Tante ragnatele fermano l’elefante
In un contesto di contraddizioni e ingiustizie eclatanti, oggi più che mai, la missione della chiesa è chiamata a promuovere i valori del regno di Dio: giustizia, pace e salvaguardia del creato, facendosi «voce dei senza voce» nelle istituzioni in cui si fanno scelte che riguardano i paesi poveri del mondo.
Lo stanno facendo le congregazioni missionarie operanti in Africa, mediante la «Rete fede e giustizia Africa-Europa» (Aefjn), nei parlamenti dell’Unione europea e dei paesi che la compongono.
In febbraio 2004, circa 11 milioni di inglesi hanno seguito uno dei cosiddetti Reality shows: «Sono una celebrità, venite a liberarmi», dove un attempato cantante rock, una modella e un ex corrispondente governativo parteciparono a un gioco di sopravvivenza, in una remota parte della foresta vergine australiana.
Tale programma non ha niente a che fare con la realtà, perché basato su false sofferenze e false celebrità, con lo scopo di intrattenere cittadini annoiati e ben nutriti di una società consumistica. In molte parti del mondo, invece, si combatte una reale lotta per l’esistenza e nessuno vede. Non si tratta di false celebrità, ma di milioni di persone che lottano ogni giorno per sopravvivere: con loro e per loro dobbiamo essere agenti di speranza e liberazione integrale.
Il cristianesimo è fondamentalmente una religione di speranza: è basato sulla promessa del progetto di Dio per l’umanità e per tutta la creazione; vive perché tale promessa diventi realtà. La missione cristiana scaturisce da questa speranza e le dona un’espressione concreta. Anzi, la missione è «speranza in azione» (David Bosch). È il mezzo con cui l’avvenire che speriamo è introdotto in una relazione trasformante con il presente in cui viviamo. È «il ponte di Dio verso un mondo che non è ancora arrivato alla dimora che gli è stata preparata» (Carl E. Braaten).
UN MONDO GLOBALIZZATO
Oggi tutti parlano di «globalizzazione», ma c’è poco accordo sul suo significato e su come reagire al riguardo. Il gesuita Peter Henriot la definisce come «l’integrazione delle economie mondiali tramite il commercio, flussi finanziari e scambio di tecnologie e informazioni».
Qualsiasi definizione, tuttavia, non riesce a farci percepire le enormi trasformazioni portate in ogni aspetto della nostra vita dal rapido sviluppo delle cosiddette tecnologie di informazione. «Nel bene o nel male, siamo catapultati in un ordine globale che nessuno capisce pienamente, ma i cui effetti sono risentiti da noi tutti» (Anthony Giddens).
Il problema non è tanto il suo processo in sé. La globalizzazione può essere buona o cattiva: dipende da ciò che è globalizzato. Potrebbe essere usata per estendere i benefici di un capitalismo socialmente responsabile e una scienza e una tecnologia umanizzata per tutti i popoli: e sarebbe la ben venuta.
Ma ad essere globalizzato sono il capitalismo liberale irresponsabile («capitalismo selvaggio» lo ha definito Giovanni Paolo ii), a vantaggio dei ricchi e a spese dei poveri, e una tecnologia materialista, che sfrutta e distrugge la natura. Questo è problematico e profondamente inquietante. A dominare la scena mondiale oggi è il libero mercato. Il globo è visto come un mercato guidato dalla voglia di profitto d’imprese private, che non conosce frontiere nazionali né interessi locali.
«Oggi i ricchi capitalisti hanno un mercato globale dove giocare a tutto campo – afferma il teologo indiano Michael Amaladoss -. Le facilitazioni della comunicazione rapida e su scala mondiale sono utilizzate per aumentare i profitti, procurandosi mano d’opera a buon mercato nei paesi poveri. I mercati inteazionali giovano alle nazioni ricche che li controllano. I settori commerciali e di servizi sono favoriti, mentre i prodotti di prima necessità perdono valore. I parlatori di diritti di proprietà intellettuale ignorano i diritti umani e naturali. Le multinazionali sono più potenti di molti paesi. I politici sono dappertutto a servizio di interessi commerciali. Le nazioni più ricche usano la potenza politica e militare, anche fuori dei loro confini, per favorire e proteggere i propri interessi economici… Ciò che abbiamo non è la globalizzazione del benessere e dell’abbondanza, ma dell’ingiustizia e povertà».
AFRICA GLOBALIZZATA
Gli effetti negativi della globalizzazione sono visibili specialmente in Africa: le statistiche mostrano chiaramente che per la maggior parte degli africani non funziona bene. Se in qualche parte del mondo la globalizzazione ha offerto opportunità di crescita economica e sviluppo, in Africa ha aumentato disparità e ineguaglianze. Su 48 paesi in via di sviluppo nel mondo, l’Africa ne conta 33 e ha il più alto debito commerciale. Nell’ultimo decennio il Prodotto interno della maggioranza dei paesi africani ha subito un costante declino, mentre i prezzi dei prodotti da esportazione sono in caduta libera.
Per i paesi più poveri dell’Africa la globalizzazione ha significato l’apertura alle importazioni e industrie straniere e la distruzione delle imprese locali. Ne è un esempio il processo di «deindustrializzazione» avvenuto nello Zambia, dove l’industria tessile, una volta fiorente, è stata spazzata via dalle importazioni dall’Asia; piccole industrie, come quelle produttrici di pneumatici e materiale sanitario, hanno chiuso a causa della concorrenza di grandi ditte del Sudafrica.
La promozione di Investimenti stranieri diretti (Fdi, Foreign direct investment) è stata salutata come nuova motrice di sviluppo, ma il loro flusso in Africa è molto piccolo, a vantaggio di pochi paesi come il Sudafrica e di un’élite già privilegiata.
Inoltre il processo di globalizzazione in Africa ha portato all’imposizione di dure riforme economiche, dettate dal «programma di aggiustamento strutturale» (Sap). Tali aggiustamenti strutturali hanno significato: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, delle tasse scolastiche e sanitarie, diminuzione di occupazione e smantellamento di strutture economiche locali.
Gli economisti neoliberali sostengono che, con l’attuazione del Sap, vi può essere «difficoltà a breve termine, ma un vantaggio a lunga scadenza»; in Africa, però, la «sofferenza temporanea» dei tagli ai servizi sociali, il danno ecologico e l’erosione delle industrie di base avrà a lungo termine effetti disastrosi, rendendo impossibile la speranza di uno sviluppo umano integrale e continuo.
Una delle conseguenze più disastrose di tali aggiustamenti è quella di rendere inutili le popolazioni africane: negli ultimi anni in molti paesi dell’Africa la disoccupazione è aumentata del 14% e i governi non hanno incluso alcun programma esplicito a favore dell’occupazione.
Non esiste né cooperazione né progresso, quando non si tiene conto della popolazione che vive sul posto, salvo venire usata da interessi stranieri per trae il maggior profitto. La globalizzazione guarda all’Africa e agli africani come componenti di un mercato libero globale, prescindendo da considerazioni di sostentamento e sviluppo umano integrale.
In breve, l’88% dei paesi africani sono considerati ad «alto rischio», a causa dell’instabilità politica e leadership corrotta, violenza e anarchia, tribalismo e razzismo, avidità di profitto economico e noncuranza dei diritti umani.
Il 40% dei paesi africani sono in guerra e sconvolge la vita di oltre 100 milioni di africani, in maggioranza donne e bambini, causando dislocamenti di popolazioni, massacri, perdite di vite umane, bambini soldati, fame, distruzioni di scuole, ospedali e infrastrutture varie.
Più di 300 milioni di africani vivono con meno di un dollaro al giorno; oltre un terzo dei bambini sono denutriti; 25 milioni di africani vivono con la sindrome Hiv/Aids (il 70% degli infettati in tutto il mondo).
MISSIONE È…
TRASFORMARE IL MONDO
Fino a poco tempo fa, la missione mirava in generale a estendere la chiesa, così com’era, fino agli estremi confini della terra, più che alla trasformazione di se stessa e del mondo, alla luce della speranza cristiana di una nuova terra e nuovi cieli.
Ma non è stato sempre così. La missione cristiana delle origini, soprattutto come la comprendeva san Paolo, era ispirata e diretta dalla speranza di una nuova creazione. Nella visione di Paolo missione e speranza erano intimamente legate: la missione spiana la strada e prepara l’umanità per la tappa finale del regno di Dio, quando non solo l’umanità, ma tutta la creazione sarà liberata e trasformata sul modello della risurrezione di Cristo.
Per Paolo, missione significa annunciare la signoria di Cristo su ogni realtà e invitare i popoli a rispondervi. Ciò significa proclamare una nuova situazione, che Dio ha iniziato con Cristo; una situazione che interessa tutte le nazioni e tutta la creazione e che culmina nella celebrazione della gloria finale di Dio.
Ma la predicazione in sé non basta. La vittoria finale del regno di Dio non giustifica la passività. La missione chiede e sostiene una partecipazione attiva al piano di Dio per la liberazione dell’umanità qui e ora.
Nella teologia paolina della missione troviamo il fondamento per una protesta coraggiosa contro le strutture oppressive del peccato e della morte e per un impegno totale nella promozione della giustizia, pace e integrità del creato. Alla luce della venuta gloriosa del regno di Dio, i cristiani sono chiamati a sfidare le strutture oppressive e rendere visibili i segni del nuovo mondo di Dio.
DEFINIZIONI E ATTITUDINI
Abbiamo tante definizioni della missione. Quelle che più mi piacciono, in linea con l’insegnamento di Paolo, sono le seguenti: la missione è «trasformazione del mondo in regno di Dio» (Sean Healy); «proclamazione giorniosa e universale della risurrezione di Cristo»; «effusione del divino Spirito di vita e d’amore dal Signore Risorto in tutti gli esseri umani e nell’intero cosmo»; «cooperazione illimitata tra Dio e gli esseri umani nel modellare continuamente un mondo libero da ogni tipo di peccato e schiavitù e nel ricrearlo senza sosta, fino alla pienezza d’amore e vita voluta da Dio».
Da tali definizioni derivano attitudini specifiche. Prima di tutto occorre testimoniare con la vita più che con le parole. «La rosa non ha bisogno di predicare. Effonde semplicemente il suo profumo. La fragranza è il suo sermone» (Gandhi).
E poi, ascoltare prima di parlare; operare con la gente, anziché per la gente; imparare prima d’insegnare; non avere tutte le risposte; essere attenti alla voce dello Spirito che ci parla negli altri e attraverso gli altri; scoprire Cristo nell’altro e convertirsi all’altro; avere il coraggio di essere umili; soffrire con gioia; agire con speranza in mezzo alla disperazione…
La conseguenza ovvia della missione così intesa è che l’ impegno per la giustizia, non è semplicemente un’area o una dimensione della missione della chiesa, ma il cuore di ogni missione e servizio svolto in nome di Cristo e del vangelo.
Se la sollecitudine e l’impegno attivo per un mondo più giusto, pacifico e sano non è al centro delle varie attività apostoliche, non può esserci una vera testimonianza e proclamazione del vangelo integrale di Cristo. L’impegno per creare un mondo più giusto, pacifico e sano è una dimensione essenziale e integrale della testimonianza della chiesa a Cristo e al regno di Dio nel mondo d’oggi. Forse questa è la sfida più impegnativa per le congregazioni religiose.
In tale impegno ci sono tre dimensioni fondamentali e interdipendenti: fare e avere esperienza del mondo degli esclusi ed emarginati; riflettere sul mondo e capirlo dalla prospettiva di tale esperienza; lavorare assieme ai poveri ed emarginati in programmi di azione diretti alla trasformazione del mondo.
ESPERIENZA ED ESPOSIZIONE
Le tre dimensioni sono collegate, ma distinte, con propri metodi e traguardi. La prima (con l’accento sull’esperienza) usa il metodo di esporsi al mondo dei poveri ed emarginati e mira all’empatia con le vittime dell’ingiustizia e a vedere il mondo dal loro punto di vista.
Sperimentare il mondo degli esclusi deve essere il punto di partenza e di riferimento costante per tutti gli impegni di «giustizia, pace e integrità del creato» (Gpic). Tutto ciò è in linea con la «opzione preferenziale per i poveri», adottata più di 30 anni fa come criterio principale dell’impegno apostolico di molte congregazioni religiose e missionarie.
Oggi non se ne sente parlare molto, eppure è essenziale. Tale opzione scaturisce e prende forza dalla via scelta da Dio per coinvolgersi con amore nella vita dei suoi figli; ci fa vivere concretamente le beatitudini di Cristo e imitare i suoi metodi missionari. È dal punto di vista dei poveri e degli esclusi che incominciamo a percepire le vie di Dio e ad allinearci al suo progetto per l’umanità.
Nel passato la formazione religiosa e missionaria in genere avveniva in centri sicuri e confortevoli, lontano dalle inquietudini e lotte per la vita della maggior parte della gente, specie dei poveri. Ma non credo che ci siamo allontanati da questo tipo di formazione in modo significativo. Non è facile. Persino i recenti centri di formazione in Africa e Asia non hanno scelto di rompere con tale tipo tradizionale di strutture; anzi, sono più confortevoli che nel passato.
Per esporsi al mondo dei poveri bisogna entrare nei luoghi dove vivono, identificarsi con le loro paure, frustrazioni, lotte, giornie e speranze, come fece Gesù. Solo così si può imparare a sentire e simpatizzare con quelli che vivono ai margini della società economica e politica e vedere il mondo dal loro punto di vista.
RIFLETTERE E CAPIRE
La seconda dimensione usa l’investigazione, riflessione, ricerca metodica, con lo scopo di capire il mondo dal punto di vista delle vittime dell’ingiustizia. Come ogni esperienza, anche quella fatta con i poveri ed emarginati deve essere interpretata. Non basta l’empatia, il mettersi nei panni dei poveri. È d’importanza vitale leggere e capire il mondo dalla loro prospettiva. Tale lettura deve essere fatta, prima, alla luce del vangelo e della tradizione cristiana; poi alla luce del carisma specifico di ciascuna congregazione o istituto.
La formazione intellettuale, specie all’inizio, dovrebbe mirare a fornire ai candidati non solo fatti e risposte prefabbricate ai problemi sperimentati, ma anche strumenti e metodi che permettano d’interpretare e capire la realtà vissuta di persona e vista dalla parte degli esclusi.
Al tempo stesso è cruciale che siano comunicate certe informazioni basilari, specialmente sugli squilibri che affliggono il nostro mondo nel campo dell’economia, politica, rapporti sociali, relazioni tra uomini e donne e con l’ambiente. Questo non viene ancora fatto. Corsi specifici su tali problemi possono essere necessari per completare e concretizzare i normali programmi dei corsi di teologia, spiritualità e pastorale.
Inoltre i candidati, fin dalla formazione di base, dovrebbero essere incoraggiati a fare delle ricerche personali su problemi specifici, per esempio: valutare un determinato programma di aiuto, trattamento dei rifugiati in una certa area, soluzione di un conflitto, ecc. La conoscenza intellettuale del mondo non basta. Come cristiani dobbiamo avere una comprensione che unisce cuore e mente, spirito e intelletto.
AGIRE PER CAMBIARE
IN SOLIDARIETA’ CON I POVERI
Come servi del vangelo di Cristo, la nostra missione non è solo di capire il mondo, ma anche di cambiarlo, trasformarlo alla luce e in accordo con le esigenze dell’avvento del regno di Dio. La fede nel Risorto ci induce in una profetica scontentezza per come stanno le cose e in vista dell’avvenire promesso al mondo.
Per ciò la formazione alla giustizia include l’iniziazione a tecniche e pratiche necessarie per diventare attori effettivi del cambiamento sociale. Nel passato si dava molta attenzione, nei programmi formativi, alla conoscenza e alle tecniche necessarie per i ministeri spirituali e pastorali. C’è ugualmente bisogno di formazione per diventare attori efficaci in campo socio-economico; cioè attori capaci di motivare le persone, aiutarle a far valere le proprie ragioni, lavorare con loro in programmi di azione scelti dalla gente.
DIFESA DEI DIRITTI UMANI
L’«advocacy» (patrocinio) è una delle strategie più importante per promuovere la giustizia nei paesi in via di sviluppo. Le decisioni prese nell’emisfero nord hanno un impatto enorme e durevole sulla vita di milioni di persone dell’emisfero sud. È imperativo che la loro voce sia udita nel processo decisionale. Le congregazioni religiose non debbono eludere questa sfida, di patrocinare e farsi voce di chi non ha voce.
È chiaro che tale patrocinio (advocacy) è una strategia che richiede la più grande cooperazione possibile tra i religiosi e i gruppi laicali che hanno come comune ideale la creazione di un mondo più giusto.
L’Africa Faith and Justice Network (Afjn) e l’Africa-Europe Faith and Justice Network (Aefjn) sono state istituite specificamente per questo tipo di azione comune.
C’è un proverbio dello Zimbabwe che dice: «Quando le tele di ragni si uniscono, possono imprigionare un elefante». Il «vangelo della speranza», che siamo chiamati a proclamare con parole e opere, c’interpella e ci dà la forza d’imprigionare l’elefante delle strutture economiche ingiuste, in modo che il regno di Dio, che è giustizia, pace e amore, diventi una realtà per tutte le sue creature.
* Padre Michael McCabe, teologo irlandese, della Società delle missioni africane (Sma), è attualmente direttore dell’Aefjn e consigliere generale del suo istituto.
Michael McCabe SMA