«Tu non adorearai le pietre»

Mentre gli estremisti delle opposte fazioni continuano a confrontarsi e la diplomazia finge dialoghi che preludono più alla guerra che alla pace, numerosi movimenti e gruppi israeliani nonviolenti, dentro e fuori d’Israele-Palestina, si oppongono all’occupazione israeliana di terre palestinesi, difendono i diritti umani e lavorano concretamente alla costruzione di una pacifica convivenza fra i due popoli. Tali movimenti, purtroppo, raramente sono portati a conoscenza dell’opinione pubblica.

Paola Canarutto è un medico torinese, ma è anche la rappresentante per l’Italia dell’organizzazione del Ejjp (European Jews for a Just Peace). Ad aprile era tra i candidati alla Camera, all’interno di un partito che ha assunto posizioni coraggiose a favore del popolo palestinese e contro la politica di oppressione di Israele. E lei vi ha aderito anche per questo.
L’abbiamo incontrata subito dopo il suo viaggio di solidarietà con la popolazione palestinese di Bi’lin, a febbraio 2006.

Dottoressa Canarutto, quando è nata la Ejjp e perché?
La Ejjp, che rappresenta una sorta di «ombrello» di organizzazioni ebraiche contro l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, è stata creata ad Amsterdam, nel 2002, per iniziativa di tre anziane signore ebree olandesi, che fanno parte dell’associazione «Un’altra voce ebraica». In quell’occasione, hanno invitato nella capitale olandese rappresentanti di organismi ebraici europei ed è stata siglata la «Dichiarazione di Amsterdam».
L’obiettivo era quello di promuovere una pace tra Israele e la Palestina, che prevedesse il ritiro israeliano entro i confini del ‘67. Teniamo conto che questa riunione è avvenuta due anni dopo lo scoppio della «seconda intifada».

Un obiettivo coraggioso, tenuto conto del silenzio internazionale sui diritti palestinesi violati quotidianamente…
(Ride) Coraggioso… Quindi, noi esistiamo da allora. La Dichiarazione di Amsterdam è la base su cui altre associazioni possono dare la propria adesione.

Concretamente cosa fate?
Quest’anno, a febbraio, abbiamo organizzato un viaggio di solidarietà in Palestina, che vorremmo ripetere.
In Ejjp c’è un comitato esecutivo, formato da sette persone, che si riunisce periodicamente nei vari paesi europei. Questa volta abbiamo deciso di portare concretamente la nostra solidarietà agli abitanti di Bi’lin e alla loro lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana. Ci siamo riuniti il 17, dopo la manifestazione a sostegno della popolazione palestinese. Il 21 si è svolta una conferenza internazionale: hanno partecipato i movimenti pacifisti Gush Shalom (lett.: blocco della pace), Rabbis for Human Rights (rabbini per i diritti umani) e altri gruppi.

Come mai avete scelto di sostenere la popolazione di Bi’lin?
Perché loro portano avanti una lotta nonviolenta. Tuttavia, noi non ci permettiamo di dire che non vada bene anche quella armata contro l’occupante, perché questo è un diritto riconosciuto dalle dichiarazioni inteazionali. La mia idea è che con la lotta armata, in questo caso specifico, non si ottiene nulla. Non significa che essa non sia utile in assoluto. Dobbiamo infatti ricordarci che la nostra resistenza è stata armata, dunque, lungi da me giudicare.
È necessario tenere in considerazione che i palestinesi sono soli e che l’effetto di tirare una pietra o di farsi saltare in aria in un autobus si ripercuote solo su di loro, al di là del giudizio morale che possiamo dare. L’unica possibilità concreta è quella di ricevere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Quindi, abbracciare una battaglia nonviolenta.
Parliamoci chiaro, con la caduta del blocco sovietico, i palestinesi non hanno più sostegni. Sono stati abbandonati. Il risvolto pratico di quel poco di resistenza armata che riescono a organizzare è controproducente. È un boomerang.
In ogni caso, attaccare i civili non va bene: sia che ad organizzare attentati siano i movimenti islamici, sia che si tratti di quelli laici o di sinistra.
Inoltre, lo squilibrio delle forze è tale che non ottengono nulla: Israele li colpisce quattro volte tanto. Ha altri mezzi e i giornali stanno quasi tutti dalla sua parte.

Dunque, l’interlocutore palestinese è scelto in base alle modalità di lotta.
Sì, deve essere pacifica e nonviolenta, proprio per stimolare lo sviluppo di questa linea. Bi’lin resiste da mesi.

La popolazione locale come vi ha accolti?
Era felicissima. Anche quando siamo andati a piantare gli alberi di ulivo, che poi gli israeliani hanno sradicato quasi subito. Alla conferenza del 20-21 ci hanno addirittura offerto da mangiare e da dormire, tutto a spese del villaggio, su cui pesa una disoccupazione altissima. La riunione del nostro Comitato esecutivo è stata ospitata nella loro sala consiliare. Anche questo è significativo.

Non ci sono state diffidenze nei vostri confronti, dunque?
Assolutamente no. Nel linguaggio comune, i palestinesi identificano i soldati israeliani con gli ebrei, poi, nella pratica, sanno distinguere un aspetto dall’altro e son felici di riceverci. E questo non è scontato.

Quanti aderenti a Ejjp ci sono in Italia?
Pochi.

Come siete visti dalle comunità ebraiche?
Male, come dei traditori della patria. Ma io non sono più iscritta alla comunità già da tempo.

È praticante?
No. Dal ’98 sono fuori dalla comunità. Frequento quella di Agàpe, nelle valli pinerolesi, in provincia di Torino.
Ho studiato per sette anni nella scuola ebraica e ho capito che quello che mi avevano raccontato non corrisponde al vero. Dunque, mi sono sentita presa in giro.

Il suo legame con l’ebraismo è culturale soltanto?
Il legame è obbligatorio nel momento in cui ci si vuole dissociare dalle politiche israeliane. Si dice che quello è lo stato degli ebrei e così a me tocca prendere le distanze e dire: «Scusate, ma mi avete chiesto in cosa mi riconosco?».
Il problema n.1 è questa identificazione tra l’ebraismo e lo stato israeliano. Il problema n.2 è che chi condanna le pratiche israeliane contro la popolazione palestinese è accusato di essere antisemita. Dunque spetta a noi ebrei parlare, opporci a queste politiche.

Si tratta di una strumentalizzazione, perché il rispetto dell’ebraismo, come religione e cultura, non comporta automaticamente l’accettazione delle scelte dello stato israeliano. Ultimamente i due aspetti vengono associati…
Infatti. Perché, in realtà, la storia di quel luogo è molto semplice: il gruppo A ha deciso di espellere il gruppo B dal paese dove abitava per viverci lui. È accaduto nel 1947-48, nel 1967 e sta accadendo oggi. Però i sionisti nascondono l’evidenza dei fatti e della storia, prendendo come scusa e giustificazione la necessità dell’esistenza dello Stato degli ebrei.
Su questo discorso non c’è unanimità in Ejjp, ma ciò su cui siamo tutti d’accordo è che Israele deve ritirarsi dai confini del 1967. Certamente, la maggior parte del Comitato esecutivo è anti-sionista.

Qualcuno di voi è contrario all’esistenza dello Stato di Israele?
È contrario al sionismo, cioè a uno stato costituito su base religiosa, in cui gli appartenenti all’ebraismo abbiano più diritti degli altri.

Quale sarebbe, allora, la soluzione migliore?
Ci sono alcuni che sono favorevoli allo stato binazionale, e questa è una posizione rispettata; altri sostengono che debbano scegliere gli abitanti il tipo di stato da creare, basato però sull’idea del «un uomo, un voto».
Poi c’è l’opzione «due popoli e due stati». Una di queste soluzioni deve essere accolta: adesso la situazione è di apartheid, e non può essere condivisa. Così non è democratico.

La storia dei due popoli non è in contrasto: sono entrambe religioni abramitiche, con un lungo passato in comune…
Mi sono laureata in Lettere a ottobre e la mia tesi aveva come argomento il giudeo-cristianesimo in Transgiordania e Siria: gli ebrei che arrivano lì sono cugini dei palestinesi che buttano fuori ora. Tito, nel 70 d.C., non li aveva espulsi tutti: aveva mandato via i capi. Tant’è che il vangelo di Matteo è giudaico-cristiano ed è stato scritto nel 90, in Galilea; la Mishnà, sempre in Galilea, nel 200; il Talmud palestinese è del 400. Gli ebrei sono sempre stati lì e in parte si sono convertiti al cristianesimo, in parte all’islam, altri sono rimasti tali.
Questa vicenda è ancora più brutta di quella dei pellirossa: perché lì, coloro che i bianchi mettevano nelle riserve non erano i «propri cugini». Qui sì.

Però nessuno ha il coraggio di dire queste cose pubblicamente…
Si tenta di fare quello che si può. Cerchiamo di tessere relazioni con associazioni palestinesi. A Torino lavoriamo con il Comitato di solidarietà con il popolo palestinese. A Roma hanno fondato il gruppo Kidma, che organizza un cineforum dal titolo «Al cinema con il nemico».

Mi pare di capire che i vostri interlocutori palestinesi in Italia sono laici?
Certo. In Palestina, no. Il viaggio di febbraio era organizzato da un’associazione ebraica, la nostra, e non poteva avere un interlocutore solo: abbiamo incontrato il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), Fatah e Hamas.
Con Hamas, la simpatia reciproca è scarsa, perché noi siamo laici. Dopo di che, riconosciamo che le elezioni sono state democratiche, ci congratuliamo con la popolazione e ci auguriamo che Hamas continui su questa linea e che non imponga la shari‘a.

Per concludere, possiamo affermare che esiste una via non-sionista all’ebraismo?
Sì. Il sionismo ha fatto fallire anche uno dei principi dell’ebraismo, che è la non idolatria. La santificazione del muro del pianto, dei luoghi sacri ebraici, della tomba di Rachele, ecc. sono idolatria allo stato puro. Una delle raccomandazioni che gli ebrei si sono ripetuti per 2400 è: «Tu non adorerai le pietre». Ma guarda un po’, invece, cosa è successo!

a cura di Angela Lano*
*Da gennaio 2006 Angela Lano è responsabile del sito web www.infopal.it che si occupa di Palestina

Angela Lano

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