase indelebile, soprattutto, un ideale: la fusione di culture e popoli diversi in una sola famiglia, sotto la guida del vescovo di Roma. In tale modo nessun popolo avrebbe potuto né dovuto minacciare l’altro, «perché, scriveva Colombano in una sua lettera – noi tutti siamo membra unite di un solo corpo, sia franchi, bretoni, irlandesi o qualsiasi possa essere la nostra razza».
Nasceva così l’Europa cristiana.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




William Butler Yeats

William Butler Yeats nasce il 13 giugno 1865 a Sandymount da John Butler, un pastore protestante, e dalla cattolica Susan Pollexfen, figlia di una ricca famiglia di Sligo.
Nel 1882 comincia a comporre le prime poesie. E due anni dopo inizia a frequentare la Metropolitan School of Art di Dublino, dove incontra George Russell, che lo appassiona all’esoterismo, una materia che accompagnerà il poeta per tutto il resto della sua vita. Dopo un periodo trascorso a Londra, torna a Dublino, dove nel 1892 fonda l’Irish Literary Society.
La vita sentimentale di Yeats ha una svolta il 30 gennaio 1889, quando conosce Maud Gonne, figlia di un ufficiale irlandese e lei stessa votata alla causa indipendentista. Se ne innamora, non ricambiato, e anche il poeta si vota alla causa nazionalista, più per amore per Maud che per convinzione ideologica. Le sue speranze di sposare Maud vengono spente nel 1903, quando l’amata sposa John MacBride. Anche dopo il 1916, anno in cui MacBride viene fucilato, per essere stato uno dei capi della «Rivolta di Pasqua», Maud Gonne rifiuta di concedersi a Yeats.
Nel 1896, l’incontro con la signora Augusta Gregory permette a Yeats di dedicarsi alla letteratura e, nel 1904, di fondare l’Abbey Theatre di Dublino, che diverrà uno dei più importanti teatri d’Europa fino al 17 luglio 1951, quando un incendio mise fine alle rappresentazioni.
Nel 1909 il poeta irlandese incontra Ezra Pound, che 4 anni più tardi diverrà suo segretario. Nel 1917 sposa Gorge Hyde-Lees, da cui avrà una figlia, Anne, e un figlio, William Michael.

Nel 1922, dopo la costituzione del Libero Stato d’Irlanda, Yeats viene invitato a far parte del Senato. L’anno dopo, 1923, gli viene conferito il Premio Nobel della Letteratura. Durante la premiazione, Yeats afferma: «Il mio lavoro è stato sostenuto dall’entusiasmo e dalla gioia di una tradizione ritrovata; e dicendo queste parole sento quanto profondamente dovremmo scavare, per scoprire al di sotto di tutto ciò che è individuabile, moderno e instabile, le fondamenta di una Irlanda la cui esistenza non si potrà realizzare, se non in un’Europa che per il momento resta ancora un sogno».
Ma l’Irlanda di Yeats non è l’Irlanda che vogliono i politici e i rivoluzionari: l’Irlanda di Yeats, quella mitologica, quella del passato, contrastava con l’idea di un paese secolare e proiettato verso il futuro.
Il suo disprezzo verso questi politici è evidente nei suoi versi:
«Poeti irlandesi, apprendete il mestiere,
cantate ogni cosa ben fatta,
disprezzate la razza che ora cresce,
tutta difforme dalla testa ai piedi,
i loro cuori, le loro teste senza memoria…
così che nei giorni a venire si possa
essere ancora gli indomabili irlandesi».
Deluso dalla politica del suo paese, nel 1928 si rifiuta di candidarsi di nuovo per il Senato. Soggioando a Rapallo viene a contatto con l’idea fascista, che per un certo periodo lo affascina pur senza farsene promotore.
Continua, invece a dedicarsi agli studi esoterici e teosofici fino alla sua morte, avvenuta il 28 gennaio 1939 in Francia. Le sue spoglie vennero trasferite a Drumcliff solo nel 1948.

Benedetto Bellesi




Scheda Storica

IV millennio a.C.: popolazioni stanziali agricoltori e pastori. Costruiscono Newgrange (2.500 a.C.).
L’isola inizia a essere divisa in circa 100 regni federati, governati dal re supremo residente a Tara.
432 d.C.: arriva san Patrizio.
455: san Patrizio fonda la chiesa di Armagh.
563: san Colombano è il primo missionario irlandese.
795: iniziano le incursioni dei vichinghi.
967: inizia la campagna militare contro i vichinghi.
999: il re supremo di Muster, Brian Boru, sconfigge il re vichingo di Dublino, Sitric Silkenbeard.
1100: viene fondato il monastero di Glendalough.
1169: Richard de Clare, detto Strongbow, capo delle truppe anglo-normanne, invade l’Irlanda su richiesta del re di Leinster, Dermot McMurrough. Enrico ii d’Inghilterra si dichiara «Signore d’Irlanda».
1172: Enrico ii d’Inghilterra lascia l’Irlanda, dopo che il papa lo ha confermato sovrano d’Irlanda.
1224: i domenicani arrivano in Irlanda.
1366: Statuto di Kilkenny, che vieta il matrimonio tra irlandesi e anglo-normanni.
1532: Enrico viii si distacca dalla chiesa cattolica: l’Irlanda è teatro di scontri tra cattolici e protestanti.
1539: Enrico viii abolisce i monasteri.
1541: Enrico viii è proclamato re d’Irlanda dal Parlamento irlandese.
1557: Maria i riorganizza l’intero territorio d’Irlanda con il sistema delle plantations, espropriando la terra agli irlandesi e assegnandola agli anglo-normanni.
1592: viene fondato il Trinity College.
1649-1652: Cromwell si vendica degli assalti irlandesi contro i protestanti in modo spietato.
1688: Giacomo ii viene deposto dal trono d’Inghilterra e si rifugia in Irlanda per organizzare la resistenza.
1690: Giacomo ii è battuto da Guglielmo d’Orange nella battaglia di Boyne e l’Inghilterra conquista l’intera Irlanda.
1731: nasce il Belfast Newsletter, il più antico quotidiano al mondo.
1800: Act of Union: l’Irlanda viene ufficialmente unita alla Gran Bretagna.
1828: Daniel O’Connell riesce a far approvare il Catholic Emancipation Act, che concede il diritto di voto a un numero limitato di cattolici.
1845-48: «Grande Carestia»: più di 2 milioni di persone muoiono. Altri 2 milioni emigrano.
Nascono le prime organizzazioni per i diritti degli affittuari, poi diventate organizzazioni indipendentiste.
1905: nasce il Sinn Fein (noi soli).
1913: nasce l’Ulster Volunteer Force contro la Home Rule.
1916: nasce l’Esercito repubblicano irlandese (Irish Republican Army, Ira). L’insurrezione di Pasqua, che doveva estendersi in tutta l’Irlanda, si limita alla sola Dublino, dove 2.500 persone occupano per 5 giorni il Gpo (Ufficio postale generale).
I 14 capi dell’insurrezione vengono tutti fucilati.
1920: Govement of Ireland Act: l’isola è divisa in due parti. Il sud è chiamato Stato Libero d’Irlanda.
1921: guerra anglo-irlandese nell’Irlanda meridionale.
1926: Eamon De Valera lascia il Sinn Fein e fonda il Fianna Fáil (soldati del destino).
1932: il Fianna Fáil vince le elezioni e De Valera diviene Taioseach (primo ministro).
1936: l’Ira è messa al bando nello Stato Libero d’Irlanda.
1937: lo Stato Libero d’Irlanda è indipendente. Le Sei contee del nord rimangono alla Gran Bretagna.
1949: l’Eire prende il nome di Repubblica d’Irlanda ed esce dal Commonwealth.
1959: Eamon De Valera è eletto presidente.
1972: Bloody Sunday a Derry: 13 dimostranti uccisi.
1973: l’Eire aderisce alla Comunità europea.
1976: Mairead Corrigan e Betty Williams, dell’Ulster Peace Movement vengono insignite del premio Nobel per la Pace.
1991: Mary Robinson è eletta presidente della Repubblica d’Irlanda.
1992: il 62% degli elettori irlandesi si dice favorevole a dare alle donne la possibilità di abortire all’estero.
1997: Mary McAleese diviene presidente della Repubblica, succedendo a Mary Robinson.
1998: processo di pace in Nord Irlanda con gli Accordi del Good Friday.
2001: Mary McAleese viene confermata presidente dell’Eire senza elezioni per mancanza di candidati in alternativa al suo nome.
2005: l’Ira annuncia l’inizio del processo di disarmo.

Benedetto Bellesi




Verso il futuro senza memoria?

Bere una pinta di Guinness in Irlanda, più che un rito è una vera e propria arte: dopo la prima spillatura, la birra viene lasciata decantare diversi minuti, in modo da permettere a tutte le minuscole bollicine di risalire faticosamente in superficie. Poi, ecco l’oste rabboccare di nuovo il bicchiere, sino a che il liquido maltoso e scuro è sovrastato da un centimetro di densa schiuma bianca tendente al beige. Solo a questo punto la Guinness è pronta per essere gustata in tutta la pastosità che la contraddistingue.
Capire l’Irlanda è un po’ come bere la Guinness. Occorre tempo, pazienza; bisogna abbandonare la frenesia del «veder tutto», lasciandosi trasportare dalle piccole cose, dai particolari, in modo da permettere ai nostri sensi di abituarsi al retrogusto amarognolo che l’Irlanda, quella vera, può infliggere al primo impatto.

l’Irlanda che non c’è più

Sì, l’Irlanda può lasciare l’amaro in bocca alla maggior parte dei turisti che giungono qui con l’impeto e la sana cecità fanciullesca di chi vuole a tutti i costi scoprire il paese delle favole abitato da Leprecaro. Turisti in cerca di una cultura celtica che, nella realtà, viene celata nell’anima modea irlandese. Anche uno scrittore alternativo come Joseph O’Connor, fratello della famosa cantante Sinead, dice che «la tragedia centrale dell’Irlanda è – e lo è sempre stata – il conflitto fra la vita privata e la fantasia pubblica».
E di fantasia pubblica si è assorbita Agnese, la ragazza che mi è accanto sull’aereo della Aer Lingus, che da Dublino mi riporta a Bergamo: «Pensavo di trovare un paese tradizionale, più legato al proprio passato, ma mi sono trovata immersa in una nazione proiettata verso il futuro».
Le fa eco Riccardo, ricercatore all’Università di Venezia, che sta scrivendo un libro sulle origini delle culture nordeuropee: «I giovani irlandesi non sanno nulla della cultura celtica e della mitologia; e il fatto è che non ne sono neppure interessati».
Ciò di cui si sono accorti Riccardo e Agnese, 70 anni fa lo aveva scritto un grande poeta come William Butler Yeats, il più irlandese dei poeti (vedi riquadro a p. 34) e, forse proprio per questo, il meno capito e letto tra gli irlandesi:
«L’Irlanda romantica è morta
e scomparsa. È con O’Leary nella sua tomba».
E se lo ha scritto Yeats, perché non crederci? Perché ostinarsi a cercare ciò che il tempo e la rivoluzione repubblicana d’indipendenza hanno sempre combattuto e cercato di estirpare?
«Udii i vecchi, molto vecchi, dire:
Tutto ciò che è bello trascorre come le acque» scrive ancora Yeats.
Ed è proprio sulle orme di questo sommo poeta, Premio Nobel della Letteratura nel 1923, che vado alla scoperta dell’isola, o meglio, di quella parte dell’isola che il 6 dicembre 1921 si emancipò dall’occupazione britannica dando vita alla Repubblica Irlandese.
«Tutto ciò che è bello trascorre»; ricordiamoci dunque queste parole quando andiamo in Eire, perché anche l’Irlanda mitologica, quella rincorsa dai turisti in cerca dei «valori autentici e ancestrali» non abita più qui. Cercatela da un’altra parte!

Tra mitologia e religione

Ciò che si troverà in Irlanda sono i paesaggi bucolici alla Tuer; i cieli immensi, variopinti e un po’ malinconici, che contrastano magnificamente con il verde dei prati; le scogliere contro cui si frangono le onde dell’Atlantico; il vento persistente, che spruzza contro il viso minuscole goccioline di pioggia; i pubs in cui si riuniscono vecchi e giovani per parlare di calcio, hurling, donne e lavoro e politica.
E non è un caso che molti dei personaggi che più si sono interessati all’Irlanda, siano stranieri. Straniero era san Patrizio, il patrono del paese a cui è dedicata la festa nazionale del 17 marzo; straniero era anche Tolkien, il più grande studioso di culture e lingue celtiche, autore de Il Signore degli anelli. Il suo capolavoro è forse l’epopea più completa della mitologia celtica e la sua lettura è senz’altro il miglior modo per entrare in contatto con l’Irlanda.
E chi legge Il Signore degli anelli non può fare a meno di accorgersi che tutto il libro rimanda all’Antico Testamento: la lotta tra la Luce e le Tenebre; il Male (Gollum) che diventa mezzo per far trionfare il Bene. La forte solidarietà che regna tra la Compagnia (partita da Gran Burrone il 25 dicembre) permette a Frodo di completare la sua missione (la quale viene portata a termine il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione di Maria). L’anello, simbolo del Male e del Potere, viene distrutto nel giorno in cui l’Arcangelo Gabriele annuncia a Maria il suo concepimento. Il Male viene distrutto nel momento stesso in cui la salvezza viene tra l’uomo.
Ecco, l’Irlanda è anche questo, una terra in cui mitologia e religione si confondono. Ma per capie la mitologia, occorre passare attraverso la religione. E l’Irlanda è la terra, assieme alla Spagna e all’Italia, dove il cattolicesimo è più incisivo nella vita quotidiana e pubblica.
Il conflitto in atto nelle Sei Contee (nome con cui i repubblicani definiscono l’Ulster, l’Irlanda del Nord), pur non essendo esclusivamente di natura religiosa, ha profonde radici attinenti alla religione: repubblicani cattolici contro monarchici protestanti.
Gli innumerevoli monasteri e le famose torri circolari, che si innalzano dalle verdi praterie come dita a indicare il cielo, sono state le casseforti in cui si sono conservati preziosi manoscritti e documenti storici, oltre che sicuri rifugi popolari contro le incursioni estee.
Pensiamo, ad esempio, a cosa avrebbe perso il mondo se i monaci di Iona non avessero scritto e salvato nell’806 il Libro di Kells, contenente i quattro vangeli in latino e considerato il codice miniato fra i più belli al mondo.
Nell’Irlanda di oggi si ravvisa ancora tutto questo misticismo. È vivo, lampante, chiaro. Non bisogna neppure cercarlo, perché è sempre dinnanzi al visitatore.
E non sorprende, dunque, che nel paese l’aborto sia illegale, che in corrispondenza dei cimiteri ci si faccia il segno della croce o che in alcune stazioni radio si osservi un minuto di silenzio per la preghiera serale e che da un saldo demografico negativo negli anni 1950-70, oggi la nazione è tra le più prolifiche d’Europa, con un tasso d’incremento annuo dell’1,16%.

E’ cambiato l’irlandese

Ma in che cosa sta cambiando l’Irlanda?
«Vai nei pubs per accorgerti di come stia cambiando l’irlandese – afferma Brid O’Nelly, giovane attivista del Fine Gael, la seconda organizzazione politica del paese dopo il Fianna Fáil -. Fino a qualche decennio fa parlare gaelico era indice di sano nazionalismo, di solidarietà con i nostri fratelli delle Sei Contee. Oggi in alcune regioni attorno a Dublino e alle grandi città ci si vergogna a parlare la lingua dei nostri avi. Ci si sente provinciali, esclusi dal mondo globale».
Girovagando per l’Irlanda, mi accorgo di quanto sia vera l’affermazione di Brid: nelle scuole stanno sorgendo un po’ ovunque comitati di genitori che chiedono la riduzione delle ore di insegnamento del gaelico per far posto a una seconda lingua europea, mentre i corsi di gaelico organizzati dai circoli culturali o dai movimenti nati per non far morire questa lingua, sono frequentati soprattutto da stranieri.
E se nelle città il gaelico non lo parla più nessuno, anche nelle campagne sta scomparendo. I Gaeltacht, le zone dell’Irlanda dove la lingua celtica continua a essere parlata, si restringono sempre più, divenendo isole nell’isola. Solo l’11% dei 4 milioni di irlandesi conosce la lingua dei propri avi; ma solo il 3%, la quasi totalità dei quali al di sopra dei 50 anni e concentrati nel Donegal, lo parla quotidianamente. E se gli irlandesi si commuovono a cantare Amhràn na bhFiann, «La canzone del soldato», l’inno nazionale che ricorda i moti rivoluzionari degli anni Venti, quando la nazionale Irlandese batté l’Italia ai mondiali di calcio del 1994 negli Stati Uniti, ci si accorse che molti giovani non conoscevano le parole dell’inno in gaelico.
«Cosa mi serve imparare una lingua che nessuno parla neppure nel mio paese?» chiede perplesso Fergus, nome gaelico, ma lingua inglese.

Irlanda in europa

L’entrata dell’Irlanda in Europa, oltre che a innestare l’isola nel mondo culturale del continente, ha permesso al governo di ricevere stanziamenti miliardari per il rilancio dell’esausta economia.
Dublino è riuscito a comprendere l’importanza dell’industria turistica, destinando una quota considerevole del suo budget al potenziamento degli uffici turistici all’estero, che oggi sono tra i più efficienti al mondo. E grazie a un’interessante e intelligente politica di recupero architettonico, accompagnata da un’opera di grande pubblicità, gli irlandesi sono anche riusciti a rendere monumenti e paesaggi, che in altri luoghi apparirebbero di poco interesse, mete turistiche d’eccellenza.
Penso ad esempio a Galway, cittadina della costa atlantica, presa d’assalto e devastata da orde di turisti, o Powerscourt, una villa ottocentesca con parco annesso, che in Italia non meriterebbe menzione particolare tra le guide turistiche… «Gli irlandesi dovrebbero insegnare a noi italiani a come valorizzare il nostro patrimonio» sentenzia una coppia di italiani di fronte alla Kylemore Abbey.
Ma l’entrata in Europa dell’Eire, ha portato anche allo sviluppo dell’economia produttiva: «Sono riuscita a portare l’Irlanda da paese trainato a paese trainante dell’Europa» dice orgogliosa la presidente Mary McAleese, alla guida della nazione dal 1997, quando sconfisse con il 44,8% dei voti la rivale Mary Canotti.
I numeri che oggi sfoa l’economia irlandese si avvicinano più a valori asiatici che europei: tra il 1995 e il 2004 è aumentata del 7%, mentre la produzione industriale nel solo 2005 è cresciuta del 3%.

Solidarietà smarrita

Tutto questo, però è costato enormi sacrifici agli irlandesi: l’agricoltura, voce trainante del sistema fino a qualche lustro fa, ha subito un vero e proprio tracollo, contribuendo, oggi, solo per un mero 5% del Pil e occupando l’8% della forza lavoro. L’industria, per contro, partecipa per il 46% al Pil, occupando il 29% della forza lavoro.
Lo spostamento degli investimenti dalle zone rurali a quelle industriali ha causato il dislocamento di migliaia di persone, le quali non tutte hanno trovato sistemazioni adeguate. A Dublino e a Limerick si stanno ingrossando i sobborghi popolari, in cui si concentra la maggioranza del 4,2% della popolazione disoccupata e il 10% di chi vive al di sotto del limite della povertà.
Già, perché l’Irlanda, quella vera, quella non toccata dal turismo, quella che i «cercatori» di druidi e folletti non vedono, è anche questa: povertà, emarginazione, sfruttamento. «La globalizzazione e la Comunità europea hanno impoverito i lavoratori. Si chiudono scuole, asili, centri comunitari lasciando alle singole famiglie il compito di provvedere a trovare soluzioni che dovrebbero essere compito delle amministrazioni pubbliche» dice Sean Garland, segretario generale del Workers’ Party (partito dei lavoratori).
Così ci si affida sempre meno allo stato e sempre più alle organizzazioni religiose, alle cornoperative o all’autogestione. Nei Ballymun Flats, un quartiere popolare alla periferia di Dublino, la povertà e la criminalità è tra le più alte dell’intera isola. Padre McCarthy vi lavora da anni con una comunità di recupero per drogati: «L’uso di stupefacenti non ha ancora raggiunto i livelli che si riscontrano in Gran Bretagna e nelle città-ghetto britanniche, ma questo potrebbe ben presto cambiare. Lo stato sta gettando la spugna, preferendo occuparsi dei cittadini “modello” che non danno problemi. I diseredati, gli emarginati, i disoccupati, i poveri possono essere sacrificati. Tocca a noi occuparci di loro».
L’Irlanda sta davvero cambiando: l’Europa economica di Maastricht ha prevalso sulla solidarietà, che ha salvato milioni di vite durante le innumerevoli carestie del passato. E allora come non dare ragione a Joseph O’Connor, quando afferma «il fatto che, a parte Yeats, tutti i più importanti scrittori irlandesi degli ultimi 150 anni siano stati socialisti rivoluzionari, è stato dimenticato da coloro che insegnano storia nelle scuole».

La storia irlandese sta cambiando. L’Irlanda sta cambiando.
E in questa Irlanda che sta cambiando, ma di cui nessun turista sembra o voglia accorgersene, leggo l’epitaffio che Yeats stesso scrisse per la sua tomba a Drumcliff:
«Sotto la vetta spoglia
del Ben Bulben,
nel cimitero di Drumcliff
è sepolto Yeats.
Uno dei suoi antenati
ne fu parroco,
anni e anni fa;
una chiesa si erge lì vicino;
presso la strada
v’è un’antica croce.
E niente marmo,
niente frasi convenzionali;
sul calcare scavato
in quello stesso luogo
queste parole sono state incise
per sua volontà:
Getta uno sguardo freddo
sulla vita e sulla morte.
Cavaliere,
prosegui il tuo cammino!».
Leggo… e proseguo il mio cammino.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




INTRODUZIONE

Isola di santi e di giganti, di miti e di leggende; patria di scrittori straordinari e di musica travolgente, di gente cordiale… L’Irlanda è tutto questo e altro ancora. Qui nasce la Guinness, qui vivono fate e folletti, qui la storia fa capolino a ogni angolo.
Si dice pure che gli irlandesi assomigliano agli italiani, o viceversa. È certo che gli irlandesi sono stati un popolo di migranti e, come gli italiani, sono sparsi in tutto il mondo.
Soprattutto, l’Irlanda è patria di tanti missionari, che hanno contribuito alla prima evangelizzazione del continente, dal Belgio all’Italia, dalla Francia alla Polonia, contribuendo alla costruzione dell’Europa cristiana. Ancora oggi migliaia di suoi missionari continuano l’evangelizzazione in tutti i continenti.
«La storia dell’Irlanda è stata ed è fonte d’ispirazione umana e spirituale per le popolazioni di ogni continente. Essa ha ereditato una nobile missione cristiana e umana; il suo contributo per il benessere del mondo e per la nascita di una nuova Europa può essere oggi tanto grande quanto lo è stato nei giorni più luminosi della sua storia. È questa la missione e la sfida lanciata all’Irlanda in questa generazione» (Giovanni Paolo ii).
Ora che sono entrati a far parte dell’Unione europea, gli irlandesi sembrano aver smarrito una delle loro caratteristiche storiche: la solidarietà. Ma non tutti. Oltre alla chiesa, Bono e la sua U2 continuano a schierarsi a fianco dei più poveri del mondo.

Benedetto Bellesi




Davanti alla morte

La vita che volge al termine (2): l’eutanasia

Nella nostra società il dolore e la morte sono «tabù»?

Quali sono i limiti all’autonomia dell’individuo? Esiste un’etica oggettiva?
Esiste un «diritto a morire»?

La medicina propone continuamente nuovi scenari, alcuni affascinanti, altri purtroppo inquietanti. La questione dell’eutanasia appartiene sicuramente a questi ultimi.

L’UOMO E LA MORTE
Una progressiva secolarizzazione del pensiero ha più che mai consolidato il principio di autonomia del singolo. In primis, in una società che non accetta un’etica oggettiva come riferimento e che rifiuta totalmente la spiritualità e la trascendenza, non è possibile vivere la morte e dare significato al dolore. Considerando l’uomo solo nella sua dimensione immanente, si ignora la morte, la si bandisce dalla coscienza e, quando appare all’orizzonte, carica inevitabilmente di sofferenza, la si vuole strumentalizzare al proprio volere.
Nella civiltà post-modea, in cui impera la «medicina dei desideri» che promette sicuro benessere fisico, psichico e sociale, vivo è ancora il «tabù» della morte con gli annessi e connessi; tutto ciò che crea dolore, deve essere nascosto e annullato.
Diverso invece è l’atteggiamento del credente, che vede nella morte non solo il limite e la finitudine dell’essere umano, ma anche il legame inscindibile con Dio dal quale dipende e, alla luce della Resurrezione, l’inizio della vita eterna. Atti, come l’eutanasia o il suicidio rivendicano l’assoluta autonomia dell’uomo sulla vita o sulla morte.
Alquanto complesso oggi si presenta l’esercizio della professione medica. Il progresso scientifico e tecnologico e il conseguente utilizzo di sofisticate apparecchiature con le quali si può tenere in vita un morente per tempi lunghissimi, ha rinnovato recentemente il dibattito sull’eutanasia e, ad esempio in Olanda e in Belgio, ne ha accompagnato la legalizzazione. Questa legge ha fatto seguito ad altri provvedimenti normativi degli anni ’90 adottati in Australia, in Danimarca, in Svizzera e in alcuni stati americani come l’Oregon, in coerente linea con una «cultura dell’etica del morire».
La normativa olandese («Legge sul controllo dell’interruzione della vita a richiesta e sull’aiuto al suicidio») nel quadro della cosiddetta eutanasia attiva, richiede soltanto per essere applicata il consenso libero e informato dell’individuo in grado di intendere e di volere.
È interessante notare come nei Paesi Bassi, ancora prima dell’approvazione della legge, secondo una tradizione radicata fin dagli anni ’70, il medico non veniva perseguito se procurava la morte di un soggetto affetto da un male incurabile che chiedeva esplicitamente di morire.
Il «kit eutanasico» in vendita per una manciata di euro nelle farmacie, dietro semplice prescrizione medica è l’aberrante punto di arrivo di una mentalità ben radicata nel relativismo etico e nel soggettivismo esasperato.
Si è passati dall’etica ippocratica, diretta ad alleviare le sofferenze a beneficio del paziente, all’etica individualistica dell’assoluta autonomia e libertà incondizionata. Un triste mutamento di rotta…

LA «DOLCE MORTE»
Al termine eutanasia sono stati attribuiti significati diversi nel tempo. Dal greco eutanasia (eu, bene, buono; thanatos, morte), nel secolo XVII assume in significato di morte dolce, lieve. Francis Bacon (Francesco Bacone, 1561-1626), infatti, afferma nel De dignitate et augmentis scientiarum che i medici «in conformità al loro dovere e al rispetto dell’umanità…, dovrebbero applicare la loro arte e il loro zelo a che i moribondi si congedino dalla vita in modo più semplice e più dolce». Egli intendeva quindi un aiuto a morire rivolto sia all’anima che al corpo.
In seguito, con l’applicazione delle teorie illuministiche, in cui l’individuo si ritiene autonomo e possiede libertà decisionale, si teorizza la «vita senza valore», che, unitamente al progresso delle scienze e delle tecniche, crea i presupposti alla definizione odiea di eutanasia.
Nell’accezione corrente si intende oggi per eutanasia «un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare il dolore» (Iura et bona, II; Evangelium vitae, n.65); o, ancora «l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza o su sua richiesta» (Comitato nazionale di bioetica, CNB 1995).

IL DIBATTITO
Nel XX secolo, con l’evolversi della scienza verso forme di pratica sempre più caratterizzate dalla tecnica, con la medicalizzazione della vita e della morte, si è drammaticamente imposto come pressante il dibattito medico, etico e giuridico sull’eutanasia.
La carenza di regole giuridiche esaustive è legata alla difficoltà di ratificare delle norme che abbiano la capacità di mediare tra i valori morali, i criteri medici e l’esistenza umana nelle sue fasi terminali.
Vi sono interrogativi aperti, derivanti principalmente da nodi ancora da sciogliere di pertinenza medica, in particolare la difficoltà di determinare i limiti della rianimazione e del mantenimento in vita nei casi di coma profondo, di stato vegetativo persistente, di sindrome apallica.
Molte e variegate sono le questioni che ruotano intorno alla qualificazione etica dell’eutanasia e alla sua determinazione giuridica: depenalizzazione e legalizzazione.
Talvolta le parole mutano nel tempo il loro significato. Tale sorte è toccata anche alla definizione di eutanasia. Il termine si è arricchito via via di nuovi significati e nuove interpretazioni, non sempre univoche. Oggi si parla, ad esempio, di eutanasia quando ci troviamo di fronte ad un «suicidio volontario medicalmente assistito». Un suicidio è considerato «eutanasico», quando un individuo, in condizioni di gravissima malattia, con decorso invalidante, dolore incoercibile e prognosi nefasta, sceglie da sé i mezzi con cui togliersi la vita e procurarsi la morte. È un suicidio, ma medicalmente assistito in quanto interviene una seconda figura, quella del medico che consiglia e prescrive al paziente i farmaci con cui morire.
Per «eutanasia attiva», volontaria e medicalmente assistita si intende invece l’intervento diretto e consapevole del medico, che aiuta il paziente a morire, assecondando in tal modo una sua esplicita volontà. In questo caso si tratta di un atto con il quale una persona produce la morte di un’altra, incurabile, consapevole e decisa a non patire più altre sofferenze fisiche e psicologiche.
Di eutanasia si parla anche come atto omissivo («eutanasia passiva»): «quella in cui si lascia morire un malato sospendendogli intenzionalmente le cure ordinarie necessarie alla sopravvivenza». «Come azione o omissione che procura la morte o uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta» (CNB 1995), l’atto eutanasico è strettamente connesso a un’azione estea, attiva o omissiva, da praticare a malati sofferenti e terminali.
Quindi, per eutanasia passiva, si intende la rinuncia ad ulteriori trattamenti terapeutici, graduati in ottemperanza al principio della proporzionalità.
In relazione all’atto eutanasico omissivo è ormai comune convinzione, in ordine di principio, sul piano etico-giuridico (in Italia, legge 8.2.2001, n.12) e su quello religioso, che la pratica medica usi opportunamente le sue risorse tecniche, con l’esclusione dell’accanimento terapeutico.
Inoltre si chiede l’uso di sussidi farmacologici per il trattamento del dolore (mezzi di cura ordinari e straordinari) con misura adeguata, senza intenzione di procurare la morte, ma nel rispetto della dignità del malato e della sua sofferenza.
A questo proposito anche la chiesa riconosce la liceità dell’uso dei farmaci antidolore (già Pio XII nel 1957 lo approvava), anche se dal loro uso ne «possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità» (Congregazione per la dottrina della fede, 1980).
Perseguendo questi intendimenti, sia come trattamento del dolore sia come etica per l’accompagnamento a una buona morte, può anche interpretarsi la politica per la diffusione degli Hospices, luoghi che «umanizzando» l’assistenza ai malati terminali, insieme al perfezionamento delle cure palliative, giovano a contrastare il desiderio di morte del malato.

LA DOTTRINA
La dottrina cattolica mantiene fede al principio fondamentale del carattere sacro e quindi inviolabile della vita umana, dal concepimento fino al suo termine naturale, come diritto della persona.
Contro l’eutanasia si avanza il principio della «sacralità della vita», a cui è connessa la concezione della vita come bene in sé. Si dichiara la non disponibilità da parte della persona per ragioni morali, religiose e sociali e si nega la possibilità di includere il «diritto di morire» all’interno del «diritto della vita», «germe di ogni ordinamento giuridico» (Jonas 1985; Fuari Luvarà, 1994). Per la chiesa cattolica «nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò un crimine di estrema gravità» (Cong. D. Fede, 1980: Russo, 2000).
Ribadendo che «la maggior parte degli uomini ritiene che la vita [ha] un carattere sacro e che nessuno ne [può] disporre a piacimento», la chiesa cattolica sottolinea che nella vita «i credenti vedono […] anche un dono dell’amore di Dio, che sono chiamati a conservare e far fruttificare».
In quest’ottica, è eticamente inaccettabile ogni forma di eutanasia sia attiva che passiva, sia volontaria che involontaria, sia e ancor più il suicidio medicalmente assistito.
Lecito, anche in una prospettiva teologico-divina della vita umana, è ritenuto l’uso di cure palliative opportunamente dosate in relazione allo stato di sofferenza del paziente, al grado di evoluzione della malattia. In terapia intensiva si è ricorsi alla definizione di «accanimento terapeutico» per delimitare la soglia che divide l’obbligo di curare dall’«irragionevole ostinazione» di trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita» (Codice italiano di deontologia medica, art.20).
La sospensione dell’accanimento terapeutico deve applicarsi tutte le volte che la terapia non giova ad alleviare il paziente, né consente di migliorae le condizioni.
Nell’Evangelium vitae Giovanni Paolo II afferma solennemente: «…in conformità con il magistero dei miei predecessori e in comunione con i vescovi della chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana» (n.65). Ed ancora insiste sull’importanza del dialogo con coloro che, pur non condividendo la stessa fede religiosa, credono nella vita umana come valore e diritto fondamentale della persona: «…dobbiamo promuovere un confronto serio e approfondito con tutti, anche con i non credenti, sui problemi fondamentali della vita umana, nei luoghi dell’elaborazione del pensiero, come dei diversi ambiti professionali e là dove si snoda quotidianamente l’esistenza di ciascuno», in quanto la dottrina della chiesa è fondata sulla legge naturale oltre che sulla parola di Dio scritta (n. 95).
Fondando un’etica medica su questi presupposti può nascere una nuova e feconda collaborazione, una nuova forma di alleanza terapeutica.
Il medico, come tutore della vita, è tenuto a opporsi a qualsiasi pressione morale da parte del paziente, dei familiari, oppure della società. Crollerebbe altrimenti la fiducia nel suo ethos professionale di sostenere l’infermo e lenie le sofferenze.
Il malato, da parte sua, deve avvertire la vicinanza fisica ed affettiva del suo ambiente, in particolare dei suoi familiari; l’esperienza dimostra che il desiderio esteato di porre termine alla vita, sovente è un grido di disperazione in seguito alla già avvenuta morte sociale. È opportuno quindi che vi sia intorno al malato una cooperazione sensibile ed attenta che gli garantisca un’assistenza integrale e una morte umanamente dignitosa.
Fermo restando che il nucleo della pastorale è il mistero pasquale di Cristo e che il suo scopo precipuo è la carità intesa come servizio responsabile verso l’altro, la difesa della dignità della vita umana passa attraverso la solidarietà nei confronti del malato da parte di operatori sanitari, volontari, sacerdoti, familiari, ciascuno secondo le sue competenze al fine di «farsi prossimo» (Lc 10,29-37), accompagnandolo umanamente e cristianamente alla conclusione della sua vita terrena.
Un malato che chiede di morire, chiede in realtà di non essere lasciato solo.

Federico Larghero

Enrico Larghero