Verso il futuro senza memoria?

Bere una pinta di Guinness in Irlanda, più che un rito è una vera e propria arte: dopo la prima spillatura, la birra viene lasciata decantare diversi minuti, in modo da permettere a tutte le minuscole bollicine di risalire faticosamente in superficie. Poi, ecco l’oste rabboccare di nuovo il bicchiere, sino a che il liquido maltoso e scuro è sovrastato da un centimetro di densa schiuma bianca tendente al beige. Solo a questo punto la Guinness è pronta per essere gustata in tutta la pastosità che la contraddistingue.
Capire l’Irlanda è un po’ come bere la Guinness. Occorre tempo, pazienza; bisogna abbandonare la frenesia del «veder tutto», lasciandosi trasportare dalle piccole cose, dai particolari, in modo da permettere ai nostri sensi di abituarsi al retrogusto amarognolo che l’Irlanda, quella vera, può infliggere al primo impatto.

l’Irlanda che non c’è più

Sì, l’Irlanda può lasciare l’amaro in bocca alla maggior parte dei turisti che giungono qui con l’impeto e la sana cecità fanciullesca di chi vuole a tutti i costi scoprire il paese delle favole abitato da Leprecaro. Turisti in cerca di una cultura celtica che, nella realtà, viene celata nell’anima modea irlandese. Anche uno scrittore alternativo come Joseph O’Connor, fratello della famosa cantante Sinead, dice che «la tragedia centrale dell’Irlanda è – e lo è sempre stata – il conflitto fra la vita privata e la fantasia pubblica».
E di fantasia pubblica si è assorbita Agnese, la ragazza che mi è accanto sull’aereo della Aer Lingus, che da Dublino mi riporta a Bergamo: «Pensavo di trovare un paese tradizionale, più legato al proprio passato, ma mi sono trovata immersa in una nazione proiettata verso il futuro».
Le fa eco Riccardo, ricercatore all’Università di Venezia, che sta scrivendo un libro sulle origini delle culture nordeuropee: «I giovani irlandesi non sanno nulla della cultura celtica e della mitologia; e il fatto è che non ne sono neppure interessati».
Ciò di cui si sono accorti Riccardo e Agnese, 70 anni fa lo aveva scritto un grande poeta come William Butler Yeats, il più irlandese dei poeti (vedi riquadro a p. 34) e, forse proprio per questo, il meno capito e letto tra gli irlandesi:
«L’Irlanda romantica è morta
e scomparsa. È con O’Leary nella sua tomba».
E se lo ha scritto Yeats, perché non crederci? Perché ostinarsi a cercare ciò che il tempo e la rivoluzione repubblicana d’indipendenza hanno sempre combattuto e cercato di estirpare?
«Udii i vecchi, molto vecchi, dire:
Tutto ciò che è bello trascorre come le acque» scrive ancora Yeats.
Ed è proprio sulle orme di questo sommo poeta, Premio Nobel della Letteratura nel 1923, che vado alla scoperta dell’isola, o meglio, di quella parte dell’isola che il 6 dicembre 1921 si emancipò dall’occupazione britannica dando vita alla Repubblica Irlandese.
«Tutto ciò che è bello trascorre»; ricordiamoci dunque queste parole quando andiamo in Eire, perché anche l’Irlanda mitologica, quella rincorsa dai turisti in cerca dei «valori autentici e ancestrali» non abita più qui. Cercatela da un’altra parte!

Tra mitologia e religione

Ciò che si troverà in Irlanda sono i paesaggi bucolici alla Tuer; i cieli immensi, variopinti e un po’ malinconici, che contrastano magnificamente con il verde dei prati; le scogliere contro cui si frangono le onde dell’Atlantico; il vento persistente, che spruzza contro il viso minuscole goccioline di pioggia; i pubs in cui si riuniscono vecchi e giovani per parlare di calcio, hurling, donne e lavoro e politica.
E non è un caso che molti dei personaggi che più si sono interessati all’Irlanda, siano stranieri. Straniero era san Patrizio, il patrono del paese a cui è dedicata la festa nazionale del 17 marzo; straniero era anche Tolkien, il più grande studioso di culture e lingue celtiche, autore de Il Signore degli anelli. Il suo capolavoro è forse l’epopea più completa della mitologia celtica e la sua lettura è senz’altro il miglior modo per entrare in contatto con l’Irlanda.
E chi legge Il Signore degli anelli non può fare a meno di accorgersi che tutto il libro rimanda all’Antico Testamento: la lotta tra la Luce e le Tenebre; il Male (Gollum) che diventa mezzo per far trionfare il Bene. La forte solidarietà che regna tra la Compagnia (partita da Gran Burrone il 25 dicembre) permette a Frodo di completare la sua missione (la quale viene portata a termine il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione di Maria). L’anello, simbolo del Male e del Potere, viene distrutto nel giorno in cui l’Arcangelo Gabriele annuncia a Maria il suo concepimento. Il Male viene distrutto nel momento stesso in cui la salvezza viene tra l’uomo.
Ecco, l’Irlanda è anche questo, una terra in cui mitologia e religione si confondono. Ma per capie la mitologia, occorre passare attraverso la religione. E l’Irlanda è la terra, assieme alla Spagna e all’Italia, dove il cattolicesimo è più incisivo nella vita quotidiana e pubblica.
Il conflitto in atto nelle Sei Contee (nome con cui i repubblicani definiscono l’Ulster, l’Irlanda del Nord), pur non essendo esclusivamente di natura religiosa, ha profonde radici attinenti alla religione: repubblicani cattolici contro monarchici protestanti.
Gli innumerevoli monasteri e le famose torri circolari, che si innalzano dalle verdi praterie come dita a indicare il cielo, sono state le casseforti in cui si sono conservati preziosi manoscritti e documenti storici, oltre che sicuri rifugi popolari contro le incursioni estee.
Pensiamo, ad esempio, a cosa avrebbe perso il mondo se i monaci di Iona non avessero scritto e salvato nell’806 il Libro di Kells, contenente i quattro vangeli in latino e considerato il codice miniato fra i più belli al mondo.
Nell’Irlanda di oggi si ravvisa ancora tutto questo misticismo. È vivo, lampante, chiaro. Non bisogna neppure cercarlo, perché è sempre dinnanzi al visitatore.
E non sorprende, dunque, che nel paese l’aborto sia illegale, che in corrispondenza dei cimiteri ci si faccia il segno della croce o che in alcune stazioni radio si osservi un minuto di silenzio per la preghiera serale e che da un saldo demografico negativo negli anni 1950-70, oggi la nazione è tra le più prolifiche d’Europa, con un tasso d’incremento annuo dell’1,16%.

E’ cambiato l’irlandese

Ma in che cosa sta cambiando l’Irlanda?
«Vai nei pubs per accorgerti di come stia cambiando l’irlandese – afferma Brid O’Nelly, giovane attivista del Fine Gael, la seconda organizzazione politica del paese dopo il Fianna Fáil -. Fino a qualche decennio fa parlare gaelico era indice di sano nazionalismo, di solidarietà con i nostri fratelli delle Sei Contee. Oggi in alcune regioni attorno a Dublino e alle grandi città ci si vergogna a parlare la lingua dei nostri avi. Ci si sente provinciali, esclusi dal mondo globale».
Girovagando per l’Irlanda, mi accorgo di quanto sia vera l’affermazione di Brid: nelle scuole stanno sorgendo un po’ ovunque comitati di genitori che chiedono la riduzione delle ore di insegnamento del gaelico per far posto a una seconda lingua europea, mentre i corsi di gaelico organizzati dai circoli culturali o dai movimenti nati per non far morire questa lingua, sono frequentati soprattutto da stranieri.
E se nelle città il gaelico non lo parla più nessuno, anche nelle campagne sta scomparendo. I Gaeltacht, le zone dell’Irlanda dove la lingua celtica continua a essere parlata, si restringono sempre più, divenendo isole nell’isola. Solo l’11% dei 4 milioni di irlandesi conosce la lingua dei propri avi; ma solo il 3%, la quasi totalità dei quali al di sopra dei 50 anni e concentrati nel Donegal, lo parla quotidianamente. E se gli irlandesi si commuovono a cantare Amhràn na bhFiann, «La canzone del soldato», l’inno nazionale che ricorda i moti rivoluzionari degli anni Venti, quando la nazionale Irlandese batté l’Italia ai mondiali di calcio del 1994 negli Stati Uniti, ci si accorse che molti giovani non conoscevano le parole dell’inno in gaelico.
«Cosa mi serve imparare una lingua che nessuno parla neppure nel mio paese?» chiede perplesso Fergus, nome gaelico, ma lingua inglese.

Irlanda in europa

L’entrata dell’Irlanda in Europa, oltre che a innestare l’isola nel mondo culturale del continente, ha permesso al governo di ricevere stanziamenti miliardari per il rilancio dell’esausta economia.
Dublino è riuscito a comprendere l’importanza dell’industria turistica, destinando una quota considerevole del suo budget al potenziamento degli uffici turistici all’estero, che oggi sono tra i più efficienti al mondo. E grazie a un’interessante e intelligente politica di recupero architettonico, accompagnata da un’opera di grande pubblicità, gli irlandesi sono anche riusciti a rendere monumenti e paesaggi, che in altri luoghi apparirebbero di poco interesse, mete turistiche d’eccellenza.
Penso ad esempio a Galway, cittadina della costa atlantica, presa d’assalto e devastata da orde di turisti, o Powerscourt, una villa ottocentesca con parco annesso, che in Italia non meriterebbe menzione particolare tra le guide turistiche… «Gli irlandesi dovrebbero insegnare a noi italiani a come valorizzare il nostro patrimonio» sentenzia una coppia di italiani di fronte alla Kylemore Abbey.
Ma l’entrata in Europa dell’Eire, ha portato anche allo sviluppo dell’economia produttiva: «Sono riuscita a portare l’Irlanda da paese trainato a paese trainante dell’Europa» dice orgogliosa la presidente Mary McAleese, alla guida della nazione dal 1997, quando sconfisse con il 44,8% dei voti la rivale Mary Canotti.
I numeri che oggi sfoa l’economia irlandese si avvicinano più a valori asiatici che europei: tra il 1995 e il 2004 è aumentata del 7%, mentre la produzione industriale nel solo 2005 è cresciuta del 3%.

Solidarietà smarrita

Tutto questo, però è costato enormi sacrifici agli irlandesi: l’agricoltura, voce trainante del sistema fino a qualche lustro fa, ha subito un vero e proprio tracollo, contribuendo, oggi, solo per un mero 5% del Pil e occupando l’8% della forza lavoro. L’industria, per contro, partecipa per il 46% al Pil, occupando il 29% della forza lavoro.
Lo spostamento degli investimenti dalle zone rurali a quelle industriali ha causato il dislocamento di migliaia di persone, le quali non tutte hanno trovato sistemazioni adeguate. A Dublino e a Limerick si stanno ingrossando i sobborghi popolari, in cui si concentra la maggioranza del 4,2% della popolazione disoccupata e il 10% di chi vive al di sotto del limite della povertà.
Già, perché l’Irlanda, quella vera, quella non toccata dal turismo, quella che i «cercatori» di druidi e folletti non vedono, è anche questa: povertà, emarginazione, sfruttamento. «La globalizzazione e la Comunità europea hanno impoverito i lavoratori. Si chiudono scuole, asili, centri comunitari lasciando alle singole famiglie il compito di provvedere a trovare soluzioni che dovrebbero essere compito delle amministrazioni pubbliche» dice Sean Garland, segretario generale del Workers’ Party (partito dei lavoratori).
Così ci si affida sempre meno allo stato e sempre più alle organizzazioni religiose, alle cornoperative o all’autogestione. Nei Ballymun Flats, un quartiere popolare alla periferia di Dublino, la povertà e la criminalità è tra le più alte dell’intera isola. Padre McCarthy vi lavora da anni con una comunità di recupero per drogati: «L’uso di stupefacenti non ha ancora raggiunto i livelli che si riscontrano in Gran Bretagna e nelle città-ghetto britanniche, ma questo potrebbe ben presto cambiare. Lo stato sta gettando la spugna, preferendo occuparsi dei cittadini “modello” che non danno problemi. I diseredati, gli emarginati, i disoccupati, i poveri possono essere sacrificati. Tocca a noi occuparci di loro».
L’Irlanda sta davvero cambiando: l’Europa economica di Maastricht ha prevalso sulla solidarietà, che ha salvato milioni di vite durante le innumerevoli carestie del passato. E allora come non dare ragione a Joseph O’Connor, quando afferma «il fatto che, a parte Yeats, tutti i più importanti scrittori irlandesi degli ultimi 150 anni siano stati socialisti rivoluzionari, è stato dimenticato da coloro che insegnano storia nelle scuole».

La storia irlandese sta cambiando. L’Irlanda sta cambiando.
E in questa Irlanda che sta cambiando, ma di cui nessun turista sembra o voglia accorgersene, leggo l’epitaffio che Yeats stesso scrisse per la sua tomba a Drumcliff:
«Sotto la vetta spoglia
del Ben Bulben,
nel cimitero di Drumcliff
è sepolto Yeats.
Uno dei suoi antenati
ne fu parroco,
anni e anni fa;
una chiesa si erge lì vicino;
presso la strada
v’è un’antica croce.
E niente marmo,
niente frasi convenzionali;
sul calcare scavato
in quello stesso luogo
queste parole sono state incise
per sua volontà:
Getta uno sguardo freddo
sulla vita e sulla morte.
Cavaliere,
prosegui il tuo cammino!».
Leggo… e proseguo il mio cammino.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali

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